La Prima alla Scala non è solo un appuntamento musicale: è un rito civile, un evento simbolico in cui Milano si misura e si mostra, attraversata da mondanità, cultura, politica, costume e diplomazia. La sera del 7 dicembre, davanti alla facciata del Piermarini, illuminata con la discrezione elegante che si confà alla sua architettura neoclassica, l’arrivo degli ospiti ha assunto la coreografia misurata e solenne di un grande evento pubblico. Da automobili scure sono scesi politici, creativi, volti noti del cinema, della musica e della moda.
Nel foyer, gli abiti delle signore hanno offerto una prova di creatività che, alla Prima, assume una sua grammatica: a volte bizzarra, a volte sorprendentemente misurata. A contrasto, la rassicurante monotonia dello smoking maschile ha riportato la scena a un ordine quasi geometrico.
Anche il loggione, ieri sera, è apparso come un riflesso della platea: popolato da smoking e da abiti femminili talvolta coraggiosi, talvolta sobri; da movimenti sicuri di chi frequenta il teatro da una vita e da passi più incerti, quasi timidi, di chi entrava per la prima volta. «È la mia prima Prima, e sto vivendo tante belle emozioni. Sono curiosa, sia della serata in quanto evento mondano sia dell’esperienza musicale. Frequento la lirica, ma ammetto che è un’opera e un repertorio che conosco poco. Bene ha fatto il Teatro a scegliere questo titolo, che porta con sé un impegno musicale anche per il pubblico», ha raccontato Francesca, giovane appassionata.
Dopo l’Inno Nazionale, eseguito dall’orchestra con cerimoniosa fierezza, le luci si sono abbassate e la tensione si è raccolta in un silenzio carico di attenzione. In quell’istante «Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk» di Dmitrij Šostakovič ha cominciato a prendere forma: un’opera che è un coagulo inquieto di vite, le cui prime note, scabre e sospese, hanno subito evocato la noia esistenziale di Katerina e la violenza latente del mondo che la circonda.
Šostakovič compose «Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk» nel 1934, trasformando la novella di Nikolai Leskov in un racconto musicale di sorprendente modernità. Ambientata nella provincia russa ottocentesca, l’opera mette al centro Katerina Ismailova, una donna costretta in un matrimonio senza amore e in una casa governata dal suocero Boris, figura autoritaria e brutale. L’arrivo di Sergej, operaio seduttore e ambiguo, le offre l’illusione di una via di fuga: un amore assoluto che presto si rivela un abisso. Per lui Katerina avvelena il suocero, per lui uccide il marito Zinovij e precipita in una spirale di menzogne che culmina nella deportazione in Siberia.
Durante quella marcia, il vero volto di Sergej, opportunista, vigliacco, pronto a cercarsi una nuova compagna pur di salvarsi, si rivela senza più veli. Tradita e umiliata, Katerina trascina con sé una giovane rivale verso la fine. Eppure, nel deserto morale che la circonda, Katerina resta l’unico personaggio animato da un’autentica vitalità. Šostakovič ne fa una figura ribelle: «un essere intelligente e appassionato che soffoca nel grigiore della vita e dell’ambiente in cui è costretta». I suoi atti violenti non emergono solo come crimini, ma come il prodotto di un mondo che corrode: un ambiente di ignoranza, servilismo, patriarcato, superstizione, popolato da un marito debole, un suocero lascivo, un amante fatuo, contadini beoni, un pope venale e poliziotti ottusi. In mezzo a loro, Katerina brilla come «un raggio di sole nel regno delle tenebre»: non innocente, ma viva.
Anche il linguaggio del libretto rende palpabile questa violenza strutturale, fatta di dominio maschile, sopraffazione e isolamento. Boris Timofeevič, il suocero violento di Katerina, parla come un padrone assoluto: ordina, pretende obbedienza, impone persino che la giovane sposa giuri fedeltà «fino a terra», trasformando il rapporto familiare in un atto di sottomissione pubblica. La brutalità si fa fisica quando, davanti agli occhi di Katerina, incita alla punizione di Sergej come a uno spettacolo: «Guarda, Katerina… viene fuori il sangue, che spasso». Ma la violenza passa anche attraverso le parole con cui lei viene chiamata e ridotta: donna «inutile», «oziosa», «sgualdrina», mai nominata come persona ma sempre come proprietà, corpo, colpa. Accanto a tutto questo, la solitudine emerge senza maschere: Katerina confessa la propria «atroce solitudine» come uno stato senza vie d’uscita. Anche Sergej, nel momento della resa, scarica ogni responsabilità su di lei – «Io non ho ucciso nessuno, è stata lei» – completando un quadro in cui il machismo si rivela non solo prepotente, ma anche vigliacco.
La musica non attenua il dramma: alterna lirismo improvviso e sarcasmo feroce, tenerezza e impeto, come se Šostakovič volesse restituire non solo la trama, ma l’inquietudine stessa del mondo che la genera. Non stupisce che, alla sua prima apparizione, l’opera sia stata salutata come un capolavoro. Né stupisce che nel 1936, dopo due anni di successi, sia arrivata la condanna della «Pravda», il quotidiano ufficiale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Da quel momento l’opera scompare dai teatri russi, e Šostakovič è costretto a rivederne il contenuto in una versione più prudente, lontana dalla forza originaria, che per decenni sarà l’unica conosciuta dal pubblico.
È per questo che la scelta del Maestro Chailly e della Scala di presentare oggi «Una Lady Macbeth» nella forma integrale, nel cinquantesimo anniversario della morte di Šostakovič, non è un semplice omaggio: è un gesto di restituzione. Restituzione a un compositore ridotto al silenzio e a un’opera che, pur nata novant’anni fa, mantiene una sorprendente attualità: le tensioni che attraversano Katerina, come il desiderio, la frustrazione, la solitudine, la violenza domestica e l’oppressione sociale, appartengono ancora al nostro presente.
Nella sala del Piermarini, mentre l’opera prende forma nella lettura lucida di Riccardo Chailly e nella regia di Vasily Barkhatov, sembra quasi che quella denuncia soffocata nel 1936 torni a toccare il presente con la stessa forza di allora. L’esecuzione è stata un’onda sonora che ha investito la Scala senza lasciare respiro. Chailly ha guidato l’orchestra con una lucidità che non ha addomesticato nulla: ogni spigolo, ogni dissonanza, ogni salto ritmico è emerso nella sua crudezza, restituendo alla partitura la sua affascinante vividezza e permettendole di respirare, contorcersi e ridere amaramente.
La regia di Barkhatov è tra i momenti più alti della serata: niente facili aggiornamenti, salvo uno slittamento temporale dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Trenta, niente estetismi compiaciuti, ma una visione precisa, asciutta, drammaticamente naturalistica. Gli spazi non ricostruiscono il distretto di Mcensk, ma lo trasfigurano in una provincia interiore, segnata da violenza, desiderio e solitudine. L’opera scorre in un equilibrio tra memoria e presente, dove i fatti, fino al tragico epilogo del IV atto, sembrano già accaduti, ricostruiti nello spazio di un commissariato.
Il regista si concede una licenza rispetto al libretto di Leskov e di Šostakovič, dove il destino si compie nelle acque scure del fiume, quando la voce di Katerina intona i versi amari che precedono il suicidio – «L’acqua è nera. Nera come la mia coscienza» – e il canto dei forzati, con il loro lamento sulle catene che risuonano a ritmo e sulle steppe smisurate, suggella l’epilogo. In questa produzione, invece, Barkhatov sceglie un finale ancora più crudo e simbolico: Katerina si dà fuoco insieme alla sua antagonista, trasformando la conclusione in un’immagine di autodistruzione totale, senza più possibilità di ritorno. Non un abbandono, ma un atto estremo di annientamento, che radicalizza il senso di una ribellione ormai priva di scampo.
Spicca l’intensa prova di Sara Jakubiak, una Katerina di forte presenza scenica e vocale: emissione duttile, slanci lirici e improvvisi irrigidimenti drammatici che restituiscono con verità la parabola emotiva del personaggio. Accanto a lei, Najmiddin Mavlyanov offre un Sergej credibile nella sua ambigua seduzione opportunista. Insieme costruiscono un asse narrativo di grande efficacia. A fine recita l’applauso si è alzato convinto, lungo, rivolto a tutta la compagnia, agli interpreti, all’orchestra, al coro. Ma al centro di questo successo si è imposto l’omaggio a Riccardo Chailly. A lui, artefice e architetto della serata, è andato un tributo particolarmente sentito: questa è stata la sua ultima Prima alla Scala da direttore musicale, e nell’intensità di questa «Lady Macbeth» sembrava raccogliersi, insieme alla ferocia di Šostakovič, anche il segno di un congedo musicale alto e rigoroso.
Nelle scale che dal loggione conducono al foyer e poi verso l’uscita del Piermarini, nel freddo di Sant’Ambrogio, il brusio si riaccende: chi commenta la recita, chi, con la consueta leggerezza mondana, già fantastica sul menù della cena. « Non è possibile guardare Katerina senza pensare alla cronaca e ai rapporti di potere che ancora segnano il quotidiano. Non è possibile ascoltare Šostakovič senza immaginare i nostri conflitti, le nostre disuguaglianze, i nostri silenzi, le nostre violenze», osserva Anna, studentessa di canto del Conservatorio di Milano. Ma sotto quelle conversazioni diversissime resta un’unica traccia, sottile e tenace: quella scandalosa, lasciata dalla tragedia-satirica di «Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk».
