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Le migliori cinque serie tv uscite a novembre

Articolo. Dall’addestramento dei Marines alle utopie extraterrestri, dai misteri familiari alle battaglie per la libertà, cinque storie che illuminano le crepe delle nostre istituzioni e delle nostre scelte

Lettura 6 min.

Novembre è quel mese strano in cui rallentiamo senza fermarci, oscillando tra la voglia di restare sotto le coperte e il bisogno di qualcosa che ci tenga svegli. E le serie di questo periodo sembrano fatte apposta per accompagnare quella sensazione: ognuna racconta un pezzo di realtà attraverso un genere diverso e tutte, in modo più o meno esplicito, parlano di come ci muoviamo dentro regole, aspettative e pressioni che non scegliamo davvero. Lampi di verità travestiti da intrattenimento, perfetti per questo mese in cui abbiamo finalmente il tempo di ascoltarli, forse.

«Boots»

Disponibile su Netflix

Quando arriva una produzione ambientata in un contesto militare statunitense, di solito ci si prepara all’ennesima glorificazione della disciplina. Ma «Boots», per fortuna, imbocca una strada diversa: non il trionfo dell’eroismo, ma la radiografia di un sistema che vive di contraddizioni, spesso ignorate da chi lo celebra. La serie, tratta dal memoir «The Pink Marine» di Greg Cope White segue un ragazzo che, all’inizio degli anni Novanta, decide di arruolarsi nei Marines quasi per scappare dalla propria vita. L’addestramento, però, diventa per lui un campo minato non solo fisico, ma politico.

La forza della serie sta nel modo in cui mette a nudo la violenza “pedagogica” su cui si regge l’intero apparato. Istruttori che oscillano tra sadismo e paternalismo, reclute trattate come materiale da modellare, gerarchie che credono di salvare vite selezionando chi è “adatto” e chi no. A emergere è la struttura militare come istituzione totale: un ambiente che decide chi incarna il mito del marine perfetto e chi invece è percepito come deviazione.

Nel gruppo di istruttori spicca il sergente Sullivan (interpretato da un sorprendente Max Parker), figura simbolo di quell’ambivalenza: campione del sistema, tempra di ferro, incarnazione della retorica patriottica ma anche bersaglio dello stesso meccanismo quando la sua vita esce dai binari previsti. L’altro grande tema è l’America del 1990: un Paese ossessionato dalla purezza delle sue istituzioni, pronto alla caccia alle streghe, incapace di comprendere la complessità delle persone che quelle istituzioni dovrebbero sostenerle, non schiacciarle. «Boots» non è una serie antimilitarista, ma nemmeno un’ode alla «famiglia dei Marines»: è un racconto che mostra una caserma capace sia di creare comunità sia di annientare l’individuo pur di preservare immutata l’immagine della sua forza.

«Pluribus»

Disponibile su Apple TV+

Improvvisamente, un misterioso fenomeno extraterrestre cambia tutto. Inizia come un’anomalia, ma in poche ore l’umanità viene attraversata da una trasformazione irreversibile: le persone diventano serene, cooperative, unite. Una sorta di armonia spontanea avvolge il pianeta. Le liti cessano, i conflitti spariscono, le città diventano luoghi quasi pacificati.

Non è una possessione, non è un controllo mentale plateale. È qualcosa di più sottile: un allineamento emotivo che porta gli esseri umani a sentirsi parte dello stesso flusso di benessere. Rimane fuori da questa nuova condizione una piccola percentuale della popolazione. Tra loro c’è Carol Sturka (Rhea Seehorn), donna intelligentissima, poco incline alla compassione, che osserva il mondo intorno a sé trasformarsi in qualcosa che non riconosce più.

Carol tenta di capire cosa stia accadendo, perché l’effetto non la tocchi e se questa nuova serenità universale sia davvero ciò che sembra. Inizia così un percorso tortuoso che la trascina dentro a laboratori, comunità “illuminate” e a gruppi di persone che vedono nel cambiamento non una benedizione, ma una perdita di sé. A un primo sguardo, il fenomeno che travolge l’umanità appare come un regalo inatteso. Ma basta seguire Carol per vedere le ombre: se tutti pensano allo stesso modo, dove finisce il dissenso? Se nessuno prova più rabbia, che cosa succede al conflitto, che è una delle molle fondamentali della crescita umana?

La serie gioca su un’ambivalenza potente: ciò che sembra il traguardo perfetto si rivela un mondo in cui le scelte non sono più scelte, in cui il benessere è imposto come condizione naturale, in cui la libertà diventa superflua. Carol diventa così l’emblema di chi rifiuta l’omologazione anche quando questa appare paradisiaca. «Pluribus» non punta il dito contro niente e nessuno, ma mette in scena il paradosso della felicità obbligatoria e l’idea che, eliminando i contrasti, si elimini anche ciò che rende umani.

«All Her Fault»

Disponibile su Sky e Now

La serie, tratta dall’omonimo bestseller di Andrea Mara e adattata da Megan Gallagher, ruota attorno a Marissa Irvine, interpretata da Sarah Snook, donna di successo nel mondo degli affari, apparentemente perfetta nella sua vita privata e professionale, che si trova improvvisamente catapultata nel caos con la scomparsa del figlio Milo. L’intreccio si sviluppa su otto episodi, distribuiti a coppie settimanali, costruendo un meccanismo di suspense in cui ogni rivelazione apre nuove domande e mette in discussione le certezze acquisite nelle puntate precedenti. La trama diventa un’occasione per osservare le fragilità di una società che giudica, mette sotto pressione e spesso colpevolizza chi affronta la maternità, la carriera e le aspettative sociali simultaneamente.

Dakota Fanning interpreta Jenny, madre dell’amico di Milo, il cui ruolo aggiunge un’ulteriore dimensione di complessità: la serie mostra come anche le persone apparentemente più innocue possano trovarsi coinvolte in dinamiche di responsabilità condivisa, manipolazione e sospetto, in un contesto in cui le autorità, rappresentate da Michael Peña nel ruolo del detective Alcaras, devono destreggiarsi tra procedure e bugie. Jake Lacy, nel ruolo del marito Peter, completa il quadro familiare, evidenziando quanto i rapporti personali siano strettamente intrecciati con strutture sociali più ampie, e come le pressioni esterne possano influenzare decisioni, azioni e rapporti interpersonali.

La serie non si limita a raccontare la sparizione di un bambino: costruisce una lente attraverso cui osservare la società contemporanea, le differenze di classe, il giudizio pubblico e il ruolo delle istituzioni, mostrando quanto la vulnerabilità individuale sia spesso amplificata da norme, aspettative e pregiudizi collettivi. Il dramma di Marissa diventa metafora di una generazione che vive costantemente sotto il peso del controllo sociale e della paura del giudizio, mentre ogni passo verso la risoluzione del mistero mette in luce corruzione morale, cinismo e compromessi invisibili, senza però sacrificare il realismo della rappresentazione.

«The Morning Show»

Disponibile su Apple+

Colpevolmente, ho visto «The Morning Show» solo ora che è uscita l’ultima stagione, la quarta, che si porta dietro tutto il caos accumulato sin dal debutto del 2019, e senza far nulla per stemperarlo: anzi, ci si siede sopra come benzina fresca su un vecchio falò ancora fumante. Fin dal primo episodio della prima stagione, la storia si è costruita su un impero mediatico che si credeva intoccabile, poi distrutto dall’espulsione del suo volto storico, Mitch Kessler (Steve Carell), travolto da accuse di molestie. Quel crollo, e la gestione schizofrenica delle sue conseguenze, ha definito il rapporto tra Alex Levy (Jennifer Aniston) e Bradley Jackson (Reese Witherspoon), due donne diversissime che si sono ritrovate a navigare un’arena che premia solo chi è disposto a consumarsi. La seconda stagione ha aggiunto la pandemia, lo scontro sulla narrativa pubblica, l’ipocrisia dei network e un mondo che pretendeva verità mentre manipolava ogni informazione. La terza ha spinto tutto oltre, introducendo fusioni aziendali, miliardari capricciosi, segreti di famiglia che Bradley ha provato a seppellire e che, ovviamente, sono esplosi nelle mani di tutti, trasformando la newsroom in un ring di paura e ferocia.

La quarta stagione prende questa eredità e la rovescia. Alex Levy affronta un network che non le somiglia più: vuole comandare, influenzare, spostare gli equilibri, ma ogni volta che tenta di controllare la situazione finisce per diventare parte del problema. Jennifer Aniston si diverte a interpretare una donna che cambia personalità a seconda di chi ha davanti, una diplomatica armata di ego e ansia di rilevanza, mentre Reese Witherspoon fa di Bradley una mina vagante: idealista quando le conviene, impulsiva sempre, capace di mettere a rischio la carriera per un gesto istintivo e poi di difenderlo come scelta strategica.

«The Morning Show» non pretende più di dare lezioni su verità e informazione: mostra semplicemente come l’informazione venga prodotta da persone che sbagliano, mentono, cambiano idea, manipolano e si manipolano a vicenda. Se nelle prime stagioni c’era il desiderio di capire «come dovremmo comportarci», qui prevale un’altra domanda: quanto costa restare rilevanti in un mondo che dimentica un errore in due ore e una persona in dieci minuti? La risposta è un vortice di scandali, colpi bassi e momenti di pura brillantezza, in cui nessuno è un eroe, ma tutti sono incredibilmente egoisti. Con buona pace della retorica.

«Mrs Playmen»

Disponibile su Netflix

La serie racconta la vita di Adelina Tattilo , interpretata da Carolina Crescentini, eroina audace della Roma anni Settanta. Non si tratta di una biografia tradizionale: la trama ripercorre l’ascesa di una donna che decide di rivoluzionare il modo in cui l’Italia guarda al corpo, al desiderio, alla libertà personale. Tattilo sfida le convenzioni del suo tempo portando in edicola immagini e contenuti che il Paese non era minimamente pronto ad accogliere.

Gli anni che segue sono un susseguirsi di processi, sequestri, scandali e battaglie legali. I benpensanti gridano allo scandalo, i giornali la demonizzano, la magistratura interviene a ripetizione. Tattilo, però, non arretra: vuole costruire un modello editoriale che dia spazio alla sensualità senza vergogna e che, allo stesso tempo, affermi un nuovo modo di raccontare la donna.

Accanto alla protagonista si muove un cast ben calibrato – Filippo Nigro, Giuseppe Maggio, Francesca Colucci, Domenico Diele, Francesco Colella, Lidia Vitale e Giampiero Judica – che ricostruisce un ambiente attraversato da giudici inflessibili, giornalisti ipocriti, fotografi visionari e collaboratori che oscillano tra fascinazione e timore, mostrando come la libertà espressiva venga spesso tollerata solo quando è innocua, decorativa o facilmente neutralizzabile. La serie rappresenta una donna che non si limita a gestire una rivista, ma che si confronta quotidianamente con strutture di potere rigide, incapaci di accettare che il piacere possa essere considerato una forma di autodeterminazione.

«Mrs Playmen» restituisce il ritratto di un’Italia che vorrebbe essere contemporanea ma resta intrappolata nei propri moralismi, e lo fa evitando il tono nostalgico, mostrando invece come ogni conquista richieda una battaglia quotidiana. Tattilo diventa una figura simbolica non perché proclama grandi ideali, ma perché resiste all’idea di essere confinata in un ruolo decorativo, trasformando il suo lavoro in una forma di affermazione personale che scuote un intero sistema abituato a controllare ciò che non comprende.

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