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Enrico Rava: sono le cose che ho ascoltato, i musicisti con cui ho suonato, le persone che ho conosciuto

Intervista. Mercoledì 19 agosto dalle 21 il ritorno del trombettista triestino sul palco del Bergamo Jazz, all’interno del programma di Lazzaretto On Stage

Lettura 5 min.

C’era stato un live album con Joe Lovano, “Roma”, registrato nel novembre 2018 all’Auditorium Parco della Musica, attestato finale – pubblicato per la ECM Records di Manfred Eicher – di una collaborazione intermittente e di lungo corso. Ci sarebbe dovuto essere il ritorno sul palco del Bergamo Jazz nel marzo 2020, proprio con Joe Lovano e il suo quintetto, ma è successo quello che è successo.

C’è Enrico Rava che il 19 agosto – la vigilia del suo 81esimo compleanno – tornerà a Bergamo con il suo Special Edition, “un gruppo che amo moltissimo, con cui mi diverto da morire” dice.

MR: In più di cinquant’anni hai collezionato innumerevoli collaborazioni. Cosa cerchi nei musicisti con cui suoni?

ER: Cerco sempre una visione della musica simile, come è stato con Joe Lovano, per esempio. Per me è importantissimo lavorare con musicisti che ascoltino. Sembra una cosa ovvia ma non lo è per niente, c’è pieno di musicisti che suonano benissimo, ma non ascoltano. Io ho bisogno che ci sia un interplay, una conversazione, un dialogo con i musicisti con cui suono. La scelta dipende sempre da quello, dalla capacità di ascoltare e dialogare con gli altri. Potrebbe esserci un musicista strepitoso, ma se non ha questa caratteristica non potrei suonarci insieme.

MR: Come è cambiato il tuo modo di fare musica da quel trasferimento a New York nel 1967?

ER: È cambiato leggermente, diciamo che è cambiata la cornice ma il quadro è rimasto uguale. Sai come si dice per i registi, che uno fa sempre lo stesso film. È un po’ così anche per i musicisti. Per fare un esempio ai massimi livelli, Miles Davis: con Parker a 18 anni, con Coltrane, con Wayne Shorter o con un solo in un disco di Zucchero o Chaka Khan. Cambia la cornice ma la personalità di Miles è quella. Nel 1963 io suonavo con Gato Barbieri, poi c’è stato il free jazz, l’improvvisazione radicale, in seguito sono tornato alla melodia e a scrivere cose chiare e suonabili. Di base però il suono è quello, la voglia e la passione è quella.

MR: Forse cambiano più facilmente gli interessi?

ER: In realtà oggi mi interessa ancora quello che mi interessava quarant’anni fa. Mi interessa la musica bella, quella che secondo me è bella. Posso dire che amavo moltissimo Armstrong, Bix Beiderbecke, Miles, Parker, Joao Gilberto, la musica brasiliana, la musica classica. Ed è quello che continuo ad ascoltare. Ancora oggi ascolto Ravel, Miles con la preferenza – oggi come allora – del suo periodo anni Cinquanta, però amando tutto quello che ha fatto nel corso della vita. A parte il fatto che negli ultimi anni poi ho suonato veramente molto, il mio bisogno di musica è soddisfatto dal suonarla, ascolto meno di una volta. È comunque difficile che passi un mese o due senza che ascolti Bix o Armstrong o Miles o Joao Gilberto.

MR: Eppure il tuo è un approccio multiforme alla materia jazzistica, volentieri ti concedi fuori dai lidi tradizionali. Per sintetizzare all’ingrosso, dagli standard a Michael Jackson. Come scegli le vie da percorrere?

ER: Non è che scelgo, ascolto quello che mi piace di più e – a parte in progetti particolari come quello su Jackson – tutto ciò che ascolto è metabolizzato, affluisce nella mia musica. Negli anni Sessanta ho avuto la fortuna di suonare anche in Argentina, a Buenos Aires, con il quartetto di Steve Lacy e con il quintetto di Astor Piazzolla, quello con Horacio Malvicino, quando qui nessuno sapeva chi era. Ho ascoltato mille volte Annibal Troilo nei club di Buenos Aires, o l’orchestra di Osvaldo Pugliese. Il tango è entrato in modo naturale nel mio modo di scrivere, molti brani risentono di questa esperienza argentina. E così è stato anche per la musica brasiliana: conoscere Joao Gilberto, andare a casa sua, diventare suo amico mi ha segnato profondamente. Le cose poi avvengono in modo subconscio, per vie trasversali, attraverso un lavorio interno. Tante cose arricchiscono la cultura di uno, e in qualche modo sfociano in quello che uno fa. Le cose che ho ascoltato, le persone che ho conosciuto, i musicisti con cui ho suonato, i libri che ho letto, sfociano in quello che faccio.

MR: E poi le incursioni nel pop: Fossati, Paoli, Ranieri. Cosa ti hanno lasciato? Cosa cercavi in quel mondo?

ER: È una cosa in più che uno vive. Canzoni di Gino Paoli meravigliose tipo “Senza fine”, “Il cielo in una stanza”, “La gatta”, sono state parte della colonna sonora della mia adolescenza. Ero molto curioso di fare qualcosa con lui, soprattutto con quelle canzoni che sono state la colonna sonora dei miei primi amori. La curiosità era anche vedere come funziona un mondo molto diverso da quello del jazz, dal punto di vista dell’organizzazione, del pubblico, dei mezzi, di tutto. È un mondo completamente diverso, come lo era quello degli Sly & The Family Stone, con cui nel 1969 facemmo un tour, come opening act, negli Stati Uniti. Avevo un gruppo jazz-rock e un disco prodotto da Teo Macero e gli facemmo da spalla.

MR: Erano super popolari in quel periodo...

ER: Sì, soprattutto tra il pubblico afroamericano. È stato interessantissimo, più che per la nostra musica per quella di Sly, era fantastico tutte le sere: l’organizzazione del concerto, i mezzi che avevano. Era il 1969 e già suonavano con microfoni senza fili, cose che per me erano di un altro pianeta. Il pop è una musica come un’altra, può essere bellissima oppure no, come il jazz, può essere bellissimo oppure orribile. Non mi interessa, ma mi piace l’idea per un breve periodo di frequentarla per vedere come funziona.

MR: È sempre difficile trovare qualcosa di veramente fresco, che non sia già stato suonato, già sentito. Come lavori per portare sempre qualcosa di nuovo in quello che fai?

ER: Ho bisogno di essere sorpreso, sempre, ogni sera. Faccio in modo che succedano molte cose, che si prendano direzioni diverse, che la storia non sia mai la stessa anche se suono lo stesso standard per la milionesima volta. Faccio sì che i musicisti che suonano nei miei gruppi agiscano allo stesso modo, che siano veri, reali, che suonino se stessi. Quando suono io sono me stesso, è un momento di verità assoluta. È importante creare una situazione in cui anche gli altri reagiscano in un certo modo, solo così si crea una situazione di comunicazione in cui ognuno capisce di cosa hanno bisogno gli altri e glielo dà, e riceve quello di cui ha bisogno. C’è sempre qualcosa che può succedere che ci sorprende, che sorprende noi stessi. Poi se sorprende anche il pubblico ancora meglio. Quando non succede io me ne torno a casa molto depresso, ho bisogno che succeda sempre qualcosa di sorprendente, anche una piccola cosa, perché sennò è una serata buttata nel cesso, per me.

MR: Suoni con molti giovani, hai certamente il polso del jazz contemporaneo non solo italiano. Se si parla di nuovi musicisti, e nondimeno del pubblico nostrano, che futuro percepisci?

ER: Sui musicisti posso dire che in questi ultimi anni il livello, sia quantitativo che qualitativo, è cresciuto moltissimo in Italia. In questo momento sento un livello tecnico altissimo, i musicisti suonano bene come mai nella storia. Qui in Italia c’è Fabrizio Bosso e dal punto di vista tecnico ce ne sono pochi come lui al mondo. La tecnica è arrivata a dei livelli talmente alti che non si immaginava nemmeno si potessero fare certe cose, io non pensavo che con la tromba si potesse arrivare a fare certe cose, come fa Peter Evans ad esempio. Però, devo dire la verità, nella nuova onda dei giovani musicisti americani, non sento delle cose che mi emozionino. Sento cose tecnicamente complicatissime, tempi incomprensibili, armonie difficilissime, tipo Steve Lehman. Grandissima ammirazione, ma dovessi dire che mi emozionano no, che mi piacciano no. Non vorrei che procedendo con questa tecnica sempre più sofisticata, sia strumentale che compositiva, si arrivasse a perdere la pancia, il piacere vero di suonare, di comunicare.

MR: Quanto al pubblico?

ER: Mi sembra che ci sia sempre uno zoccolo duro, effettivamente però manca un pubblico giovane. Anche se poi capita la cosa incredibile di ragazzini di tredici o quattordici anni che vogliono fare i musicisti jazz. Non so come possa succedere, ma succede. In Sicilia in modo particolare, ci sono dei ragazzini da non crederci, anche in provincia, in piccoli paesi. Da un lato l’età media del pubblico è abbastanza alta, dall’altro ci sono giovanissimi che si appassionano a questa musica, ed è abbastanza sorprendente. Non so come andrà a finire.

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