La trama è breve e semplice: il giorno della vigilia di Natale, due bambini del villaggio di Gschaid, Corrado e Sanna, fratello e sorella, vanno a trovare la nonna, che abita nel villaggio di Millsdorf. I piccoli paesi sono uniti da un sentiero che attraversa un colle, nei pressi del monte Gars. Dopo la visita, i pargoli si rimettono in viaggio verso casa, ma una grande nevicata ricopre le loro orme e cancella ogni punto di riferimento, facendo perdere loro il senso dell’orientamento. Corrado e Sanna, circondati da un paesaggio sempre più estraneo e impenetrabile, trasformatosi in quella che potrebbe essere definita una «candida prigione», si perdono e, invece che dirigersi verso Gschaid, salgono fino ai ghiacciai del monte Gars. Passano la notte all’addiaccio, in una caverna, ma il mattino seguente, quando la speranza di scovare la via (e di sopravvivere) sembra ormai sul punto di deflagrarsi inesorabilmente, i due sfortunati vengono trovati dai valligiani (di Gschaid e di Millsdorf) messisi alla loro ricerca.
In conclusione, dopo essersi ricongiunti alla loro madre, i bimbi ricevono i doni di Natale. Cristallo di rocca (Bergkristall), scritto da Adalbert Stifter nel 1845, risulta essere, apparentemente, il classico racconto natalizio, dalle tipiche atmosfere nordiche e mitteleuropee. Eppure, sotto un’ingannevole patina di vaniglia e zucchero, si nasconde molto di più. Nonostante il lieto fine, infatti, il suo epilogo non è certo conciliante e, nel cuore di un lettore attento e per niente sprovveduto, non suscita certo conforto né serenità. Be’, ma le fiabe (alla cui struttura narrativa Cristallo di rocca pare appartenere), spesso, sanno essere impietose e crudeli, si potrà obiettare. Senz’ombra di dubbio. Eppure, nell’opera di Stifter, il male non sembra mai qualcosa di circoscritto (e infine sconfitto), bensì qualcosa di sistemico e, in un certo senso, di endemico. E ciò che è benevolo e puro conserva, allo stesso tempo, una sostanzialità malevola e impura: un dualismo quasi metafisico che sottolinea la modernità dell’autore. Immagine di ciò è la natura che, all’inizio del testo, così viene descritta: «E poi dai suoi campi di neve la montagna manda giù le acque, che alimentano un lago in mezzo alle sue foreste, e danno origine al torrente che corre allegro attraverso la valle […]. I boschi […] danno la legna, e trattengono le valanghe. Per vene sotterranee e per la terra porosa delle cime le acque calano e si diramano per la valle, per ricomparire in fontanelle e sorgenti, da cui gli uomini bevono e porgono al forestiero la loro acqua squisita e spesso lodata». Tuttavia, qualche pagina più avanti, l’idillio naturalistico (e l’estetica biedermeier) lascia il posto allo «spaesamento» (e all’espressionismo) e, attraverso una scrittura piuttosto spoglia, la gioia cede all’angoscia: «Attraverso lo spazio opaco guardarono in cielo. Come, quando grandina sopra le gonfie nuvole bianche o verdastre pendono cupe striature simili a frange, così era qui, e la neve continuava a scendere silenziosa. In terra non vedevano che un disco bianco e null’altro». E ancora: «Era un ammasso confuso di giganteschi detriti, tutti coperti di neve, che gocciolava da ogni parte […]. C’erano lastroni distesi, che erano coperti di neve, ma sulle facce laterali lasciavano scorgere il ghiaccio liscio e glauco, c’erano montagnole che parevano schiuma ammassata, ma sui lati c’era un interno barbaglio e un luccicar blando, come di stanghe e verghe di pietre preziose buttate alla rinfusa, e poi c’erano globi tondeggianti, tutti avvolti di neve, e c’erano altri lastroni e altri blocchi inclinati o tutti diritti, alti come il campanile di Gschaid […]. Tutti questi blocchi erano serrati l’uno addosso all’altro o l’uno sull’altro, così che formavano spesso tetti e sporgenze, sui cui orli si posava la neve e faceva pendere come lunghe zampe bianche». Di nuovo: «Un gigantesco disco sanguigno si alzò nel cielo all’orlo della neve, e in quell’attimo si colorò di rosso la neve attorno ai bambini, come vi fossero sparse milioni di rose».
La natura, familiare e intima, muta in «tenebra bianca», uno spazio avverso e sterminato che non è altro che il labirinto dell’esistenza e che pone i due protagonisti faccia a faccia con il «nulla». Non a caso, sulla montagna, i fratellini saranno testimoni del «numinoso»: una pallida luce verdastra, sempre più lucente e palpitante che, alla fine, si affievolirà fino a spegnersi e scomparire. Un fenomeno che svela tutto il suo paradosso nelle serafiche parole di Sanna rivolte alla madre: «Mamma, stanotte, quando eravamo sulla montagna, ho visto Gesù». Un finale sconvolgente e surreale, questo, che piacerebbe molto a Heinrich von Kleist, Franz Kafka e Thomas Bernhard, che del nichilismo, con i loro scritti, furono incontrastati maestri.
Tutte le citazioni sono tratte da: Adalbert Stifter, Cristallo di rocca, Adelphi, 2006
