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Da Suleiman a Maoz: come possiamo provare a comprendere il conflitto israelo-palestinese attraverso il cinema

Articolo. Da anni, il cinema racconta le pagine più dolorose del conflitto mostrandone le complessità, ponendo l’attenzione sulle divisioni interne ai due schieramenti in lotta, e mettendo a nudo le ferite e le contraddizioni che abitano la terra teatro degli scontri. Ecco alcuni film per chi volesse provare a capire come vede e racconta il mondo chi è nato in questi luoghi

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Gaza mon amour, Tarzan e Arab Nasser

Del conflitto arabo-israeliano sappiamo tutto, ma ci abbiamo sempre capito molto poco. Una guerra tanto feroce e che dura da più di settant’anni è infatti un fenomeno talmente complesso che nemmeno chi la vive in prima persona è in grado di comprendere fino in fondo, figuriamoci noi che guardiamo da lontano. Nelle ultime settimane l’ingente – e giusta – copertura mediatica sta contribuendo a far riaffiorare polarizzazioni, prese di posizione e opinioni molto nette in proposito, con il risultato di rendere tutto ancora più complicato e di intorbidire il dibattito pubblico.

Di fronte a una tragedia di queste proporzioni ogni parola sembra sprecata e forse il solo modo intelligente di porsi – oltre a continuare a seguire gli aggiornamenti e la cronaca della guerra in atto – è quello di informarsi, leggere, cercare di capire il meglio possibile di cosa si parli quando si parla di Israele e Palestina. Fra i tanti modi per farlo, un aiuto fondamentale lo dà certamente il cinema, che da anni racconta le pagine più dolorose del conflitto mostrandone le complessità, ponendo l’attenzione sulle divisioni interne ai due schieramenti in lotta e mettendo a nudo le ferite e le contraddizioni che abitano la terra teatro degli scontri.

Amos Gitai, Nadav Lapid e Ari Folman

Sia dalla parte palestinese che da quella israeliana sono numerosi gli autori che hanno affrontato il tema della guerra e si può dire che per le cinematografie di entrambi i paesi il conflitto sia l’elemento prevalente (se non l’unico) intorno a cui sono costruite le storie. Il regista più influente in assoluto da questo punto di vista è l’israeliano Amos Gitai. Nato ad Haifa, Gitai da giovane combatté la guerra del Kippur, un’esperienza che lo segnò profondamente – il film «Kippur» del 2000 nasce proprio da quel ricordo doloroso – e in seguito alla quale diventò un acerrimo oppositore della politica espansionista del proprio paese, guadagnandosi la fama di dissidente e girando numerosi documentari di denuncia. Un atteggiamento che gli procurò diversi problemi con la censura e lo spinse ad abbandonare Israele per molti anni. Oggi il cinema di Gitai, che è tornato a vivere nel suo paese, è senza dubbio una delle chiavi di lettura più efficaci – e straordinarie – per comprendere la complessità del mondo e della cultura israeliana. E film come «Kadosh» (1999), «Verso oriente» (2002), «Free Zone» (2005) o il più recente «Ana Arabia» (2013) sono opere di grande valore artistico e politico.

Nadav Lapid, anche lui israeliano e fra i più interessanti autori del cinema contemporaneo ha, allo stesso modo di Gitai, un rapporto conflittuale con il suo paese. I suoi due ultimi film raccontano in maniera molto sottile e allo stesso tempo profonda questo dissidio, sicuramente relativo alla storia personale dell’autore, ma esportabile su larga scala per quanto riguarda i cittadini di Israele. In «Synonymes» (2019) – Orso d’oro al Festival di Berlino – addirittura il protagonista, un ragazzo fuggito da Israele e intenzionato a non tornarci, cerca in tutti i modi di non parlare più la propria lingua per appropriarsi di una cultura diversa.

Un altro regista apprezzatissimo in tutto il mondo e il cui lavoro è un punto di riferimento per il cinema d’animazione contemporaneo è Ari Folman. Nato ad Haifa da una famiglia di ebrei polacchi – i suoi genitori furono deportati ad Auschwitz salvandosi miracolosamente –, similmente a Gitai ha un passato da soldato nell’esercito israeliano con il quale ha partecipato alla guerra del Libano e al massacro di Sabra e Shatila. Il suo film più celebre, «Valzer con Bashir» (2008), ripercorre quell’esperienza raccontandola come un trauma generazionale con slanci visivi straordinari e un uso dell’animazione unico.

Michel Khleifi, Elia Suleiman, Maha Haj, Tarzan e Arab Nasser

Il cinema palestinese, a differenza di quello israeliano non può contare – per ovvi motivi – su una scuola o una vera e propria tradizione, ma è sorretto dalle esperienze e dall’attività di autori, filmmaker e registi che nonostante enormi difficoltà si impegnano per raccontare le loro storie e il loro paese come testimoni ancora prima che come artisti. Michel Khleifi è uno dei pionieri del cinema palestinese ed è anche uno dei pochi intellettuali provenienti da quella zona geografica a immaginare e teorizzare non solo una convivenza pacifica e integrata con il popolo israeliano, ma una vera unità nazionale. Il suo film più celebre, «La storia dei tre gioielli» (1995) è un’opera dal grande respiro visivo che racconta della voglia di fuggire lontano dagli orrori della guerra e dell’odio etnico e religioso.

Una delle caratteristiche più peculiari del cinema palestinese contemporaneo, a dispetto di ciò che si possa essere portati a pensare, è però quella di fare spesso ricorso alla commedia. Forse per attitudine o per l’influenza del cinema di quello che è il più importante autore cinematografico palestinese di sempre – Elia Suleiman (su cui ci soffermeremo fra poco) – o magari per la voglia di cercare una sorta di evasione dai drammi del conflitto e “uscire” dai confini chiusi col filo spinato, molti registi si affidano alla leggerezza (almeno apparente) del genere comico.

Fra le diverse opere che vanno in questa direzione vale la pena citarne almeno due. «Personal Affairs» della regista Maha Haj è un divertente tentativo di riflettere su una delle questioni più dolorose per il popolo palestinese: quella dei confini, delle frontiere e dei conseguenti limiti alla libertà. La bravura dell’autrice consiste nell’astrarre dalla tragedia nei modi più inaspettati, come quando fa esplodere un tango appassionato e sensuale fra due giovani ragazzi arabi mentre sono trattenuti in checkpoint israeliano. Con «Gaza mon amour» i gemelli Tarzan e Arab Nasser – nati a Gaza e capaci di fuggire da quella prigione a cielo aperto con «un mare grande appena 5 chilometri» (come viene detto nel film) grazie alla passione sconfinata per il cinema – preferiscono non raccontare il conflitto o le costrizioni dei loro concittadini, ma mostrare come Gaza, per chi ci vive, sia (quasi) un posto come tutti gli altri. Un luogo dove si lavora, si ama, si muore e si aspetta che il tempo passi come in qualsiasi altro luogo, o forse in modo diverso, diversissimo, ma provando gli stessi sentimenti e le stesse emozioni di chiunque altro.

Purtroppo tutte le opere fin qui citate non sono facilmente reperibili e, a meno di volersi comprare i dvd o i bluray in vendita, diventa complicato riuscire a trovarle. Sono però disponibili sulle piattaforme più popolari (ed economiche) due film altrettanto importanti – uno palestinese e uno israeliano – firmati da due grandi autori del cinema contemporaneo che, restando sempre nel perimetro sin qui descritto, ci sentiamo assolutamente di consigliare.

Un’opera palestinese: «Il tempo che ci rimane» di Elia Suleiman (2009)

Disponibile su RaiPlay

Il già citato Elia Suleiman è senza dubbio il regista più rilevante e apprezzato del cinema palestinese, ma anche uno dei maggiori autori del panorama cinematografico mondiale. Nato a Nazareth da una famiglia palestinese di religione cristiana (ortodossa), ha lavorato a lungo negli Stati Uniti e dall’inizio degli anni Novanta ha iniziato a scrivere, produrre e dirigere cortometraggi, documentari e film quasi sempre incentrati sul passato e il presente difficile del suo paese. Ma, come si diceva, spesso con una dose di humour o di sottile ironia, dando vita a opere che usando il tono della commedia – a volte anche solo accennato, o virato verso il surreale e il nonsense – riescono a rendere ancora più incisivo il racconto.

Ne «Il tempo che ci rimane», che è probabilmente il capolavoro di Suleiman, il regista fa un’operazione semplice: prende un testo storico, ovvero il diario di suo padre, combattente durante la resistenza del 1948, e lo incrocia con i propri ricordi di ragazzo, cresciuto come “straniero in patria”, tra quella minoranza di arabi trasformati in cittadini israeliani, raccontando il tutto attraverso quattro episodi ambientati fra il ’48 e oggi. Gli stacchi tra le generazioni quasi non si sentono, lo sfondo rimane identico, l’atmosfera che si respira è asfittica, come i volti, dello stesso Elia o del padre, che col tempo invecchiano ma non cambiano espressione: attonita, bloccata, eppure incapace di rinunciare all’atto di resistenza che li anima. Questa esperienza di separazione, inquietudine, estraneità è però resa efficacemente tramite il registro della commedia.

Suleiman infarcisce con garbo l’intera pellicola di piccoli momenti comici: dal soldato iracheno che si perde all’inizio del film, alla jeep di militari israeliani che devono richiamare una discoteca palestinese al coprifuoco e finiscono per scandire il tempo con le proprie teste, allo stesso regista (anche attore) che tenta tramite un salto con l’asta di superare il famigerato muro che divide la Cisgiordania. La commedia tuttavia, diversamente da come succede abitualmente, non determina alcuna distanza con la realtà bruta degli eventi storici tragici che descrive. Semmai è prendendo alla lettera la sua apparente superficialità che l’evento restituisce la propria verità più scomoda. Come quando i soldati israeliani all’inizio del film, durante l’occupazione di Nazareth, si travestono da guerriglieri palestinesi e freddano una donna che si mette per strada a incoraggiarli. La maschera dice sempre qualcosa di più vero. La maschera non nasconde la verità, semmai ce ne rimanda la sua forma più pura.

Un’opera israeliana: «Foxtrot – La danza del destino» di Samuel Maoz (2017)

Disponibile su Amazon Prime

Samuel Maoz, vincitore del Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 2009 con «Lebanon», per quanto sia un autore poco prolifico (ha diretto solo tre lungometraggi in oltre vent’anni di carriera) ha una statura artistica di livello assoluto. Allo stesso modo di molti degli autori israeliani citati ha preso parte come soldato a una delle numerose guerre che il suo paese ha combattuto (e continua a combattere) nel corso degli anni. Più precisamente si trovò, appena ventenne, a bordo di uno dei carrarmati che guidarono l’invasione del Libano nel 1982. Anche per lui l’esperienza fu traumatica e in «Lebanon», tutto girato all’interno di un tank e ambientato proprio durante quella campagna bellica, ripercorre e ricostruisce le emozioni provate in quei giorni.

Il suo cinema del resto riflette da sempre sulla condizione umana, spirituale e collettiva della guerra. Non per caso – e con un evidente dose di autobiografismo – i protagonisti dei suoi film spesso sono dei soldati. In «Foxtrot – La danza del destino» Maoz racconta la storia della morte di un giovane soldato, ucciso in circostanze poco chiare mentre prestava servizio a un checkpoint sperduto nel nulla, attraverso tre momenti chiave. Nel primo mostra la reazione dei genitori – una coppia benestante di Tel Aviv – alla notizia, poi si sposta all’avamposto dove il ragazzo era stato assegnato raccontando la vita nei giorni precedenti la sua morte e infine di nuovo dai genitori, a distanza di anni nel momento in cui scoprono la verità sulla scomparsa del figlio e fanno i conti con i loro sensi di colpa e le loro rimozioni.

Il film è orchestrato veramente come la danza che il titolo evoca: il foxtrot. Ovvero un ballo che esige passi dai quali muove in direzioni diverse per poi tornare al punto di partenza. In effetti, quei tre diversi episodi sono altrettante declinazioni per fermarsi a pensare al senso stesso e ultimo della guerra, ma anche della vita-in-guerra. Perché con i suoi slanci grotteschi, spesso apparentemente fuori contesto (come quando il protagonista improvvisa una danza surreale mentre è di guardia nel suo avamposto fangoso e dimenticato) e profondamente metaforici, il cinema di Maoz ci invita a ragionare sulla condizione mentale di un popolo (o più popoli) che passa tutta la vita in uno stato di perenne conflitto. Riuscendo a mostrare, senza prendere nessuna posizione politica, come tutto questo crei un cortocircuito emotivo e comportamentale fortissimo. E come in fin dei conti la perdita di ogni razionalità e il moto di coazione a ripetere (e a restare inchiodato alla propria posizione) che il film mette in primo piano, siano lo specchio più efficace per descrivere la disumanità con la quale tutti – in quella parte di mondo – sono costretti a confrontarsi ogni giorno.

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