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«Donne, razza e classe»: razzismo e sessismo sono (ancora) due facce della stessa medaglia

Articolo. È il testo forse più celebre dell’attivista e filosofa americana Angela Davis, pubblicato nel 1981: per la prima volta nel discorso femminista è messo in evidenza l’intreccio tra razzismo, sessismo e sfruttamento di classe. Un’analisi di grande lucidità e influenza teorica, la cui validità è ancora oggi evidente

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Angela Davis durante una manifestazione

Il concetto di “intersezionalità” è ormai centrale nella riflessione (non solo) femminista contemporanea. Si riferisce alla sovrapposizione di diverse linee di discriminazione che possono trovarsi all’interno delle identità sociali, con l’obiettivo di descrivere la complessità delle esperienze di fronte alla convergenza di diverse categorie biologiche, sociali e culturali: genere, etnia, provenienza, classe sociale, orientamento sessuale, orientamento politico, identità di genere, religione. Tutti fattori di discriminazione, lo sappiamo. Una discriminazione che si costituisce però in maniera differente – e che pesa in maniera differente – a seconda del loro combinarsi.

Il concetto è stato introdotto ufficialmente dall’attivista e giurista statunitense Kimberlé Crenshaw, ma è merito proprio di Angela Davis e del suo «Donne, razza e classe» aver aperto la strada a questo tipo di interpretazione. Ragionare per categorie statiche, univoche, archetipiche sembra così non riuscire più a registrare il polso della società contemporanea: “la donna”, “il migrante”, “l’omosessuale”, “il musulmano” e via dicendo, è come se non esistessero se non all’interno delle esperienze composite in una realtà che è poliedrica, sfaccettata. Ed è forse questo l’aspetto che ancora oggi conferisce freschezza al saggio di Angela Davis, la cui capacità critica e analitica riesce a mettere in risalto limiti e contraddizioni non solo delle parti di società che esercitano oppressione e discriminazione, ma anche di quelle che lottano per la liberazione.

Grande attenzione è dedicata alla soggettività delle donne nere, al sessismo nel movimento abolizionista, al razzismo nel movimento per il suffragio femminile, in particolare del femminismo bianco e middle-class , più interessato a non perdere il sostegno delle donne bianche del sud razzista che alla causa di emancipazione dall’oppressione della comunità nera. Una comunità la cui vita dopo l’abolizione della schiavitù «trasudava ancora schiavismo», e si vedeva oltretutto sconvolta dal dilagare del linciaggio come pratica quotidiana di oppressione post-schiavitù: «La neutralità riguardo la lotta per l’uguaglianza dei Neri rafforzò l’influenza del razzismo all’interno della National American Woman Suffrage Association (...) una posizione evasiva sul razzismo significava restare neutrali anche di fronte al linciaggio e all’assassinio di migliaia di neri», scrive Davis.

E aggiunge che soprattutto dall’inizio del Novecento «il suprematismo bianco e il maschilismo, che si erano sempre corteggiati, si abbracciarono alla luce del sole e consolidarono la propria relazione (...) La promozione sempre più amplificata della propaganda razzista era accompagnata dalla diffusione parallela di idee sull’inferiorità delle donne. Mentre le persone di colore, negli Stati Uniti e all’estero, erano dipinte come barbari incompetenti, le donne bianche erano rigorosamente rappresentate come figure materne, la cui fondamentale ragion d’essere era allevare i maschi della loro specie (...) Mentre il razzismo sviluppava radici durature all’interno delle organizzazioni femminili bianche, anche il culto sessista della maternità si infiltrava in quel movimento che pretendeva di eliminare la supremazia maschilista. Razzismo e maschilismo si fortificavano a vicenda».

«Donna, nera e comunista»

Per un personaggio pubblico negli Stati Uniti degli anni Sessanta prima e di Richard Nixon poi, essere donna nera e comunista è senz’altro una combinazione “micidiale”. Lo è ancora oggi in tante società occidentali (si pensi anche solo a Marielle Franco).

Ma chi era dunque Angela Davis? Icona del «Black Power» degli anni Settanta, si unisce per un breve periodo alle «Pantere Nere» durante gli anni Sessanta, per poi iscriversi al Partito Comunista Americano, di cui farà parte fino al 1991. Da giovane studia con Herbert Marcuse, con Adorno a Francoforte, a Parigi approfondisce l’opera di Frantz Fanon. Comincia così a maturare la una riflessione in cui razzismo e classismo si intrecciano in maniera inestricabile, dentro cui articola connessioni tra le discriminazioni dello spazio coloniale e quelle della società americana.

In questo breve ma denso video del canale Youtube «Donne e pensiero politico» dedicato proprio ad Angela Davis, Raffaella Baritono spiega che, a partire proprio dal libro «Donne, razza e classe», l’attivista americana si fa convinta interprete di una filosofia che vede la liberazione degli afroamericani irrealizzabile se non all’interno di un movimento internazionale anticapitalista e antimperialista: si concentra meno sull’apologia di quella che definisce «estetica nera», identificando un limite del «nazionalismo culturale» nero per concentrarsi soprattutto su un’analisi delle condizioni politiche ed economiche che creano oppressione e disuguaglianza. Facendo questo segna anche, come anticipato, «una distanza con il femminismo bianco radicale che vedeva nell’oppressione sessuale il fattore originario radicato nella differenza biologica uomo-donna e che costituiva l’esperienza comune di ogni donna, tutte vittime allo stesso modo di un sistema di dominio patriarcale da cui derivavano tutti gli altri sistemi di dominio».

È così che le grandi masse operaie di immigrati sfruttati nelle fabbriche del nord rappresentano i nuovi schiavi del sistema capitalistico, come i neri del sud sono gli schiavi dei latifondisti, pur considerando la disparità delle loro già misere condizioni. Neri, immigrati, operai bianchi: sono gli elementi principali di quella che Davis chiama working class, categorie che possono emanciparsi solo “socializzando” la loro lotta, non considerandosi isole. E soprattutto facendo i conti con l’interiorizzazione di alcune scorie dell’ideologia suprematista proprie (anche) della società bianca americana: forme di potere patriarcale, stereotipi.

In dialogo col presente

C’è un capitolo notevole, nel volume di Davis, che può fornire strumenti per riflettere su alcune vicende del presente. Si intitola «Stupro, razzismo e il mito dello stupratore Nero». Difficile affrontarlo senza riflettere su come in qualche modo finisca per illuminare alcune delle ombre del presente. Soprattutto in giorni come questi, col discorso pubblico che insiste da un lato sullo stupro di una giovane donna da parte di un gruppo di coetanei e dall’altro sulle posizioni omofobe e sessiste di un generale dell’esercito italiano. Ed è curioso come la naturale costernazione e la rabbia di fronte alla violenza sessuale possa anche accompagnarsi alla difesa giustificativa di posizioni lesive della dignità delle persone: come se le due cose fossero non comunicanti, come se non fossero due frutti marci dello stesso albero, manifestazioni diverse ma parallele della stessa cultura suprematista che coltiva la presunzione di superiorità e lo sprezzo nei confronti di categorie considerate inferiori: siano le donne, siano i non-bianchi, siano gli omosessuali.

Lo stupro ha poco a che vedere con la sessualità, con il desiderio. Almeno, non tanto quanto ha a che vedere invece con la volontà di dominio e controllo, di riaffermazione di quella stessa mascolinità che in altre occasioni, seppur di tutt’altro tenore, svilisce l’omosessualità e le identità di genere non binarie. Così come il razzismo e il sessismo frequentemente convergono, allo stesso modo fanno omofobia e violenza sulle donne: la “cultura dello stupro” si fortifica ogni volta che si minimizza una discriminazione di genere, che si sminuisce o ridicolizza l’identità altrui, che ci si pone in una posizione di presunta e presupposta “naturale” superiorità. Anche in questo senso, la lezione di Angela Davis oggi può essere più prolifica che mai: serve mettersi in ascolto.

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