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Giovani, scuola e lavoro: perché la formazione italiana rischia di non prepararli al futuro

Articolo. Specializzazione precoce, disuguaglianze sociali e intelligenza artificiale: cosa non funziona nel sistema educativo e come cambiare rotta

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Per decenni il sistema formativo italiano ha operato una distinzione netta e precoce, canalizzando gli studenti in percorsi distinti fin dall’adolescenza. Questa scelta, presentata spesso come una risposta alle diverse attitudini, è stata in realtà un potente meccanismo di riproduzione delle disuguaglianze sociali. Storicamente, era ai figli della classe operaia e dei contadini che veniva riservato l’accesso agli istituti professionali e tecnici. Mentre i licei, con il loro bagaglio di cultura umanistica e scientifica, rappresentavano il viatico per l’università e per le professioni con un alto potenziale di mobilità sociale ascendente, con la formazione professionale che era concepita come un addestramento finalizzato a un immediato inserimento nel mondo del lavoro manuale o specializzato.

Si creava così un circolo vizioso: le condizioni socio-economiche della famiglia predeterminavano il percorso scolastico, il quale, a sua volta, consolidava quella stessa posizione sociale, negando di fatto l’uguaglianza delle opportunità. Oggi, questo meccanismo di canalizzazione non è scomparso. Ha semplicemente cambiato volto. I dati e l’osservazione delle dinamiche scolastiche mostrano come siano ora i figli degli immigrati, o comunque i giovani provenienti da contesti socio-economici svantaggiati e periferici, a essere sovrarappresentati negli istituti professionali. Questa forma di “segregazione formativa” cristallizza le disuguaglianze esistenti e di crea una forza lavoro giovane già marginalizzata.

A questa criticità storica se ne aggiunge oggi una seconda: l’accelerazione tecnologica. Lo sviluppo vorticoso del digitale e, in particolare, dell’Intelligenza Artificiale sta rendendo qualsiasi conoscenza puramente tecnica e specialistica estremamente fragile e deperibile. Un mestiere appreso a 18 anni, senza solide basi teoriche e capacità di adattamento, rischia di essere reso obsoleto dall’automazione o da un nuovo software nel giro di pochi anni. Condannare i giovani a una frettolosa specializzazione significa, in questo nuovo contesto, condannarli a una precoce obsolescenza professionale.

Secondo un recente report del World Economic Forum, il 44% delle competenze dei lavoratori saranno obsolete in 5 anni. Questo è un dato chiave. Non stiamo parlando di decenni, ma di un quinquennio. Significa che una competenza tecnica appresa oggi da uno studente di un istituto professionale rischia di non essere più rilevante prima che lui o lei abbiano compiuto 25 anni. Sempre secondo il report, il 60% dei lavoratori attualmente attivi avrà bisogno di una riqualificazione entro il 2027, ma solo la metà di loro ha attualmente accesso a opportunità di formazione adeguate. Una specializzazione frettolosa, quindi, non è più solo una limitazione culturale, ma un vero e proprio “bene deperibile” con una data di scadenza sempre più ravvicinata.

Alla luce di questa doppia sfida – sociale e tecnologica – è evidente che serva un cambio di paradigma nella formazione. Non possiamo più permetterci un sistema che, da un lato, riproduce ingiustizie e, dall’altro, fornisce competenze destinate a scadere rapidamente. Serve una nuova formazione, che ponga al centro non la specializzazione precoce, ma lo sviluppo di competenze trasversali e di una cultura generale solida e critica. È fondamentale oggi, e lo sarà sempre di più, rafforzare un nucleo comune di saperi di base (logico-matematici, linguistici, scientifici e umanistici) fino al termine del primo ciclo di istruzione secondaria, ritardando la scelta indirizzante.

Promuovere il pensiero critico, la creatività e la capacità di risolvere problemi complessi: sono queste le competenze che l’automazione e l’AI faticano a replicare. Investire in una formazione ampia, generalista e inclusiva non è più solo una questione di equità sociale, ma una necessità economica impellente. È l’unico modo per preparare le nuove generazioni, tutte, a un futuro in cui l’unica certezza sarà il cambiamento, evitando di costruire una società ancor più diseguale, con da un lato una élite di “sapienti” e dall’altra una massa di “tecnici precari” destinati a essere superati dalle macchine che avrebbero dovuto governare.

Inoltre questo genere di competenze sono le stesse che saranno sempre più necessarie per la cittadinanza attiva e consapevole. L’informazione è il nuovo campo di battaglia, sia civico che professionale.

Come cittadini siamo costantemente sommersi da un flusso ininterrotto di informazioni, disinformazione e propaganda, spesso generata o amplificata da strumenti di AI. Non siamo più solo consumatori passivi di notizie, ma nodi attivi nella loro diffusione. Come lavoratori, allo stesso modo, nel lavoro, siamo inondati di dati, report, analisi di mercato e comunicazioni interne. Distinguere il segnale dal rumore è essenziale per prendere decisioni efficaci. L’intreccio tra le competenze necessarie per prosperare nel nuovo mondo del lavoro e quelle per essere cittadini consapevoli non è una coincidenza, ma la diretta conseguenza del tipo di società iper-complessa e satura di informazioni che stiamo costruendo.

La competenza comune è il pensiero critico. La capacità di valutare una fonte, di individuare bias, di verificare l’attendibilità di un’affermazione e di costruire un ragionamento logico è ugualmente cruciale sia per non farsi manipolare da una campagna elettorale tossica o da una teoria del complotto, sia per non basare una decisione aziendale da milioni di euro su un’analisi dati errata o su una notizia non verificata.

La specializzazione precoce e rigida del passato formava cittadini “esecutori” e lavoratori “ingranaggi”. Formava, cioè, persone abituate ad applicare regole più che a discuterle e a evolverle. Ora è necessario invertire drasticamente la rotta.

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