Il fuoco allegoria della compassione (come ne «La strada» di McCarthy), il fuoco luce artefice di ogni cosa (come nel «Prometeo incatenato» di Eschilo), il fuoco come parola, ragione, poesia, epifania rovente che, con le proprie fiamme, logora la dimensione preverbale e la barbarie. Si dimentichi tutto ciò. In «Fare un fuoco» – lo spettacolo teatrale di Francesco Niccolini e Luigi D’Elia che, all’interno di «deSidera Bergamo Festival» (i cui temi centrali, quest’anno, sono la speranza e la memoria), verrà portato in scena venerdì 8 agosto alle 21.15 presso la Sala San Fermo di Almè – il fuoco, semplicemente, è quello che è: l’effetto della combustione. Eppure, il protagonista della pièce scoprirà presto che l’incerto confine fra la vita e la morte si svela proprio nel suo corretto innesco. Soprattutto se ci si trova pressoché soli, in uno dei territori più impervi del Canada, in inverno e nel mezzo di un viaggio che, fra sogni e desideri e attraverso una natura meravigliosa e sconfinata, si trasforma, improvvisamente, in una strenua quanto complessa lotta per la sopravvivenza. Ne parliamo con il regista Francesco Niccolini.
FR: Di cosa parla «Fare un fuoco»?
FN: Lo spettacolo è tratto da un racconto di Jack London che, con somma asprezza, narra di un uomo che con il proprio cane, in piena corsa all’oro, deve attraversare il territorio immenso dello Yukon per raggiungere i suoi compagni nei pressi di una miniera che, ne è convinto, lo renderà molto ricco. Il protagonista, però, sottovaluta il viaggio e la natura e, per questo motivo, pagherà conseguenze pesantissime: gli errori nell’accendere adeguatamente il fuoco avranno infatti esiti spaventosi sul suo corpo e sulla sua vita. A differenza del testo originale, che ci dice pochissimo dei personaggi, la nostra opera teatrale scava nell’esistenza di quest’ultimi, cerca di caratterizzarli meglio e inserisce la figura di una donna inuit che, nel capolavoro di London, non è presente. Per fare ciò, ci siamo basati sull’incredibile biografia dell’autore e su altri suoi bellissimi componimenti.
FR: Come è nata l’idea di portare a teatro questo racconto?
FN: Io e Luigi (Luigi D’Elia, ndr), ispirandoci a «Zanna Bianca» e a «Il richiamo della foresta», avevamo già portato in scena Jack London. La nostra produzione, del resto, è molto legata al tema della natura selvaggia. Da anni, però, volevamo fare una trasposizione teatrale di questo racconto, così secco e spoglio. Credo sia una delle tappe più importanti del lungo sodalizio che, da più di sedici anni, mi lega a Luigi. Lo spettacolo rivela dei particolari non presenti nel testo a cui si ispira. Anche per questo, il finale rimane aperto: è lo sguardo interpretativo dello spettatore a decidere se la trama si concluda in modo positivo o in modo negativo, se ci sia spazio per la speranza o no.
FR: All’interno dell’opera si accenna al «Silenzio bianco». Di cosa si tratta?
FN: È qualcosa di inimmaginabile, almeno per coloro che non sono mai saliti in montagna a duemila metri d’altezza o per coloro che non si sono mai trovati in mezzo alla neve, a meno venti gradi. È il silenzio assoluto, qualcosa di magnifico ma, al tempo stesso, anche di terribile. Ci si può perdere e smarrire. Non per niente, il racconto di London può essere interpretato anche come una grande riflessione sulla follia dell’uomo contemporaneo, che pensa di poter dominare il mondo e di poterlo assoggettare alla propria volontà tramite la propria tecnologia. Non è così. E questo perché l’uomo non è un dio, è un essere finito.
FR: E quindi, inevitabilmente, possiede dei limiti…
FN: L’uomo anela sempre a qualcos’altro, è nella sua natura spingersi oltre, è più forte di lui e forse inevitabile. Credo però sia bene imparare ad accontentarsi, a godere di quel che si ha, a non alzare all’infinito la cosiddetta asticella. La tragedia è quando non ci basta mai nulla, soprattutto se siamo convinti di poter fare qualunque cosa in barba ai limiti imposti dalla natura. Io provengo dalla scuola di Marco Paolini: non c’è storia più azzeccata di quella del Vajont, forse, per spiegare al meglio questo concetto.
FR: Quella di London è una visione del mondo in linea con le odierne battaglie ambientaliste?
FN: È il cuore di questo spettacolo: mettere in evidenza l’arroganza dell’uomo, quella di pensarsi più forte della natura. Rischiamo di essere tutti spazzati via dalla nostra incoscienza e dalla nostra avidità. E dall’insana idea di crederci onnipotenti. Non lo siamo. Accecati dalla nostra stupidità e dal nostro egoistico individualismo, rischiamo di causare danni enormi.
FR: La natura, citando Leopardi, è «matrigna»?
FN: Alla routine urbana, preferisco il tempo che passo nei boschi e in montagna. Alberi e sentieri mi riempiono il cuore più che negozi e strade cittadine. Ma la natura, per quanto bella, è crudele e tremenda. Non mi appartiene l’idea, sentimentale e un po’ salottiera, di una natura buona e idilliaca.
FR: Come avete fatto, a livello scenografico, a suggerire l’ambiente estremo dello Yukon?
FN: Gli spettatori sono immersi completamente nel buio ma, nonostante ciò, ci dicono che riescono a vedere il “silenzio bianco”, evocato, paradossalmente, dalle parole di Luigi e dal grande e potente tessuto musicale: le tracce, originali, sono del compositore lucchese Giorgio Lazzarini.
FR: «Fare un fuoco» è la storia di un’ossessione?
FN: Direi di no, non c’è una vera e propria ossessione come in «Moby Dick», il capolavoro dei capolavori. C’è sicuramente, però, da parte del protagonista, un’ingorda quanta morbosa volontà di arricchirsi: nonostante, a un certo punto, grazie alla vendita delle pelli di lontra, abbia già ottenuto un ottimo guadagno, vuole fare più soldi. La tematica dell’arricchimento (e dello sfruttamento), del resto, è spesso presente in Jack London: non è un caso che fu un grande interprete del primo pensiero socialista.
FR: Cosa rappresenta il fuoco?
FN: Il fuoco è il fuoco, che si ottiene mediante i fiammiferi, la corteccia e la legna asciutta. La presenza o l’assenza del fuoco, in questo racconto pragmatico e primordiale, delinea il confine fra la vita e la morte. Ma il fuoco rappresenta anche qualcosa che non si deve mai spegnere, qualcosa che, da qualche parte dentro di noi, deve essere alimentato, rimanere acceso e possibilmente brillare.
FR: E se fosse il fuoco della memoria e della speranza?
FN: La speranza è quella di tenere viva la memoria, la memoria dei nostri limiti. Se ce ne scordiamo, le conseguenze, come già detto, possono essere catastrofiche. È un monito per l’uomo moderno, soprattutto quello occidentale, interessato più alla memoria di computer e smartphone che a quella che ha a che fare con l’essenza della propria specie. Essere consapevole della propria finitudine e riuscire ad avere un rapporto sano con gli errori del passato, credo sarebbe una grande conquista per l’essere umano.
Oltre ad Almè, «Fare un fuoco» verrà riproposto sabato 9 agosto alle 21.15 presso il santuario della Madonna del Bailino di Levate (in caso di maltempo, presso la Sala della comunità in Piazza Amedeo duca d’Aosta). Per maggiori dettagli e per la programmazione completa di «deSidera Bergamo Festival» è possibile consultare il sito ufficiale della rassegna.