93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Coseserie: «le quattro stagioni» (dell’amore) e altri 4 titoli da non perdere

Articolo. «The Four Seasons» racconta la Generazione X alle prese con l’amore maturo, tra separazioni, nuove compagne e amicizie che resistono

Lettura 5 min.
The Four Seasons (Foto Netflix)

« L’innamoramento è uno stato nascente», scriveva Francesco Alberoni nel suo saggio cult «Innamoramento e amore». È quell’esplosione improvvisa che ci fa credere di essere unici, irripetibili, destinati ad appartenerci per sempre. Ma Alberoni sapeva però già negli anni ’70 che l’innamoramento ha la stessa stabilità di una bottiglia di prosecco lasciata aperta nel frigo per troppi giorni. E allora che succede quando, dopo 25 anni, si aprono gli occhi e si scopre che il grande amore ha le occhiaie e soffre di insonnia?

La serie Netflix «The Four Seasons» ce lo mostra senza pietà, con una dolcezza corrosiva che è marchio di fabbrica di Tina Fey. Tutto comincia quando Nick (Steve Carell) lascia sua moglie Anne (Kerri Kenney) per una nuova compagna più giovane, Ginny (Erika Henningsen), mentre il loro gruppo di amici — sei in tutto, più uno — cerca di reggere l’urto emotivo. Perché quando una coppia storica scoppia, non si separano solo due individui: si incrina l’intero ecosistema affettivo, quello fatto di cene insieme, vacanze condivise e conversazioni in codice che solo chi ha una storia comune capisce.

I rapporti amorosi della Generazione X, quelli che hanno attraversato l’era analogica e sono sopravvissuti al trauma collettivo del passaggio a WhatsApp, sembrano oggi sospesi tra una voglia di autenticità e il peso dell’insoddisfazione. Non è più il tempo delle favole: è quello del «dobbiamo parlare», dei corsi di mindfulness e delle app per la terapia di coppia. E se è vero che si vive più a lungo, si ama anche più volte. Ma si ama meglio?

Romantici disillusi con la sindrome da «Sliding Doors»

La Generazione X — quelli nati tra la fine degli anni ’60 e i primi ’80 — è cresciuta con «Harry ti presento Sally» e si è sposata con l’illusione che bastasse trovare la persona giusta per farcela. Oggi si ritrova a quarant’anni passati, magari cinquanta, a dover fare i conti con amori che si sono trasformati in coworking domestici, in cui l’unico progetto condiviso è capire chi ha dimenticato di pagare la TARI. È gente che ha scoperto tardi l’analisi transazionale, ha letto «Alta fedeltà» di Nick Hornby dopo due tradimenti, e adesso si chiede: ma siamo ancora noi o solo la versione beta della coppia che eravamo?

«The Four Seasons» non fa sconti. Le stagioni cambiano due puntate alla volta — primavera, estate, autunno, inverno — ma i nodi rimangono lì. I personaggi provano a lasciarsi alle spalle i fallimenti sentimentali, ma si portano dietro tutto: aspettative, recriminazioni, incomunicabilità. È il grande freddo dei sentimenti che non hanno saputo evolversi, quello raccontato da Lawrence Kasdan nel film cult dell’81, ma con un tocco di ironia tutta contemporanea.

Oggi i sociologi parlano di «coppie intermittenti», relazioni on/off, amori liquidi (Bauman ci guarda dall’aldilà con un sorriso amaro). E «The Four Seasons» prende questi concetti accademici e li traduce in scene di dialogo impacciato, di silenzi pesanti come marmo e confessioni fatte davanti a un bicchiere di Chardonnay, perché è così che la Generazione X gestisce l’intimità: parlando di sentimenti solo dopo aver perso i freni inibitori, almeno nella serie.

Dolore, seconde possibilità e il diritto di sbagliare

«The Four Seasons» non è solo una serie sull’amore che cambia forma, ma anche su ciò che resta quando qualcuno se ne va per sempre. Il lutto, grande o piccolo che sia, è un altro dei temi sottili ma persistenti che attraversano la narrazione. La perdita non viene mai spettacolarizzata: è lì, scomoda e muta, a scavare sotto la superficie dei personaggi. C’è chi la affronta piangendo, chi invece preferisce aggrapparsi all’idea che l’aldilà possa offrire una connessione, una risposta, una tregua. Il dolore ha tanti linguaggi, e nessuno è più giusto dell’altro.

Ma la serie ha anche il coraggio di fare una cosa rara: mostra adulti che sbagliano. Genitori che, dopo anni di apparente stabilità, si spezzano sotto il peso di un rapporto svuotato e deludono i figli. Persone che scelgono una fuga romantica invece di resistere ad un amore sulla via del tramonto. E allora viene da chiedersi: cosa c’è di così scandaloso nel voler provare ancora a sentirsi vivi, anche a sessant’anni? In una società che ci vuole stabili, prevedibili e “a posto”, «The Four Seasons» ci ricorda che siamo umani anche quando crolliamo. Che anche chi ama può ferire. E che si può essere brave persone, pur scegliendo di ricominciare. Dare un’altra possibilità a se stessi non è egoismo: è istinto di sopravvivenza emotiva.

Ma il merito vero della serie è di mostrare che l’amore — quello vero, profondo — forse non è solo quello di coppia, ma anche dell’amicizia. Quella che sopravvive ai divorzi, alle nuove compagne, alle rotture improvvise. Che non ha bisogno di definizioni o contratti, ma che, come un filo rosso, tiene uniti i protagonisti anche quando tutto sembra andare a rotoli. In questo senso, la serie è quasi una risposta adulta a «Friends». Gli amici non sono più trentenni confusi, ma cinquantenni consapevoli (o almeno ci provano), che si aggrappano gli uni agli altri come zattere affettive in un mare di incertezze. Barb (Tina Fey) cerca di mantenere la pace, Jack (Will Forte) osserva tutto con disincanto e cinismo, gli altri oscillano tra il tentativo di essere felici e la paura di restare soli. E forse è proprio questo il cuore della serie: la paura, ancora più della solitudine, di non avere più nessuno con cui condividere le proprie paure.

C’è qualcosa di disarmante e insieme consolatorio in tutto questo: l’idea che l’amore non debba per forza resistere identico a se stesso, ma possa trasformarsi. Che si possa lasciare il partner e continuare a volergli bene. Che si possa amare profondamente un’amica senza invidiare la sua felicità. Che ci si possa “dividere” senza distruggersi. La serie ce lo ricorda con umorismo, tenerezza e una malinconia che non sfocia mai nel patetico. È una serie che parla a chi ha amato tanto, male, troppo. E che forse sta ancora imparando ad amare di nuovo.

Nessuno esce indenne dai rapporti lunghi. Ma la serie ci mostra che qualcosa si può salvare: non le certezze (quelle se ne vanno presto), ma i legami. Quelli che si costruiscono nel tempo, tra un litigio e una vacanza andata storta. E che, se siamo fortunati, ci restano accanto per tutte le stagioni della vita. Anche se cambiano forma. Anche se non sono più quelli del liceo.

Titoli di coda e altri consigli non richiesti

Se dopo «Le quattro stagioni» vi è rimasta addosso quella voglia di storie che scavano nei rapporti umani, non temete: la serialità italiana e internazionale ha ancora qualcosa da dire. Dopo anni di successi, «Che Dio ci aiuti» è riuscita nell’impresa quasi impossibile: rinnovarsi senza tradire se stessa. La stagione 8 ha introdotto nuovi personaggi e spostato l’ambientazione da Assisi a Roma, portando una ventata di freschezza. Il ritorno di Suor Angela (Elena Sofia Ricci) e Suor Costanza (Valeria Fabrizi) in ruoli più defilati ha permesso a Suor Azzurra di emergere come nuova protagonista. Il pubblico ha premiato questo equilibrio tra novità e tradizione, confermando la serie come un punto fermo del palinsesto Rai.

Dalla Spagna arriva « Il giardiniere », una miniserie che mescola thriller e romanticismo in modo sorprendente. Elmer, interpretato da Álvaro Rico, è un giovane incapace di provare emozioni a causa di un incidente automobilistico che gli ha compromesso la parte del cervello che regola appunto le reazioni emotive. Manco a farlo apposta è un grande esperto di piante e fiori e lavora nel vivaio gestito dalla madre autoritaria e fintamente apprensiva dal momento che dietro a questa facciata si nasconde un’attività di omicidi su commissione. La svolta arriva quando Elmer si innamora di Violeta, donna che avrebbe dovuto “far sparire” tra i fiori e le piante. Una storia che esplora i confini tra amore e violenza e che ci rende tutti un po’ complici a fin di bene, per fortuna solo per la durata della serie.

Su Disney+ dal 9 aprile, «Good American Family» racconta la storia di una coppia del Midwest che adotta una bambina con una rara forma di nanismo. Con Ellen Pompeo (fresca di stella sulla Walk of Fame)e Mark Duplass, la serie esplora le dinamiche familiari e i pregiudizi sociali attraverso una narrazione che alterna punti di vista diversi. Quando emergono dubbi sull’identità della bambina, la famiglia si trova al centro di un vortice mediatico e legale. Una riflessione profonda sull’identità e sull’accettazione.

Per chi ama le commedie intelligenti, « The Studio » su Apple TV+ è quello che ci vuole. Creata da Seth Rogen e Evan Goldberg, la serie segue le vicende di Matt Remick, nuovo capo dei Continental Studios, alle prese con un’industria cinematografica in crisi. Tra artisti egocentrici e dirigenti insicuri, ogni decisione può portare al successo o al disastro. Con un cast stellare che include Kathryn Hahn, Martin Scorsese e Bryan Cranston, la serie offre una satira pungente sulle luci e sulla ribalta del mondo del cinema.

Buona visione!

Approfondimenti