L’estate, si sa, è la stagione delle fughe: al mare, in montagna, in qualsiasi luogo abbia più ombra che Wi-Fi. Ma c’è chi preferisce restare a casa, magari con una scorta di ghiaccioli, alla ricerca di un po’ di refrigerio… e di qualche maratona da divano. Dal dark gotico di «Nevermore» alle risate calibrate di un appostamento: cinque storie che non temono la pausa estiva. Cominciamo!
«Mercoledì»
Disponibile su Netflix
In Italia siamo ad agosto, il sole picchia e l’aria sa di salsedine e granite al limone. Ma a Nevermore, l’autunno ha già steso il suo manto scuro: le foglie scricchiolano sotto gli stivali, il cielo si piega in un grigio minaccioso e l’aria è impregnata di mistero. È in questo scenario che Mercoledì Addams torna a muoversi tra i corridoi che l’hanno consacrata a icona pop contemporanea.
La seconda stagione — o meglio, la sua prima metà, in quattro episodi — arriva su Netflix e, con lei, Jenna Ortega nei panni della dark heroine per eccellenza. Nessun cambio di rotta: Alfred Gough e Miles Millar hanno deciso di non toccare la formula vincente. E così, mentre Nevermore si prepara a riaccogliere Mercoledì sotto un cielo perennemente plumbeo, il pubblico riceve esattamente quello che vuole: il mix calibrato di mistero gotico, sarcasmo chirurgico e romanticismo a tinte funeree. La trama non perde tempo: Mercoledì torna a scuola dopo un’estate passata a spingere le sue capacità psichiche al limite e a sfogliare il «Libro delle Ombre». Ad attenderla c’è un nuovo preside — Steve Buscemi, ironico e autoritario —, un fratello minore che entra tra gli studenti, e un’ombra di notorietà che la segue come una maledizione glamour.
Esteticamente, siamo in piena comfort zone burtoniana: corridoi gotici, costumi che mescolano rigore vittoriano e stravaganza contemporanea, luci basse con pennellate di colore. Ma «Mercoledì» non è un puro esercizio di stile: riesce a prendersi sul serio e, allo stesso tempo, a prendersi in giro. E qui possiamo rintracciare un sottotesto, perché dietro gargoyle e corvi, c’è un racconto che celebra l’ outsider come figura necessaria. La serie non cede all’idea che la protagonista debba “correggersi” per adattarsi. Piuttosto, mette in scena una convivenza dove opposti imparano a coesistere senza cancellarsi a vicenda.
Jenna Ortega porta avanti questa missione con una precisione da orologeria svizzera: gesti millimetrici, battute taglienti, crepe emotive dosate al milligrammo. Ciò la rende molto più di un’icona pop: è un personaggio che rifiuta la tradizionale parabola femminile televisiva — quella che parte dalla durezza per approdare alla dolcezza come segno di maturità. Qui la maturità è mantenere la propria natura, non tradirla.
Nevermore, stessa, in questa cornice interpretativa, funziona come allegoria: un’istituzione che promette protezione ma che, nella pratica, è attraversata da conflitti, compromessi e nuove leadership che ridefiniscono le regole (Buscemi, in questo, è il preside perfetto). Il messaggio implicito? Anche nei sistemi che si dichiarano inclusivi, le gerarchie e le lotte di potere non scompaiono: vanno gestite. Con la seconda parte di stagione e l’ingresso annunciato di Lady Gaga, «Mercoledì» promette di restare fedele a se stessa. Ma la vera domanda è: avrà il coraggio di usare il suo enorme capitale pop per spingersi oltre?
«Dying for sex»
Disponibile su Disney+
«Dying for Sex» è una serie che sceglie di guardare dove di solito la narrazione televisiva distoglie lo sguardo: il desiderio e la sessualità nel pieno di una malattia terminale. Molly, interpretata da una magnetica e fragile Michelle Williams, riceve la diagnosi di un cancro al quinto stadio e decide che non sarà quella frase, detta in una stanza d’ospedale, a stabilire i confini della sua vita. Vuole innamorarsi ancora, scoprire cosa la fa vibrare, vivere fino all’ultimo respiro con una fame ostinata di esperienza. È una scelta radicale, quasi sovversiva, che trasforma la malattia da condanna silenziosa a innesco di un viaggio intimo, fatto di incontri, imbarazzi, scoperte e un’ironia così tagliente da diventare strumento di sopravvivenza.
Tratta dall’omonimo podcast, la serie ci pone una domanda scomoda e necessaria: un corpo segnato dalle cure e dalla malattia può ancora essere considerato desiderabile? Molly risponde con i fatti, e la sua risposta è un sì pieno, ma stratificato. Lei non esibisce le cicatrici: le nasconde, le protegge, come se mostrarle la renda troppo vulnerabile, un confine che non vuole attraversare. Ma quel mistero non spegne il desiderio: lo trasforma in qualcosa di più complesso, un terreno dove erotismo e fragilità convivono, dove il corpo diventa insieme rifugio e territorio di esplorazione.
Intorno a lei si muove un microcosmo di amici e familiari che cercano, ognuno a modo suo, di restarle vicino. Alcuni diventano ancore solide, altri faticano a reggere l’urto emotivo, ma tutti vengono messi alla prova. C’è Nikki (Jenny Slate), l’amica-complice che alterna coraggio e leggerezza, trasformandosi di volta in volta in infermiera, spalla e partner in crime. C’è la madre (interpretata da Sissy Spacek) che non riesce a perdonarsi per non esserle stata vicina abbastanza quando era piccola.
«Dying for Sex» si tiene saldamente in equilibrio tra sarcasmo, ironia e momenti di pura commozione. Non edulcora la diagnosi, non offre finali miracolosi, non illude lo spettatore. Sappiamo fin dall’inizio come andrà a finire e non ci viene chiesto di sperare in un epilogo diverso. Ma proprio questa onestà la rende più potente. Come scrive Susan Sontag in «Malattia come metafora», «la malattia non è una metafora, e il modo più onesto di affrontarla è spogliarla delle interpretazioni consolatorie o colpevolizzanti». La serie sembra fare proprio questo: non trasforma il cancro in simbolo, lo mostra come una condizione reale, che però non può – e non deve – cancellare il diritto al piacere, all’amore, alla vita.
L’ultimo viaggio di Molly è, in definitiva una riconquista: del corpo, del desiderio, della possibilità di essere protagonista della propria storia fino alla fine. Lo percorre con la lucidità di chi sa che il finale è già scritto, ma ha ancora voce in capitolo su come raccontarlo. Alla fine, resta un lascito limpido: si può ancora amare, ridere e desiderare anche quando la clessidra è quasi vuota. E forse, proprio allora, farlo conta di più.
«Good American Family»
Disponibile su Disney+
Ellen Pompeo torna sul piccolo schermo con «Good American Family», su Disney+ e si scrolla di dosso ogni traccia della rassicurante Meredith Grey per vestire i panni di Kristine Barnett, madre adottiva complessa e vulnerabile. Al suo fianco, Mark Duplass interpreta Michael Barnett, marito remissivo e osservatore silenzioso delle incrinature che attraversano la coppia.
Ispirata a un caso di cronaca reale, la serie racconta l’adozione di Natalia Grace (Imogen Faith Reid), bambina ucraina affetta da nanismo. «Good American Family», però. non è soltanto la ricostruzione di un fatto. Già il titolo, infatti, rimanda a un mito culturale radicato, quello della famiglia perfetta, solida e irreprensibile. La serie lo prende di petto e ne svela la fragilità, mostrando quanto possa diventare una maschera da mantenere a tutti i costi, anche quando la realtà emotiva è un cumulo di macerie.
La potenza di questa serie non è tanto nella trama, quanto nel modo in cui viene raccontata. La narrazione alterna momenti di ritmo incalzante a pause meditate, spostando di continuo la prospettiva dello spettatore. Il risultato è un prodotto che sollecita domande incessanti sul rapporto tra verità e memoria, su quanto il racconto – e non solo il fatto – plasmi la nostra percezione di ciò che è giusto o sbagliato. Attraverso il montaggio, la selezione delle testimonianze e la costruzione delle scene, la serie mostra come il linguaggio televisivo possa non solo trasmettere informazioni, ma influenzare profondamente l’interpretazione degli eventi.
«Good American Family» lascia aperti spazi di dubbio, si muove tra zone grigie e verità parziali, e rifiuta la linearità rassicurante. Il risultato è una riflessione sottile ma incisiva su come l’immagine pubblica, il bisogno di apparire “giusti” e la forza del racconto possano deformare o ridefinire la verità. In questo senso, la “buona famiglia americana” diventa il tema centrale della serie, ma anche e soprattutto il suo specchio distorto.
«Too Much»
Disponibile su Netflix
Lena Dunham, dieci anni dopo «Girls», torna davanti e dietro la macchina da presa per sfornare una rom-com che mastica l’idealismo amoroso e lo sputa sul marciapiede di «Notting Hill». Al centro c’è Jessica (Megan Stalter), produttrice televisiva trentenne che ha messo da parte il sogno di fare la regista, reduce da una relazione tossica con Zev (Michael Zegen), maestro di gaslighting e manipolazione emotiva. Qui Dunham non si limita a raccontare una storia di cuore infranto: affonda il coltello nel concetto di potere relazionale, mostrando come l’abuso psicologico non sia un’eccezione, ma un meccanismo fin troppo diffuso.
Il tradimento di Zev – che ora sposa una content creator interpretata da Emily Ratajkowski – è il pretesto narrativo per esplorare un tema più ampio: come si sopravvive a un sistema che insegna alle donne a farsi piccole, a giustificare la violenza emotiva, a sorridere mentre le si smonta pezzo dopo pezzo? Jessica non ha bisogno di essere messa su un piedistallo body positive: la serie la veste in modo eccentrico, la lascia occupare spazio, essere visibile e desiderabile, senza mai ridurre tutto al “messaggio edificante” per il pubblico. Con il cuore in frantumi, Jess accetta un lavoro a Londra. Al primo giro al pub incontra Felix (Will Sharpe), musicista tormentato, Mr. Darcy millennial con look e pose da romanzo ottocentesco. Tra i due nasce un legame immediato che ribalta la retorica del “sei troppo” usata per zittire le donne, trasformandola in una dichiarazione di unicità: il troppo come forza, come misura personale che non si adatta agli stampini del romanticismo tradizionale.
La star indiscussa è Megan Stalter, che porta in scena una Jess caotica, tenera, a volte irritante, sempre umanissima. Insieme a Dunham, ha creato un personaggio che non chiede di essere amato “nonostante” i suoi difetti, ma che costringe chi la circonda a fare i conti con essi.
«Too Much» racconta la conquista dell’amore senza sconti né trucchi di scena. Non è un manuale di buone maniere sentimentali, ma un promemoria pungente: amare, davvero, significa accettare anche il “troppo” – e farlo proprio, senza paura di risultare indigesti.
Bonus: «No Activity - Niente da segnalare»
Disponibile su Prime Video
Disponibile su Prime Video «No Activity – Niente da segnalare» — a mia discolpa — l’ho recuperata solo adesso, nonostante sia uscita nel 2024. Una chicca imperdibile, tanto che la inserisco come bonus nella mia lista personale di serie da non perdere. Sei episodi di comicità al millimetro, adattamento italiano dell’originale australiana, con un cast che è un concentrato del meglio della scena comica e teatrale nostrana.
La premessa è disarmante: 500 chili di cocaina stanno per arrivare in porto. Da una parte i criminali — “lo stagista” Dario (Stefano Balsamo) e la “leggenda della mala” Toni Totaro (Rocco Papaleo) — al servizio del «boss della laguna» (Diego Abatantuono). Dall’altra la polizia, con la coppia in appostamento Marcello (Luca Zingaretti, inedito e sorprendente in chiave comica) e Achille (Pietro Tiberi), e in centrale Katia (Lina Signoris) e Perri (Emanuela Fanelli).
Poi? Poi non succede quasi nulla — ed è proprio qui la magia. Niente inseguimenti, solo appostamenti notturni, attese e chiacchiere da retrobottega del poliziesco, con tempi comici perfetti e dialoghi cesellati. È come togliere tutta l’action da un crime e scoprire che il backstage è la parte più divertente.
A impreziosire il tutto, una pioggia di guest star (Maccio Capatonda, Pannofino, Lorella Cuccarini, Marcella Bella) che entrano, piazzano la battuta migliore e spariscono. La serie smonta l’epica dell’azione e dell’eroismo poliziesco, sostituendola con la rappresentazione di un sistema fatto di attese infinite, burocrazia, piccole vanità e relazioni umane imperfette. Una microfotografia ironica del lavoro quotidiano, dove la retorica dell’“azione a tutti i costi” lascia spazio alla verità di lunghe ore in macchina o in centrale, a parlare di tutto tranne che dell’operazione in corso.