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Veronica Raimo: la verità fa ridere

Intervista. L’autrice del romanzo «Niente di vero», vincitrice del «Premio Strega giovani 2022», sarà ospite del festival «Presente Prossimo» presso l’auditorium comunale Gritti di Ranica lunedì 19 dicembre alle ore 21. «Sicuramente per riuscire ad ottenere un effetto comico devi prendere molto sul serio quello che stai facendo, deve esserci sempre del tragico nella scrittura comica, altrimenti non funziona»

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(foto Marta Bevacqua, dettaglio)

Torna il festival letterario «Presente Prossimo», organizzato dal Sistema Bibliotecario della Valle Seriana in collaborazione con Limina Rivista e Spazio Terzo Mondo, con la direzione artistica di Stefano Malosso (che abbiamo intervistato qui). La prossima ospite del festival che da tredici anni propone il meglio della letteratura nazionale, creando un dialogo tra la cittadinanza e scrittori, sarà Veronica Raimo, vincitrice della IX Edizione del «Premio Strega Giovani».

Romana, classe 1978, Raimo oltre a occuparsi di traduzioni e giornalismo culturale ha scritto i romanzi «Il dolore secondo Matteo» (minimum fax, 2007), «Tutte le feste di domani» (Rizzoli, 2013), «Miden» (Mondadori, 2018), uscito in UK, Usa e Francia. Nel 2019 ha pubblicato il libro di poesie «Le bambinacce» con Marco Rossari (Feltrinelli). Nel 2022 per Einaudi è uscito «Niente di vero», che ha riscosso un grande successo tra i lettori.

In «Niente di vero» Raimo ti trapassa con le normali bruttezze della vita e te le mette davanti, sul piatto, come qualcosa di comune a tutti, ma non per questo più accettabile. Nel quadro di una vita comune l’ansia, le delusioni, la noia, persino le molestie, diventano dati di fatto ovvi come muffa sulla marmellata aperta da troppi giorni. Senza al contempo voler insegnare nessuna verità, o fornirci chissà quale morale, Raimo riesce a scatenare nel lettore un senso di leggerezza e immedesimazione trasversale alle generazioni. Un quadro familiare tra l’asfissiante e libertario, raccontato da una figlia cresciuta, con una comicità tranchant che fa ridere ad alta voce.

CD: Nel romanzo spieghi come il tuo primo approccio alla scrittura sia nato per combattere la noia, oggi come scrivi?

VR: In questo momento non saprei, non sto scrivendo nulla! È strano perché è la tipica domanda che si fa tra scrittori e scrittrici: «a cosa stai lavorando?», ma io non l’ho mai vissuto come un assillo, né come una prospettiva. Ogni volta che ho scritto un libro non ho pensato mai che poi ne avrei scritto un altro. Non si tratta di un pensiero disfattista o ottimista, solo non riesco a pensare che ci sia questa traiettoria per forza, nemmeno oggi, dopo quattro romanzi. Quello che so è che ogni volta che ho iniziato a scrivere un libro nuovo non è stata una decisione, ma qualcosa che è avvenuto. Non saprei dire da cosa dipenda, si tratta di un impulso non programmabile. Non lavoro mai prima su una storia, succede che un giorno mi metto a scrivere e quella nasce da sé. Sicuramente dopo quest’ultimo romanzo sento molta più pressione rispetto a prima.

CD: Hai scritto quattro romanzi molto diversi tra loro, come è cambiato il tuo approccio alla scrittura rispetto all’infanzia, che cosa oggi ti fa scrivere?

VR: Nel cercare di tracciare una linea comune tra gli scrittori che ho sempre amato, mi sono resa conto di aver sempre cercato un confronto con l’assurdo: autori sempre assertivi, ma in grado di mettere sé stessi in crisi e prendersi in giro. Se, quando ho cominciato a leggere, cercavo nichilismo e esistenzialismo, successivamente mi sono spostata sempre di più verso scrittori più comici, più caldi. Questo ha caratterizzato di conseguenza il mio modo di scrivere.

CD: Si è parlato molto del lato comico di questo libro, però si tratta più di un’ironia amara, come solo l’autoironia può essere. C’era in te l’intenzione precisa di far ridere?

VR: Non era del tutto involontario, ho usato un registro di spiazzamento costante da parte della protagonista. Il suo punto di vista, per lei funzionale e sensato, finisce per risultare estraniato rispetto al reale nella percezione altrui. Sicuramente per riuscire ad ottenere un effetto comico devi prendere molto sul serio quello che stai facendo, deve esserci sempre del tragico nella scrittura comica, altrimenti non funziona.

CD: Il titolo del libro fa subito intendere che si tratta di auto-fiction, dal momento che contiene il tuo nome in un gioco di parole. Considerando che i ricordi sono elementi manipolabili ed effimeri, qual è il confine con la verità nella scrittura? Perché hai scelto «niente» e non «tutto» di vero?

VR: In parte anche per mettere le mani avanti e smarcarmi. La riconoscibilità ovviamente c’è ed è esagerata, enfatizzata, quasi grottesca. Quello che racconto non rispecchia come sono andate le cose. Riguardo ai confini – senza voler aprire un territorio di speculazione ampissimo – per me è un falso problema: non credo sia fondamentale riconoscerli a scopo letterario, a meno che non ci siano motivi morali o legali. Se proprio dovessi dire quale verità ho adottato in questo libro, è sicuramente una versione romanzesca. Non c’era differenza per me tra lo scrivere questo libro, o un romanzo di fantascienza.

CD: Questa bambina, poi questa donna, viene vista in modo differente rispetto al fratello nella cerchia familiare e anche professionale. Qual è stato il tuo pensiero a riguardo?

VR: Mi ci sono trovata a riflettere anche mentre scrivevo. Sicuramente, in Italia, l’educazione del figlio maschio è un argomento che non è stato sufficientemente affrontato nella disparità con il femminile. La consapevolezza rispetto a questo, in me, è emersa dopo anni. Quando si è bambini le cose si prendono per come sono, come accadono, l’educazione dei genitori si subisce e si accetta.

CD: Anche tuo fratello (Christian Raimo, ndr) è scrittore, hai incontrato anche da adulta le stesse dinamiche?

VR: Sono molto felice di avere un buon rapporto con mio fratello, se però non fosse stato così sarebbe stato davvero faticoso. Restando in campo editoriale, senza volermi allontanare troppo da ciò che mi compete, c’è sicuramente una disparità di opportunità, di considerazione e riconoscimento. Ora che le cose stanno leggermente cambiando, chi ha vissuto in questo privilegio per anni, come la generazione di scrittori maschi dai cinquant’anni in su, si sente mancare la terra sotto i piedi. È qualcosa di profondamente radicato, tanto che non me ne rendevo conto nemmeno io, a vent’anni, quando mi trovavo a leggere soltanto autori maschi, o a studiare interi libri universitari privi di autrici femmine.

CD: Niente di vero è stato definito dalla critica un «romanzo generazionale», probabilmente per approccio narrativo alle emozioni, sei d’accordo?

VR: Da un lato mi riconosco in questa visione, soprattutto rispetto al rapporto con i genitori e con il periodo storico, sebbene il contesto sia appena accennato. Tra quello slancio di idealismo di noi nati alla fine degli anni Settanta, in cui si conservava ancora un’idea di futuro non guasto come per le generazioni successive, e un’educazione genitoriale priva dell’ansia moderna di intrattenere i figli in continuazione. Ma sono contenta che sia anche stato letto da molte persone di generazioni diverse e che ognuno si sia riconosciuto in qualcosa, in particolar modo dai ventenni di oggi.

CD: Cosa ha cambiato nella tua vita professionale la vittoria del «Premio Strega Giovani»?

VR: Critiche sulla mia età a parte, quello che mi ha reso più felice è che si tratta di un premio spontaneo, sincero, stabilito da liceali. Questo libro ha venduto e sta vendendo tanto, in un modo che è quello che si augurano tutti gli scrittori: il passaparola. Io non ho profili social e non sono una persona forte nell’autopromozione. Questo riconoscimento mi ha dato sicurezza in più rispetto al futuro, seppure strana.

CD: Strana?

VR: C’è un gap, un contrasto insensato, tra quando ricevi un riconoscimento della critica ma non vendi copie, rendendo la rincorsa del lavoro faticosa, e quando, come per me in questo momento, non riesci a stare al passo degli impegni lavorativi. È un meccanismo spietato, che può avvenire anche solo da un libro all’altro: ricordo la sofferenza che ho provato fino a prima di quest’ultimo romanzo. Non so se sia colpa del capitalismo, la trasformazione dell’editoria in un mercato identico a qualsiasi altro, ma manca effettivamente un territorio di mezzo, in cui si possa campare di scrittura avendo una vita dignitosa.

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