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Un anno di covid fra infodemia , pandemic fatigue e tanta confusione

Intervista. Ne abbiamo discusso con la giornalista scientifica Roberta Villa. Cercando di fare il punto della situazione italiana, soprattutto dal punto di vista della comunicazione. Sfiducia, incomprensione e disordine sono ancora le parole chiave

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illustrazione Tasha Romart

L’Italia è il Paese dove le lamentele per la gestione sbagliata dei vaccini sono all’ordine del giorno, quando invece il Sole 24 Ore calcola che nel nostro Paese sono state somministrate l’80% delle dosi disponibili. Giornali, tv, magazine online dicono che le cose non vanno. E intanto, dopo che la pandemia ha ormai compiuto un anno, le persone continuano ad angosciarsi. Qual è la verità? Con Roberta Villa, giornalista scientifica e autrice del libro “VACCINI. Mai così temuti, mai così attesi”, abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza.

GB: Alla luce del dato de il Sole 24 Ore perché la percezione del vaccino continua ad essere negativa?

RV: Questo dato è una media, che non rispecchia la vera distribuzione del vaccino in ogni regione. Per regioni che ne hanno somministrati di più, infatti, ce ne sono altre che ne hanno distribuiti di meno. Il grosso problema non è tanto in relazione alle dosi somministrate, in realtà; per quanto riguarda il dato della popolazione che ha ricevuto almeno una dose non ci discostiamo così tanto dalla media europea.

GB: E allora quale è il problema?

RV: Il problema è che da noi si è puntato a vaccinare il più possibile, concentrandosi sul numero e non su chi si stava vaccinando. Sono state vaccinate persone che già non avrebbero rischiato la vita, e quindi la terapia intensiva; per questo, a uguale percentuale di popolazione vaccinata, in Italia si continua ad avere una mortalità molto più alta e un sovraccarico dei sistemi ospedalieri.

GB: È anche uscito il suo libro, “VACCINI. Mai così temuti, mai così attesi”, edito da Chiarelettere a marzo, che parla proprio della questione dei vaccini. Qual è il suo punto di vista sulla questione?

RV: Nel mio libro distinguo vaccini e vaccinazioni: un conto, infatti, è avere i vaccini; altro conto è tutto il processo di vaccinazione, che richiede uno sforzo organizzativo, i luoghi adatti, il personale e una certa disponibilità delle persone. Noi abbiamo avuto un problema di strategia; son convinta che uno dei problemi, infatti, sia stato quello di puntare sin dall’inizio sulla tanto ripetuta “immunità di gregge”. La frase “più vacciniamo, meglio è” non è vera: quando si ha una risorsa limitata, la si deve ottimizzare. La si deve rivolgere ai punti strategici che, a catena, possono portare ai benefici; se noi, questo numero di dosi, l’avessimo usato per proteggere più anziani, ci troveremmo in tutt’altra situazione, anche a livello di terapie intensive.

GB: Se ne parla troppo, o se ne parla troppo poco? O, che sia troppo o poco, se ne parla male? Qual è la causa di questa confusione?

RV: La comunicazione è sicuramente troppa e fatta male. Il troppo porta con sé il fatto male; è l’infodemia, che va parallela all’epidemia. L’eccesso di informazioni crea confusione e anche gli organi di stampa, che devono coprire 24 ore al giorno di trasmissioni e paginate di articoli, finiscono per riportare qualunque elemento, che prima andrebbe filtrato. Le persone sono confuse, non capiscono più neanche cosa devono fare e questo sentimento alimenta la cosiddetta pandemic fatigue, cioè l’arrivare a dire: non se ne può più.

GB: Medici, virologi e professionisti da un anno ormai sono ospiti quasi fissi nelle trasmissioni televisive, a volte generando un’ottima divulgazione scientifica, altre aggiungendo confusione alla già difficile situazione in cui siamo. Esiste un organo a cui dovrebbe spettare il compito di controllare le affermazioni che i professionisti del settore, che quindi godono di una forte influenza nel pubblico, fanno? E se non esiste, perché non crearlo?

RV: Siamo in un Paese libero e quindi c’è la libertà di parola. Per fortuna, a mio parere. Il problema sta alla responsabilità di queste persone, che dovrebbero rendersi conto del peso delle loro parole. Medici, professionisti, giornalisti ma anche istituzioni: a volte abbiamo sentito i viceministri dissociarsi dalle posizioni del ministro, per esempio. Quello che dovrebbe esserci è una voce istituzionale, cioè un portavoce delle autorità che dice quello che si deve dire. Una figura che parla e gli altri stanno zitti. Anche a livello istituzionale, invece, ci sono mille voci discordi che sono funzionali alla politicizzazione di tutta la vicenda ma certamente non al controllo della diffusione del contagio. A livello di stampa e di esperti, invece, credo che non ci debba essere alcun controllo, ma un maggiore senso di responsabilità da parte di chi fa informazione e un grande senso critico da parte di chi ascolta. Dovremmo fare tutti uno scatto di senso di responsabilità.

GB: I titoloni che abbiamo visto in prima pagina su alcuni quotidiani durante i giorni di sospensione di AstraZeneca, per esempio, sono da attribuire semplicemente al fatto che fanno scalpore e, quindi, più introiti per i quotidiani, secondo lei? O qualcuno ci credeva davvero, in quelle parole?

RV: Le due cose vanno insieme. Ovviamente il cittadino giornalista, che non ha una competenza specifica, a sua volta si spaventa; il giornalista serio e professionista dovrebbe approfondire, sentire qualche esperto e, a mio parere, per senso di responsabilità, dovrebbe comunque cercare di restare cauto con l’allarmismo. Nel giornalismo c’è anche un aspetto, che fa parte del codice deontologico, chiamato responsabilità: non significa non dire le cose preoccupanti, perché la trasparenza è essenziale, ma dirle in un certo modo, che non giochi troppo sull’emotività… cosa che, invece, non è stata fatta.

GB: Che peso ha l’azione del governo in sé e per sé nella difesa del ruolo dei vaccini, rispetto al più ampio sistema informativo e mediatico?

RV: La parola chiave è fiducia, tutto si gioca lì. L’entità, a seconda di quanta fiducia si è guadagnata prima di questa crisi, cioè in tempi “di pace”, sarà creduta, seguita, ascoltata tanto più o tanto meno. È molto difficile, invece, acquisire nuova fiducia in tempo di crisi; può capitare, per esempio Boris Johnson in UK all’inizio ha affrontato la pandemia con superficialità, ma poi, soprattutto col piano vaccinale che ha messo in piedi, ha riscattato un po’ i passi falsi iniziali.

GB: A proposito di professionisti e di fiducia, è di pochi giorni fa la notizia che AIFA ha aperto un bando per 4 posti di lavoro nel settore della comunicazione. C’è solo un problema: non sono previste aperture verso chi ha studi scientifici.

RV: Lì il problema non è tanto che abbiano considerato anche dei background di tipo umanistico, ma che da un lato hanno escluso le facoltà scientifiche e, soprattutto, non hanno minimamente tenuto in considerazione le competenze di chi ha fatto un percorso specifico. Quello è un compito per chi ha seguito un master in comunicazione della scienza o, comunque, che si occupa da anni del tema; il singolo laureato in Lettere, Filosofia o Scienze della Comunicazione, si troverebbe molto in difficoltà. Così come il singolo laureato in materie scientifiche, sia chiaro. Sono stati esclusi tanti ragazzi e ragazze che, dall’Italia, ora sono responsabili della comunicazione di Università o di istituzioni molto importanti all’estero perché qui non trovano sbocchi.

GB: Perché si creano giudizi di valore su alcuni aspetti tecnici legati ai vaccini? Per esempio, la questione delle morti sospette legate ad AstraZeneca, seppur conclusa, ha lasciato e rimarcato un giudizio che già c’era, riassumibile in “vaccino di serie b”. Così accade anche per altri, come lo Sputnik, che, anche se non ancora approvato in Italia, tanti considerano già pericoloso…

RV: Questo è un bias; ognuno di noi ha dei pregiudizi, dei preconcetti… Tu dici così di Sputnik, ma in realtà c’è una parte del Paese che farebbe subito quel vaccino, anche se non autorizzato, e invece rifiuta AstraZeneca. Il fatto che venga dalla Russia, per chi ha un certo background culturale o politico, rappresenta un elemento di fiducia. Le nostre scelte raramente sono soppesate razionalmente e, molto più spesso, si basano su esperienze, valori precedenti e, quando un evento conferma il nostro pregiudizio, è molto più difficile tornare indietro.

GB: Che conseguenze avrà questa pandemia nel futuro, soprattutto relativamente alla fiducia nella scienza? Torneremo a festeggiare l’arrivo di un vaccino, come quella signora italiana che si è presentata all’appuntamento vestita elegante proprio per onorare l’occasione?

RV: È difficile dirlo oggi. Il presupposto di una crisi di questo tipo, in teoria, avrebbe dovuto rafforzare la fiducia nella scienza perché i risultati che sono stati ottenuti, come il vaccino in meno di un anno, sono merito di tutta la ricerca che c’era precedentemente. In linea teorica, essendo solo la scienza l’unica arma che abbiamo contro il virus, la fiducia dovrebbe crescere tantissimo; il problema è che bisognerà vedere, da paese a paese, come ha lavorato la comunicazione durante questo periodo.

GB: E da noi?

RV: Io temo che in Italia, come risulta anche nei dati di Observa che misura come gli italiani hanno percepito la comunicazione della pandemia durante quest’anno, il ruolo degli scienziati non sia visto con grande favore, ma come un ulteriore fattore di confusione. Bisognerà vedere, col tempo, quale sarà il frutto. Temo, però, che la comunicazione della scienza, in questo momento in cui avrebbe dovuto essere un’arma importante e forte nelle mani delle istituzioni per contrastare questa pandemia, non lo sia stata. È stata improvvisata, da chi l’ha fatta senza una preparazione adeguata, e temo che non darà i frutti che avrebbe potuto dare.

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