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Fasciare, cullare, proteggere dal freddo: le parole delle ninne nanne di Natale

Articolo. Le ninne nanne di Natale, tra tradizione orobica e laudi antiche, uniscono voce materna, ritualità e immagini essenziali: freddo, luce, cura. Dai canti popolari al gregoriano fino a Pascoli e Rodari, la ninna nanna resta gesto che protegge e rende abitabile la notte

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Nel vasto repertorio sonoro del Natale, la ninna nanna occupa un posto particolare: è un canto intimo, domestico, eppure capace di attraversare secoli, vallate e tradizioni. Nelle ricerche di Roberto Leydi sul patrimonio musicale lombardo la ninna nanna appare come una forma minima e universale: una cantilena che nasce per addormentare il bambino, ma che finisce per raccontare il legame tra la madre e la notte, tra il quotidiano e il sacro. È un punto di contatto tra cultura «alta» e cultura popolare, tra la voce pacata delle valli bergamasche e i versi dei poeti, ma anche tra i suoni arcaici delle nostre montagne e le grandi tradizioni musicali liturgiche - dal gregoriano all’ambrosiano - che hanno modellato per secoli il Natale.

La tradizione orobica lo conferma con una chiarezza sorprendente. Nella ninna nanna della Val Seriana «La Madóna l’l’à fasàt / San Giüsèf l’l’à adoràt», il presepe si concentra in poche sillabe, pronunciate con la concretezza delle madri bergamasche: fasciare, adorare, vegliare. In una variante brembana, il Bambino dorme «sö la pagia söta ’l mür» mentre «l’angéll ’l fa lüsùr». Sono immagini essenziali, organizzate come partiture elementari in cui il ritmo visivo procede per intervalli brevi e ripetitivi: la paglia che si muove, il respiro del neonato, un angolo di luce fioca. Non è lontano dal mondo della musica popolare bergamasca, dove strumenti come la piva, le zampogne alpine o le piccole ciaramelle restituivano un paesaggio sonoro simile, fatto di pochi intervalli, tonalità modali, monotoni rituali che in Lombardia accompagnavano la stagione invernale.

Questo registro non è distante dalla letteratura in volgare antico, dove la Madonna che canta è immaginata come una madre comune, alle prese con il freddo e con la notte. Nella tradizione lombarda, più scarna rispetto ai grandi laudari centro-italiani ma non meno significativa, compaiono testi che insistono sulla materia concreta della Natività. Nel «Pianto di Maria» conservato in area milanese-comasca - XIV secolo - , la voce materna affiora con una durezza semplice:

«O fioeu mio delicà / de frecc e de dolor m’ài consumà».
Il “frecc”, il freddo, è lo stesso delle veglie orobiche, dove la notte è fisica prima d’essere teologica.

A questa linea si affianca la tradizione ben più nota delle laudi umbre. Nella «Lauda della Natività» di Iacopone da Todi, Maria culla il bambino con parole sorprendentemente concrete: «Vergene madre, piena de gioia, / posa lo figliolo che dorma in pace». E ancora, nel «Pianto della Madonna» - il celebre «Donna de Paradiso» - la voce è costruita su ripetizioni che ricordano la cantilena: «Figlio bianco e vermiglio, / figlio senza simiglio…». Sono versi brevi, iterativi, che usano la melodia come struttura portante, allo stesso modo delle ninnenanne.

Una traccia analoga ritorna nella tradizione laudesca lombarda minore, come nel frammento valtellinese dedicato alla nascita: «O bambin dolz e clar, / che nascist sota el gel», dove il “gel” è parte dell’immaginario prealpino e della sua teologia del freddo. Anche qui, il verso breve costruisce un ritmo che viene prima delle parole.

Questi testi, pur diversi per origine e diffusione, condividono una forma semplice: versi brevi, formule ripetute, melodie elementari. Sono strutture pensate per essere cantate e ricordate. In questa funzione elementare del canto si riconosce ciò che Ernesto De Martino ha descritto come il potere dei riti minimi: gesti e formule capaci di tenere fermo il mondo mentre la notte passa, impedendo che l’oscurità diventi perdita o spaesamento. La ninna nanna popolare mantiene lo stesso principio: sottrazione testuale e ritmo regolare. Lo si vede nelle raccolte di Merigo e Biella e negli studi linguistici di Sonzogni, dove le strofe sono brevi, iterative, pensate per accompagnare al sonno.

È in questa continuità che si collocano anche le riscritture della letteratura moderna. Giovanni Pascoli restituisce alla ninna nanna il suo valore di «rito che protegge»; Gianni Rodari, nella «Ninna nanna di Natale», la trasforma in una voce plurale che accompagna non solo il Bambino del presepe, ma tutti i bambini del mondo.

Giorgio Caproni, in più luoghi della sua riflessione poetica e saggistica degli anni Settanta, ha scritto che le parole sono piccole luci: non illuminano il mondo, ma tengono compagnia. In questa immagine laica e nitida risuona l’essenza stessa di ciò che una ninna nanna compie nella notte: non disperde l’oscurità con una luce piena, ma offre una parola-luce, piccola e costante, capace di rendere abitabile il buio. È un gesto di cura, modesto e quotidiano, che trasforma la casa in rifugio, in luogo reale di attesa e di pace, quasi un’eco domestica di Betlemme. E in quella misura fiduciosa, fatta di ritmo, di parole ripetute e di voce che culla, la notte non è più nemica, ma compagna.

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