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«È una sorta di nostalgia del futuro». Lo “spiritual-pop” di Adele H

Intervista. Il nuovo progetto di Adele Pappalardo si asciuga in un minimalismo piano-voce che ne lascia intatta la sottesa spiritualità. «Impermanence» verrà presentato il 30 settembre all’Edonè, ed ecco perché è una delle cose più interessanti uscite a Bergamo negli ultimi anni

Lettura 4 min.
Adele al castello di Brescia (Buck Curran)

È uscito il 15 settembre il nuovo disco di Adele H, senza girarci troppo intorno una delle cose musicalmente più interessanti, valide e particolari nate a Bergamo negli ultimi anni. Si intitola «Impermanence» e segue a sei anni di distanza l’esordio «Civilization» (2017). Potremo ascoltarlo live all’Edonè il prossimo 30 settembre alle 21 (ingresso gratuito). In apertura al concerto, Luca Barachetti e Alessandro Adelio Rossi del collettivo T¥RSO con la performance «I contain multitudes».

Il primo album di Adele H era un viaggio sciamanico e ritualistico in una scaletta di pezzi a base di loop vocali e ritmiche mantriche, spiritualmente psichedelico e mistericamente fascinoso. Questo secondo lavoro invece asciuga la palette produttiva, abbracciando un minimalismo piano-voce che intimizza il tutto senza perdere un grammo della religiosità sottesa alla musica di Adele. Pare a tratti di sentire Arvo Pärt che suona il piano per Lisa Gerrard. In mezzo c’è di tutto, dal femminismo alla religione, passando per la maternità e la guerra. Abbiamo raggiunto Adele per capirne di più, ed ecco cosa ci ha raccontato.

LR: Come è nato il tuo progetto e quale è stata la tua formazione musicale?

AP: Sono partita nel 2012 con questo progetto, poi ho sviluppato diverse collaborazioni. Inizialmente ero un po’ “timida” come musicista. Ho iniziato a lavorare con i loop, soprattutto vocali, sperimentando con quelli. Nel 2017 è uscito il mio primo album «Civilization», che si compone soprattutto di loop vocali e percussivi. Poi a causa della pandemia e del fatto che ho avuto due figli, a un certo punto mi è risultato più semplice mettermi al pianoforte e suonare analogica con quello, e ho iniziato così a scrivere delle canzoni. In un primo momento non volevo farle uscire: è stato mio marito Buck Curran, musicista americano che vive qui a Bergamo, a spingermi a registrare. Comunque io sono tendenzialmente più una cantante che una pianista.

LR: Hai studiato lo strumento?

AP: Quando ero bambina sì, poi ho ripreso da qualche anno a questa parte. Sono amica di Jodi Pedrali, un musicista di Bergamo, che ci ha prestato una tastiera con i tasti pesati. Grazie a lui ho ricominciato a leggere gli spartiti e mi è tornata tutta quella conoscenza acquisita anni fa. Quindi tutto sommato possiamo dire che sono quasi autodidatta ora.

LR: Questo nuovo tuo nuovo album è tutto piano e voce. Nascono insieme nei vari pezzi?

AP: Sì, quasi sempre. Mi metto al piano e cerco di trascrivere quello che ho in mente. La scrittura quindi nasce strumento e voce, insieme.

LR: Il disco è molto diverso dal precedente, ma l’atmosfera è sempre pervasa da questa spiritualità – o religiosità se preferisci – che attraversa tutti i pezzi.

AP: Una mia amica mi definisce “spiritual-pop”, perché quel lato è sempre presente: una ricerca di qualcosa che non è verificabile a occhio nudo. È una componente fondamentale nella mia persona, oltre che nella mia musica.

LR: Tu hai due bambini giusto?

AP: Sì, uno di sei anni e una di tre.

LR: Sono entrati in qualche modo nel disco?

AP: Sì, parla tanto anche di loro, e di me in relazione a loro: della maternità, dell’impermanenza, del fatto che queste creature cresceranno. Il titolo è dovuto a questo, a questa consapevolezza che cresceranno, cambieranno e in qualche modo se ne andranno. Una sorta di nostalgia del futuro.

LR: Il pezzo di apertura «Women’s Power» si annuncia già dal titolo come un manifesto femminista. Come vivi questa cosa, nel brano e nella vita quotidiana?

AP: Sicuramente mi reputo una femminista: ho anche fondato con delle amiche un’associazione che si chiama «La città delle mille» in cui raccogliamo libri scritti da donne, per diffondere il pensiero femminile. Poi cerco nel quotidiano di esserlo il più possibile. Non potrei fare altrimenti, essendo donna. Nel brano il punto di vista è quello di una madre che partorisce con dolore: quindi c’è questa fatica immane del dare vita ai figli, che poi vanno in guerra. Quindi c’è poi una distruzione del lavoro femminile, senza che venga chiesto nulla alle donne. Il potere di creare vita proprio delle donne viene distrutto da futili questioni di potere. Quindi è anche una canzone sulla guerra e sulla sua inutilità, oltre che sul femminismo.

LR: Quali sono le tue ispirazioni? Indipendentemente dalla loro rilevanza nella composizione di questo disco, che cosa ti piace?

AP: Non ho mai pensato «voglio fare un brano con questo stile», ma posso dirti quali sono gli autori che mi piacciono: sicuramente l’influenza numero uno è Michael Jackson, anche se ultimamente mi sto distaccando da lui per vari motivi, ma è stato il mio principale musicista di ascolto quando ero bambina e anche dopo. Poi Bjork, che mi piace molto e trovo molto vicina a me come tematiche. Più recenti Weyes Blood: quando ho ascoltato i suoi album mi ha ispirata nel senso di fare in un certo modo, ad esempio rimanendo nella semplicità. Poi Nina Simone.

LR: Tuo marito Buck Curran è musicista, discografico, produttore (anche del tuo disco): come vi siete conosciuti?

AP: Ci siamo conosciuti grazie a Robbie Basho: anche lui un artista molto spirituale e molto semplice, solo chitarra e voce. Un amico in comune a entrambi ha pensato che potessi organizzare un concerto per Buck, avendo questa passione in comune, e da lì è nato tutto. Abbiamo iniziato a collaborare e a diffondere musica anche di altri con la nostra etichetta Obsolete Recordings.

LR: Qual è stato l’apporto di Buck alla produzione del disco?

AP: Ha contribuito alla registrazione in primis, ma anche alla produzione: io aggiungerei sempre tanto, sono molto barocca. Lui invece mi ha tenuto sul minimalismo totale, e lo ringrazio perché forse arriva di più così.

LR: Cosa avresti aggiunto?

AP: Voci, continuamente. Ho questa tendenza, io. Poi sentendo il disco qua e là ci sono degli accenni di cori, ma sono proprio accenni.

LR: «Ave Maria» rimanda molto ai canti gregoriani e alla musica sacra.

AP: Io ho fatto parte di un coro, il Coro Civico di Milano, che pur essendo civico comunque come da tradizione dei cori comprende anche molta musica religiosa. Quindi sicuramente ho anche quel retaggio. Mi piace molto Palestrina, e anche se non sarà esattamente così – lui era un genio – nel mio prossimo album mi piacerebbe fare una cosa simile.

LR: Che live sarà quello in cui presenterai il disco?

AP: Anzitutto sarà con il synth e non col piano, perché molto spesso nei locali in cui suonerò non ci saranno pianoforti. Poi aggiungerò anche brani dall’album precedente, quindi sarà un po’ un mix di improvvisazione. Vorrei fare qualcosa di organico, svincolato dalla solita logica canzone-applauso-canzone-applauso. Sto cercando di mettere quattro o cinque canzoni in medley perché mi piace molto che non si esca dal momento e dalla performance. Quindi sarà un grande viaggione, spero.

LR: I tuoi bimbi ascoltano la tua musica?

AP: Sì, l’ascoltano e gli piace. Francesco ha sei anni e ama già il rock, il punk, cose molto più ritmate, ma gli piace anche quello che faccio io.

LR: Cosa fai nella vita oltre alla musica?

AP: Insegno, faccio la docente di lettere in una scuola superiore. Non tutti i miei studenti sanno che suono: dipende dalle classi, ad alcune lo dico e ad altre no, in base alla maturità e alla confidenza che ho con la classe. Poi insegno a un serale, quindi si tratta di persone tendenzialmente adulte. Ma è anche vero che suono musica un po’ particolare, per cui non è sempre facile spiegare quello che faccio.

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