Sarà che il cielo era grigio, sarà che le temperature sembravano quelle di inizio scuola più che da sdraio in spiaggia, ma alcune giornate di questo mese di luglio ci hanno regalato una rara opportunità: quella di restare a casa senza sensi di colpa. Nessuna FOMO, nessun bisogno di mettere fuori il naso. Solo divano, pioggia, e una manciata di serie che ci hanno letteralmente sequestrato il tempo. Abbiamo selezionato quattro titoli che meritano attenzione e una visione integrale. In più, come dessert di fine pasto, un ritorno d’eccellenza. Pronti? Cominciamo!
«Gerri» (su Netflix)
Lo ammetto: quando è andato in onda su Rai1, una sera ci sono finita sopra per caso. Era tardi, stavo crollando, ho intravisto qualcosa ma non ci ho badato. Poi però «Gerri» è arrivato su Netflix, in quella forma strana – quattro puntate da due ore – e lì, complice la pioggia e la voglia di qualcosa di nuovo ma non troppo urlato, mi sono tuffata, proiettando tutto quello che era possibile proiettare: infanzia perduta, legami familiari complicati, introspezione alle stelle.
Il protagonista, Gregorio Esposito, per tutti Gerri (ma all’anagrafe Goran), è un ispettore di polizia di origine rom. La madre lo ha abbandonato da bambino, lui è cresciuto in una casa-famiglia e si porta dietro un vuoto mai colmato, un nervo scoperto che incide ogni scelta, personale e lavorativa.
Giulio Beranek – talento puro, credibile sempre – è l’attore che gli presta corpo e sguardo. Il personaggio che interpreta è un poliziotto scomodo, istintivo, non pacificato, un personaggio da noir mediterraneo che fa un salto di qualità in più. Nella questura di Trani lo guardano storto per le sue origini, e non riesce a tenere in piedi una relazione nemmeno con se stesso.
Ma Gerri è anche la storia della famiglia che si sceglie: Alfredo (Fabrizio Ferracane) e Claudia (Roberta Caronia) lo trattano come un figlio, l’ispettrice Lea (Valentina Romani, uno dei talenti che più apprezzo della mia generazione) gli tira fuori un’umanità che è tutta nuova per lui.
E poi, c’è Carlotta Natoli. Il suo ritorno è una boccata d’aria e talento, un viso che mancava sul piccolo schermo, capace di dire tutto con un sopracciglio. Anche Irene Ferri tiene le redini del gioco per un po’, con quella maledetta abitudine che la televisione italiana ha di farle fare sempre “l’altra”. Ma è brava, lo è sempre stata, da «Un medico in famiglia» in poi.
«Sorelle sbagliate» (su Prime Video)
Jessica Biel è diventata una donna di ghiaccio. Da «Settimo cielo» in cui era la maggiore di cinque fratelli col volto angelico che lasciava già trapelare il suo charme, ha mantenuto quel fascino freddo e impenetrabile che qui, in «Sorelle sbagliate» (The Better Sister, su Prime Video), si fa struttura narrativa.
È Chloe, brillante, ricca, caporedattrice di una rivista femminile che ha tutta l’aria di Vogue mescolata a LinkedIn. Dall’altra parte c’è Nicky – Elizabeth Banks – sorella fallita, disordinata, apparentemente invidiosa. Due donne che si odiano, si giudicano, si accusano e si definiscono a vicenda. Fino a quando non scoppia il caso: l’uomo che è stato prima marito di una e poi compagno dell’altra (Corey Stoll) viene ucciso.
«Sorelle sbagliate» si iscrive a pieno titolo nel club delle serie tratte da romanzi di successo, ma lo fa senza scopiazzare. Qui non si punta tanto sul giallo quanto sul confronto velenoso e stratificato tra due donne cresciute insieme e divise da tutto: classe sociale, visione del mondo e un passato da elaborare e rielaborare. Banks regala un’interpretazione ironica e piena di sfumature; Biel, algida come una lama, convince anche quando il suo personaggio diventa detestabile. La tensione è garantita e per chi ama le storie di famiglia dove la verità è sempre la terza versione, «Sorelle sbagliate» funziona.
«Adults» (su Disney Plus)
La sitcom da hangout per la Gen Z? Eccola. Su Disney+ arriva «Adults», e no, non cerca di ergersi a manifesto generazionale. Anzi: la prende larga, punta tutto sulla chimica del gruppo e si diverte a raccontare il disagio con grazia, intelligenza e quel pizzico di assurdo che serve a farci sentire meno scemi anche quando lo siamo davvero.
La trama è quella di sempre: (più o meno adulti cinque amici) condividono una casa, esperienze, nevrosi e cavolate. Il tono è ipercontemporaneo: si parte con una scena in metro dove una dei protagonisti reagisce a un molestatore. Si ride, ma a denti stretti. Tra gli episodi più riusciti, quello con Paul Baker e il banco dei pegni, vedrete perché. Il gruppo è solidissimo, con i personaggi che entrano subito nel cuore (e nelle chat di gruppo): Billie, Anton, Samir, Issa e Paul Baker diventano in fretta gli amici disfunzionali che vorresti non avere ma ai quali finisci per affezionarti.
Gli autori, giovanissimi, riescono a evitare sia la retorica che l’autocompiacimento. «Adults» non vuole spiegarti il mondo: vuole solo raccontare una generazione che si sente sempre un passo indietro e un metro fuori posto. E ci riesce con una leggerezza che sa essere anche profondamente empatica.
«Dept. Q – Sezione casi irrisolti» (su Netflix)
Netflix ci prova con l’ennesimo detective geniale e disturbato, ma stavolta ci prende in pieno. «Dept. Q – Sezione casi irrisolti» è un crime cupo, tagliente, pienamente britannico nel tono ma con radici scandinave: si ispira infatti alla saga danese di Jussi Adler-Olsen, già trasposta in Nord Europa con successo. Qui però c’è una nuova anima: più ironica, più abrasiva, più noir.
Protagonista assoluto è Carl Morck, ispettore della polizia di Edimburgo: brillante, cinico, anaffettivo, e (neanche a dirlo) profondamente danneggiato. Lo interpreta Matthew Goode, che siamo abituati a vedere in ruoli eleganti e compassati ( Downton Abbey , A Discovery of Witches , The Crown ). In «Dept. Q» invece è completamente fuori forma: trasandato, incattivito, con una rabbia che gli brucia addosso come un vecchio whisky andato a male.
Carl viene messo da parte dopo che un’indagine gli è esplosa in faccia: una sparatoria finita male (ma proprio male: una recluta morta, un collega rimasto paralizzato, e lui colpito alla gola) gli costa la reputazione, la squadra e, in parte, la voglia di vivere. Il capo decide di spedirlo in cantina – letteralmente – a occuparsi di casi freddi: i fascicoli polverosi che nessuno vuole più leggere. Così nasce il Dipartimento Q, che nella migliore tradizione britannica diventa rifugio per gli inadeguati.
Con lui lavorano due personaggi decisamente fuori standard: Akram, immigrato siriano pieno di ombre, preciso e silenzioso, che sembra sapere più di quanto dica; e Rose, ex agente ridotta al lavoro d’archivio dopo un crollo nervoso, ma tutt’altro che rassegnata al ruolo da comparsa. Tre figure rotte, diverse, isolate. Insieme, però, trovano un’inaspettata sinergia. Perché nei reietti della polizia si nasconde spesso un talento spaventoso.
Il caso attorno al quale ruota la stagione è quello di Merritt Lingard, un’avvocata scomparsa nel nulla quattro anni prima. L’indagine si sviluppa a strati, mescolando piste investigative, flashback torbidi e interazioni umane sempre sul filo dell’abisso. La tensione non viene mai urlata, ma costruita piano, con pazienza chirurgica. Il tono è cupo, l’atmosfera densa, e la scrittura – finalmente – all’altezza delle aspettative: asciutta, tagliente, mai compiaciuta.
La regia è una delle sorprese migliori: tra i nomi dietro la macchina da presa spicca Elisa Amoruso, già autrice di « The Good Mothers », che firma tre episodi portando con sé uno sguardo preciso e sensibile anche nelle scene più tese. E sì, c’è azione, ma mai fine a sé stessa. Ogni pugno, ogni silenzio, ogni dettaglio ambientale serve a raccontare chi sono questi personaggi e perché sono finiti lì, in un seminterrato umido a dare la caccia ai fantasmi degli altri – mentre i propri restano fuori dalla porta.
Il risultato? Una serie che riesce laddove in molti hanno fallito: rendere di nuovo avvincente il crime procedurale, senza effetti speciali né twist esagerati. Guardatela per la trama, resterete per i personaggi. E poi Carl Morck: lo odierete al primo episodio, lo amerete al quarto. Proprio come succede con i veri detective da manuale.
«The Bear 4» (Bonus su Disney Plus)
Vi avevo consigliato di vederlo in uno dei primi articoli della rubrica complice il successo in termini di critica. Nel frattempo Jeremy Allen White che presta il volto al protagonista, Carmy, è diventato un sex simbol e dopo che nella seconda e nella terza stagione non è successo praticamente nulla, «The Bear», stagione 4, è arrivata su Disney+. Si svolge in un lunedì che sembra essere eterno, uno di quelli in cui tutto può esplodere o salvarsi. Il tempo, come sempre nello show creato da Christopher Storer, è tutto. Ogni secondo conta. Ma stavolta conta in un altro modo.
L’orologio gira al contrario. Lo zio Cicero (Oliver Platt) ha dato dodici settimane al ristorante per invertire la rotta o chiudere i battenti. Carmy non è più sopraffatto dal caos, ma da qualcosa di peggio: il vuoto. Dopo tre stagioni passate a correre, urlare, perfezionare, l’assenza di emergenza lo paralizza. La sua ex, Claire (Molly Gordon), è tornata nella sua vita, ma la tranquillità che rappresenta – l’amore stabile, la possibilità di respirare – lo terrorizza più di qualsiasi servizio andato storto. Non sa come stare fermo, non sa cosa farsene della pace.
Sydney (Ayo Edebiri), invece, è ferma in un limbo: un’offerta di lavoro importante che non riesce a decidere se accettare, un legame affettivo con Carmy che non è mai diventato altro, e il peso di un padre malato che la richiama a una parte di sé che ha sempre tenuto fuori dalla cucina. Sta cercando di capire chi è, ma soprattutto: quanto di sé vuole ancora sacrificare per lavorare in quel ristorante.
Richie (Ebon Moss-Bachrach) ha smesso di cantare Taylor Swift, ma non per questo è meno interessante. Anzi: è più maturo, sta imparando ad accettare il ri-matrimonio della sua ex (Tiff, interpretata da Gillian Jacobs), a essere un padre presente per la figlia, e a trovare un senso nella sua posizione al Bear. È il personaggio che forse è cresciuto di più: non ha più bisogno del caos per sentirsi utile.
Marcus (Lionel Boyce), il pastry chef, continua a perfezionare dolci meravigliosi, ma si chiude emotivamente davanti al padre, che prova a riallacciare un rapporto. Il lavoro gli viene sempre meglio, ma a livello umano è congelato, incapace di affrontare la perdita della madre e il dolore che ne deriva.
E infine Tina (Liza Colón-Zayas), che dopo essere stata al centro in passato, ora torna nelle retrovie con determinazione: si allena ossessivamente per chiudere un primo piatto in meno di tre minuti, come se il tempo fosse una prova d’amore per il mestiere, o forse un modo per non pensare a tutto il resto.
E noi? Noi guardiamo, metabolizziamo e ci rendiamo conto che «The Bear» non è più solo una serie sulla cucina. È una serie sul trauma, sulla co-dipendenza, sulla ricerca di senso in mezzo alla pressione.
La quarta stagione è la più densa, la più consapevole, la più matura. Ci sono meno esplosioni e più silenzi. Meno adrenalina, più risposte e pacificazioni. Eppure, continua a colpirci allo stomaco. Lo fa con le parole, con le scelte, con lo sguardo fisso nel vuoto dei suoi personaggi. La cucina è ancora il campo di battaglia, ma la guerra si combatte dentro. Non è più tempo di piatti instagrammabili. È tempo di capire chi si è davvero.
Il futuro della serie è incerto. Ma se anche si fermasse qui, ci lascerebbe con qualcosa di raro: una narrazione che non ha paura di mostrarsi vulnerabile. Una serie che parla della fatica di essere vivi. E noi, nel dubbio, andiamo a ordinare un panino. Magari con extra sugo. Perché, in fondo, anche quello è un modo per affrontare il tempo che ci è dato.