93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Il teatro è un rito magico di cui continuiamo ad avere bisogno. La parola agli attori di «deSidera»

Articolo. Cosa significa vestire i panni di Giuda, il cattivo per eccellenza dell’immaginario cristiano? E quelli del tenente Drogo, il protagonista del romanzo di Buzzati? Come ci parlano le poesie di Alda Merini? Lo abbiamo chiesto ai protagonisti di «Traditori», «Tartari» e «Cuntempla», tre spettacoli che faranno il loro debutto quest’estate all’interno di «deSidera Bergamo Festival»

Lettura 7 min.
«Traditori»

Per Andrea Carabelli, il teatro è un gioco, nel senso più alto del termine. «To play», recitare e giocare: con lo spettatore, ma prima di tutto con sé stessi. Per Tiziano Ferrari, il teatro ha a che fare con il tempo. E ancora, Giulia Villa e Cecilia Uberti Foppa lo definiscono un «incontro tra corpi». Un rimettersi ogni volta all’interno di una dinamica – fisica, tangibile – di relazione.

Ho ascoltato solo quattro delle tante voci che anche quest’estate « deSidera Bergamo Festival » propone al pubblico. Quattro idee diverse di teatro che potrei riassumere con un’unica impressione: il teatro è un’esperienza che coinvolge tanto lo spettatore quanto l’interprete. Quando l’attore, partendo dal proprio bisogno di senso, dalle proprie domande, riesce a fare leva sulle domande e sui desideri che animano coloro che guardano («deSidera», da «desiderio», «sentire la mancanza delle stelle» – un’etimologia bellissima) allora ha raggiunto il suo scopo.

Parto da qua per raccontarvi «Traditori», «Tartari» e «Cuntempla», tre spettacoli che la ventunesima edizione del festival porterà nelle prossime settimane sul territorio bergamasco (a questo link trovate il programma completo). Tre debutti nazionali, a cui si aggiunge «La cena dei buffoni», una produzione Stivalaccio Teatro diretta da Marco Zappello che unirà al teatro un’imperdibile esperienza culinaria (5 agosto a Treviglio, evento a pagamento su prenotazione per massimo 100 persone).

«Traditori» e quel volto umanissimo di Giuda

Sul palco ci sono Giuda e Pietro. Il primo è dietro le sbarre di una prigione, il secondo è fuori. Entrambi hanno tradito Cristo, ma solo Pietro ha saputo chiedere misericordia. Lo spettacolo che Andrea Carabelli e Claudio Lobbia proporranno a Gandino sabato 15 luglio (piazza Santa Croce, in caso di maltempo nella chiesa di Santa Croce) e martedì 5 settembre a Sant’Omobono Terme (Santuario della Cornabusa), segue il film del 2021 «Io sono Giuda», realizzato dallo stesso Carabelli con il suo Teatro degli Scarrozzanti. Un film che già aveva puntato i fari sul personaggio di Giuda come descritto dalla mistica del Novecento Maria Valtorta.

«Il progetto era nato a suo tempo da una richiesta da parte di una fondazione che si occupa di Maria Valtorta – racconta Carabelli – Era però il periodo del pieno Covid per cui, impossibilitati ad andare in teatro, abbiamo ritradotto tutto il lavoro artistico in chiave cinematografica, sebbene il film, molto dialogato, conservi la sua matrice teatrale». Nel mediometraggio, da un immaginario dialogo post mortem tra Pietro e Giuda, scaturiscono in forma di flashback tutte le vicende legate al rapporto tra Gesù e Giuda. «Siamo ripartiti proprio da questo dialogo per creare il centro del nostro spettacolo teatrale. Quello che nel film restava la cornice, nella rappresentazione diventa il cuore. Da qui anche l’idea del titolo, che pone al centro due persone, anziché una sola».

A Carabelli, ancora una volta, andrà il compito di indossare i panni di Giuda. Panni ingombranti («non vedo l’ora di toglierli!») perché se nell’immaginario collettivo Giuda viene visto come il cattivo per eccellenza, il personaggio che Carabelli ha incontrato nei testi di Maria Valtorta, riscritti dal drammaturgo teatrale Giampiero Pizzol, è invece un Giuda “umanissimo”. «Umanissimo significa prima di tutto che noi sentiamo e capiamo che lui fa una vita assolutamente normale, la vita che potrebbe fare ognuno di noi. Giuda era perfettamente inserito dentro la società, era stato istruito al tempio, veniva da un’ottima famiglia. E allora qui comincia la questione. Ed è la prima ragione per cui anche chi guarda rimane catturato. Anche scavando dentro i sentimenti di Giuda, ci si imbatte in una psicologia perfettamente umana. Si incontra una persona che davvero vuole amare Gesù, una persona che vorrebbe inserirsi nel gruppo insieme agli altri, instaurare un’amicizia».

Pietro e Giuda sono due facce della stessa medaglia, due parti di una stessa umanità. Quello che cambia è la scelta personale che entrambi compiono. «Per Giuda tutto rimane fermo a sé stesso. È come se tutto il suo pensiero, anche quando mosso da sentimenti sinceri, ruotasse intorno a lui. “Se volete seguirmi, dovete lasciare tutto e venirmi dietro” dice Gesù ai suoi discepoli. Questa frase è sconcertante. E continua a interrogarci». Ci interroga, come tutto il teatro dovrebbe fare.

«Tartari» e il tempo dell’attesa

«A me piace molto il termine inglese “audience” per indicare il pubblico, anziché la parola “spettatore”. Quello che lega lo spettatore è la vista, mentre quello che lega l’audience è l’ascolto». Così Tiziano Ferrari presenta «Tartari». Uno spettacolo più da ascoltare che da vedere, un’esperienza da vivere comodi, con una coperta e magari anche ad occhi chiusi, distesi nel verde dei giardini BCC Oglio e Serio di Covo (in caso di maltempo sotto i Portici della sede BCC Oglio), sabato 22 luglio alle 21.15.

Nella rappresentazione di Ferrari, «Il deserto dei Tartari» di Dino Buzzati si tradurrà in un monologo intenso, accompagnato dai suoni live di grijselle. «Insieme alle parole di Buzzati useremo, oltre alla musica elettronica, diversi piani di interpretazione della voce, con microfoni e registrazioni. Spero che ad un certo punto, come mi succede spesso quando guardo dei film in lingua straniera, si possa smettere di guardare i sottotitoli e ci si possa abbandonare al suono della parola».

Quello con «deSidera» è un legame che Ferrari coltiva ormai da diversi anni. «È capitato in passato che Gabriele Allevi e i suoi collaboratori venissero a vedere i lavori che portavo in estate in alcuni luoghi particolari – racconta – Parallelamente, gestisco un gruppo di teatro che si chiama Spazio Teatro, con cui ho condiviso parecchie “follie”. Abbiamo “abitato” deSidera per la prima volta con un’Odissea nelle ex carceri di Sant’Agata, poi abbiamo portato i “Promessi sposi” nel Palazzo dell’Innominato a Brignano. Nel 2019 abbiamo scelto di proporre un “Decamerone” in un castello privato a Valverde».

Alla peste del «Decamerone» – scherza Ferrari – è seguito lo scoppio della pandemia. Proprio durante quel periodo, Ferrari ha riletto alcuni testi di Buzzati, tra cui appunto «Il deserto dei Tartari». La storia è quella del tenente Drogo, un soldato di fresca nomina assegnato alla fortezza Bastiani, avamposto affacciato su una landa sterminata da cui un tempo giunsero i nemici: i Tartari. Lì, il tenente consuma la propria esistenza nella vana attesa di un’invasione. Che arriverà, ma troppo tardi per lui.

«Proprio quel romanzo, il romanzo dell’attesa, mi ha conquistato, in quel momento specifico della nostra vita in cui l’attesa era ciò che scandiva la nostra quotidianità – racconta l’artista – Quel tempo per ciascuno di noi ha avuto significati diversi. Il mio lavoro era sospeso a tempo indeterminato perché i teatri sono stati tra i primi a chiudere. Mi sono immaginato quello che Giovanni Drogo poteva vivere nelle sue giornate alla fortezza, parallelamente a quello che descriveva Buzzati, che in quel periodo fu assunto al “Corriere della Sera”: le sue notti, le redazioni del giornale, dove il primo desiderio era quello di scappare dalla routine quotidiana e usare il tempo in modo diverso».

«Tartari» nasce proprio dal rapporto dell’artista con il tempo e dalla sua riflessione su questo rapporto. Per questo, l’improvvisazione musicale curata da grijselle sarà dotata di una cadenza ritmica in grado di sottolineare il passaggio del tempo. I battiti aumenteranno man a mano che la storia progredirà. E poi, ci sono le parole. Quelle che secondo Ferrari costituiscono l’arma più potente che abbiamo. «Le parole sono fondamentali. E ancora di più in Buzzati, un autore frequentato a mio parere troppo poco nelle scuole, hanno una capacità evocativa enorme. Stavo riprendendo proprio adesso alcuni suoni e mi soffermavo su una parte in cui descriveva la visione della fortezza dietro una “caotica scalinata di creste”. Quando trovo un uso della parola così, io rimango affascinato… e spero di essere degno portatore di questa potenza».

«Cuntempla», il canto come esperienza comunitaria

A volte, per dare piena forza alle parole serve il canto. ALOT Teatro è una compagnia composta da undici persone. Tante, «a lot», in inglese. Nove di loro, sabato 12 agosto a Colzate (antica via di Honio, in caso di maltempo nella Chiesa della Madonna della Mercede) e il 16 settembre ad Osio Sopra (Viale degli Angeli del Santuario della Madonna della Scopa, in caso di maltempo all’interno del Santuario) porteranno in scena «Cuntempla. Avevo soltanto sete d’amore», uno spettacolo itinerante che ai testi di Alda Merini accompagnerà canti della tradizione polivocale sarda.

«Abbiamo frequentato l’ultimo anno della scuola di teatro Grock insieme, che è l’anno professionalizzante – raccontano Giulia Villa e Cecilia Uberti Foppa, che di «Cuntempla» hanno curato l’adattamento drammaturgico e la regia. «È nata una grande affinità tra noi, lavorando insieme. Negli ultimi mesi di quell’anno, alcuni di noi sono stati in Polonia, a studiare presso questa compagnia che si chiama Teatr ZAR. Quando sono tornati, ci hanno introdotto al lavoro che Teatr ZAR ha fatto sul canto tradizionale. Un metodo che unisce il canto con un vero lavoro fisico, svolto attraverso una serie di “spedizioni” in Armenia, Georgia, Sardegna, Corsica, Sicilia».

Dopo il diploma, la compagnia si forma, prendendo innanzitutto i contatti che Teatr ZAR aveva con un coro sardo, il Cuncordu de Orosei. «Andiamo in Sardegna per una settimana. Vogliamo incontrare coloro che possono insegnarci il canto, vivere con loro, di fatto mangiare con loro, così che lo studio del canto non sia solo uno studio del canto in sé, ma un incontro con una tradizione, con un certo modo di vivere e fare comunità. Abbiamo scoperto come il canto polivocale sia in costante relazione : si tratta di canti che non possono essere fatti da un singolo. È un costante “toglierti da te stesso” e metterti sempre in relazione con l’altra voce, inserire la tua voce nella sua».

Accade che anche il direttivo di «deSidera» venga affascinato dalla relazione che si crea attraverso il canto, e dall’idea del canto che si unisce alla poesia. Con Gabriele Allevi, raccontano Giulia e Cecilia, comincia un dialogo che porta alla nascita di «Cuntempla». «Abbiamo letto alcuni testi di Alda Merini e abbiamo scelto due raccolte. “Terra Santa” e il “Poema della Croce” sono di fatto l’umanizzazione del dolore, dell’amore di Maria e di Gesù. Ciò che ci interessa è come la Merini riesca a rendere carnale, tangibile, l’amore e il dolore di Maria e di Gesù. Al loro grido si unisce quello dei “folli d’amore”, la sete d’amore di coloro che sono in manicomio, luogo in cui si trovava allora la poetessa. Persone assolutamente umane, il cui bisogno di amore veniva spesso censurato da parte dei dottori. Ci interessava unire tutto ciò alla tradizione sarda, al canto, unire questa richiesta di amore al nostro bisogno di essere insieme, in relazione l’uno con l’altro».

In virtù di questa necessità di relazione, la compagnia ha scelto di proporre una forma di teatro itinerante. Un cammino, costruito appositamente per Colzate, e che verrà ri-costruito ad Osio, che lo spettatore compirà insieme agli interpreti. «Vorremmo un rapporto con lo spettatore che non sia verticale, distante, di fruizione tradizionale. Vogliamo farci compagni dello spettatore, portarlo dentro all’opera della Merini e nel canto, ma stando insieme. Sentiamo molto nostra questa questione del camminare, così come il fatto che quello che stiamo proponendo non è un prodotto da fruire. Il teatro è un costante rimetterci in scena insieme allo spettatore. È come se ogni nostro spettacolo – ce lo ricordava più volte anche il nostro maestro – fosse un tentativo di lavoro. Di scoperta e riscoperta, ogni volta».

Approfondimenti