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Diego Manzoni, un medico al fronte racconta la sua guerra

Intervista. Anestesista rianimatore, da anni impegnato con organizzazioni umanitarie come Medici Senza Frontiere, presenterà il suo libro «Salam Aleikum» domani alle ore 18 in Biblioteca Tiraboschi

Lettura 5 min.
Il dottor Diego Manzoni

Sulla quarta di copertina si definisce «un medico alla ricerca di sé stesso nei luoghi e nei volti che incontra durante i viaggi». D’altra parte, lo scriveva anche Marcel Proust. Che il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nel guardare al mondo con occhi sempre nuovi. Nel fare esperienza con la mente e con il cuore, prima ancora che col corpo.

Diego Manzoni ha quarantasei anni, è nato a Costa di Mezzate e di mestiere fa l’anestesista rianimatore. Un mestiere che lo ha portato a prendere parte a progetti umanitari nelle fila di organizzazioni come Medici Senza Frontiere, International SOS, Croce Rossa Internazionale. Nel 2001, ancora studente, ha fondato Health-Aid onlus, un progetto internazionale volto a migliorare le condizioni sanitarie di una comunità rurale nel nord del Ghana. «Il tutto è nato con la passione per i viaggi – mi racconta, la voce squillante, sembra sorridere – Ad alimentare i miei movimenti è sempre stata la curiosità, la volontà di conoscere le altre culture. Ho provato ad unire a questo il mio lavoro, partecipando ad alcune missioni. All’inizio erano brevi, una o due volte l’anno, poi sono diventati più frequenti. Ricordo ancora la mia prima missione in zone di guerra: era il 2011, in Afghanistan, con Emergency».

MM: Diego, parto dal primo capitolo del tuo libro, «Salam Aleikum». «Si dice che si va in missione perché la gente ha bisogno di cure, perché Medici Senza Frontiere ha bisogno di operatori umanitari. Si va, perché noi abbiamo bisogno di partire, di andare via, di cambiare aria, di fare qualcosa di diverso». Cosa cercavi quando sei partito?

DM: Credo che noi che facciamo questo mestiere siamo delle anime irrequiete, che abbiamo bisogno di cambiare aria e andare a cercare quello che ci fa stare bene. Per come sono fatto io, avevo bisogno di andare a cercare da qualche altra parte alcune cose che poi ho scoperto con i viaggi: l’importanza delle relazioni, di collaborare ad un progetto con altre persone che la pensano come te.

MM: E quando queste persone non la pensano come te o hanno una cultura diversa? Come ti rapporti con i medici e gli infermieri locali?

DM: Ci sono sempre tanti tipi di esperienze. Solitamente è produttivo e costruttivo lavorare all’estero, perché da entrambe le parti ci si confronta, si impara, entrambe le parti giovano di questo scambio… In alcuni casi specifici, quando la cultura è molto diversa, diventa difficile perché ci sono alcuni temi delicati di cui è meglio non parlare: aspetti religiosi, differenze tra uomo e donna, il conflitto in atto. Finché si sta su un piano professionale, si rimane cauti, si pesano le parole, è davvero una bella esperienza per tutti.

MM: Health-Aid onlus, il progetto che hai fondato nel 2001 in Ghana, è nato proprio dall’incontro costruttivo con una persona del posto.

DM: Esatto. Quest’organizzazione è nata dall’amicizia mia e di un altro studente di medicina ghanese. Ci eravamo conosciuti durante uno scambio universitario. Lui veniva da una zona molto povera del Ghana e insieme abbiamo iniziato a preparare qualche attività in medicina preventiva. Al tempo non eravamo medici, ma studenti. In quella regione del Ghana è molto importante prevenire le malattie prima che queste si manifestino. Il progetto si è sviluppato poi attorno all’idea della prevenzione e della salute pubblica, dell’igiene, della nutrizione. Abbiamo aperto un ambulatorio, una scuola, un centro ricreativo, un laboratorio di informatica: tante cose che nel corso di questi ultimi vent’anni hanno aggiunto sempre più servizi per la comunità, che è una comunità rurale, molto povera, dove le risorse non arrivano. Con l’aiuto di altri volontari, abbiamo strutturato una realtà oggi ben consolidata, che offre servizi tutto l’anno.

MM: Nel tuo libro ti soffermi su tre paesi in particolare: Afghanistan, Yemen, Iraq. A Lashgar Gah, in Afhganistan, hai capito che la guerra non è quella spacciata per il bene di tutto, e non è quella venduta per la pace. Che la tua guerra è «quella di bambini sparati, di giovani mutilati, di razzi diretti sulle baracche abitate». Le tue parole mi hanno ricordato quelle di Gino Strada, fondatore di Emergency, organizzazione con cui hai lavorato proprio in Afghanistan. Adesso che stiamo vivendo un’altra guerra, quella in Ucraina, perché parlare di pace è così difficile?

DM: Perché parlare di guerra, fare la guerra, alimentare la guerra, fa sempre molto rumore. Parlare di pace non ha questi impatto: non fa guadagnare nessuno. La risonanza che la guerra ha è maggiore perché porta dietro di sé una scia di potere: economico, sociale, a differenza della guerra. Chi parla di guerra, fa la guerra è più potente. Questo l’ho constatato ogni volta: è l’uomo che è strutturato così, dall’inizio della sua storia.

MM: Per un medico, però, non ci sono né buoni né cattivi. Solo pazienti che arrivano e «mostrano la stessa disperazione negli occhi». Nel libro racconti di come ti sei trovato, una volta, a curare uno dei “figli di Allah”, un suicide bomber. Un attentatore.

DM: Per il medico, il paziente che ha di fronte non è amico né nemico, ma soltanto un paziente. Certo che ascoltando le storie, venendo a conoscere il contesto, come uomo, come persona, viene spontaneo provare delle emozioni, fare dei pensieri. Però bisogna demarcare una linea e astenersi da qualsiasi tipo di considerazione. In quel momento, io mi identifico nell’operatore umanitario che ha un compito, una responsabilità e questo è fondamentale: il ferito va curato indipendentemente da chi sia e da dove venga. È uno dei principi fondamentali di Medici Senza Frontiere.

MM: Le condizioni di lavoro al fronte sono condizioni difficilissime: penso all’aneddoto che riporti in «Salam Aleikum», quando hai chiuso il buco nella vena di un bambino con una pallina di cera.

DM: Sai, bisogna davvero ingegnarsi, essere creativi e cercare le soluzioni possibili nel contesto con le poche risorse che si hanno. Talvolta è difficile, ma quando ci riesci diventa stimolante, gratificante. Bisogna mettersi in gioco, chiedere a un sacco di persone, trovare idee… non sempre purtroppo si riesce, perché quando mancano delle cose – il sangue, ad esempio – c’è poco da fare, se non c’è non c’è.

MM: Vi capita spesso di dover evacuare all’improvviso un ospedale da campo? Come funziona?

DM: Allora, quando si verificano queste condizioni (che sono valutate attentamente dai nostri coordinatori e dai nostri specialisti della sicurezza) bisogna semplicemente eseguire gli ordini. A volte capita di abbandonare le strutture in fretta e furia, ma non abbandoniamo mai i pazienti. I pazienti vengono lasciati in cura alle persone locali che hanno lavorato e lavorano con noi e con le quali c’è un contatto continuo. Semplicemente, i medici internazionali lasciano il posto perché è diventato pericoloso per loro. A me è capitato alcune volte di vivere questi casi di evacuazione o ibernazione (in cui ci si chiude in un bunker per alcuni giorni e si aspetta che la crisi sia passata), sono tutte delle strategie per minimizzare i rischi e per garantire la sicurezza.

MM: Un momento particolarmente bello che ricordi dalle tue esperienze al fronte?

DM: C’è un’immagine, che ricordo bene. Un bambino che era stato amputato bilateralmente alle gambe perché era scoppiata una mina. Era stato in ospedale tanto tempo, all’inizio aveva anche una sorta di rifiuto, di pensieri negativi rispetto alla sua condizione. Il giorno in cui è uscito dall’ospedale con la sua carrozzina l’abbiamo visto sorridente, sembrava felice. Per me era stato un momento molto commovente.

MM: È difficile tornare a casa?

DM: Sempre, perché si creano relazioni, amicizie, momenti di condivisione che poi mancano. La maggior parte delle volte si sa che non incontreremo più le persone che lasciamo. È un peccato perché con alcune si condividono momenti molto forti e dirsi addio è sempre doloroso.

MM: Dedichi il tuo libro ai colleghi, i pazienti e i loro familiari morti durante il bombardamento dell’ospedale di Kunduz in Afghanistan, nel 2015.

DM: Ero tornato in Italia da qualche mese. La notizia di questo bombardamento, che ha comportato la morte di persone che conoscevo in prima persona, è stato uno shock.

MM: Hai progetti imminenti?

DM: Nei prossimi mesi non ho programmi ben definiti. Probabilmente la settimana prossima inizierò un nuovo progetto sull’isola di Nauru, in Oceania, per sei settimane. Lavorerò con dei rifugiati all’interno di un centro di detenzione. Oltre o dopo di quello non so cosa farò, lascio che le cose accadano quando e come devono accadere.

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