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Il paradosso del lavoro giovane: quando troppe offerte diventano un rischio

Articolo. I giovani ricevono oggi continue proposte di lavoro e passano con facilità da un’occupazione all’altra. Cambiando spesso lavoro, i giovani però faticano a specializzarsi e a sviluppare competenze solide

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(Foto ANSA Franco Silvi)

Nel Nord Italia l’incrocio tra un’elevata domanda di lavoro e l’inverno demografico ha spinto la disoccupazione giovanile ai minimi storici. Recentemente, in provincia di Bergamo, il tasso ha toccato appena l’1,7% di disoccupati tra i 15 e i 34 anni, il valore più basso d’Italia (fonte: Il Sole 24 Ore).

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, si tratta di un dato allarmante, che nel medio periodo rischia di compromettere sia la stabilità economica che la tenuta del tessuto produttivo locale. La carenza di manodopera disponibile, infatti, può innescare dinamiche inflazionistiche. Allo stesso tempo molte imprese, soprattutto quelle artigianali e manifatturiere che costituiscono la spina dorsale dell’economia bergamasca, sono sempre più in difficoltà nel reperire personale. Inoltre i livelli di immigrazione odierni, peraltro piuttosto ridotti, non lasciano spazio a facili ottimismi: da soli non bastano neanche lontanamente a colmare il vuoto lasciato dal calo demografico.

In altre parole, un mercato del lavoro troppo “stretto” rischia di soffocare proprio quelle realtà che hanno trainato il benessere della provincia, trasformando un apparente successo in una minaccia per il futuro. Senza interventi strutturali (formazione, immigrazione, aumento della produttività tramite innovazione tecnologica), il rischio è che il “miracolo produttivo” della provincia si trasformi in un collo di bottiglia. Per queste ragioni il tema della carenza di manodopera – sia qualificata che non – è oggi al centro del dibattito tra le imprese bergamasche, come dimostrano le numerose iniziative pubbliche degli ultimi anni, tra cui il recente «Bergamo Job Festival». La situazione è ben nota, così come i suoi potenziali effetti negativi sull’economia locale. Tuttavia, un aspetto spesso trascurato riguarda non le aziende, ma i giovani lavoratori, tra i quali stiamo registrando un elevato tasso di turnover volontario.

Con la disoccupazione giovanile ai minimi storici, i giovani ricevono continue offerte di lavoro e passano con facilità da un’occupazione all’altra. Le aziende in cerca di personale — offrendo compensi più alti o condizioni più flessibili — finiscono per “rubarsi” i dipendenti a vicenda, alimentando una mobilità orizzontale che, sebbene vantaggiosa nel breve periodo, nasconde rischi rilevanti per il futuro professionale di questi lavoratori. Il vero problema è che, cambiando lavoro troppo frequentemente, i giovani faticano a specializzarsi e a sviluppare competenze solide in un ambito specifico. Senza un percorso strutturato, rischiano di rimanere bloccati in posizioni generiche, senza mai accumulare quell’expertise che favorisce la progressione di carriera. Infatti questa mobilità costante, seppure premiante in gioventù, si rivela un boomerang dopo i 35 anni, quando le aziende iniziano a privilegiare candidati con un profilo più solido e competente. Senza un’adeguata maturazione professionale, il rischio è che la questa mobilità, da orizzontale diventi verticale ma in senso discendente, con difficoltà crescenti nell’accesso a ruoli di maggiore responsabilità.

È il caso di Marco, un giovane che ho seguito di recente in un percorso di orientamento. Marco ha iniziato la sua carriera in un’agenzia di marketing digitale, dove ha lavorato per due anni. Durante questo periodo ha avuto l’opportunità di apprendere le basi del marketing online ma, spinto dalla voglia di esplorare e trovare compensi più alti, ha cambiato lavoro ogni 1-2 anni, passando da una startup a un’agenzia pubblicitaria e poi a un’azienda di e-commerce.

A causa di questa mobilità — economicamente verticale ma orizzontale dal punto di vista professionale — nel momento in cui l’azienda di e-commerce è fallita, Marco si è trovato sprovvisto di competenze chiave, sia specifiche che trasversali. Quando si è rimesso alla ricerca di un lavoro, si è subito reso conto di avere un profilo debole nel mercato del lavoro. Competenze come l’analisi dei dati, la gestione delle campagne pubblicitarie e la strategia di branding richiedono tempo e continuità per essere sviluppate in modo efficace. Restando nella stessa organizzazione, avrebbe potuto partecipare a progetti di lungo termine, ricevere feedback costante e lavorare a stretto contatto con figure più preparate da cui apprendere. Inoltre, alcune competenze trasversali — come la gestione del tempo e la capacità di collaborare all’interno di un team, ad esempio — per essere coltivate necessitano di un tempo medio lungo e di un ambiente stabile. Mentre lui ha sempre lavorato su piccoli progetti principalmente da casa e in autonomia.

Marco, che oggi ha 37 anni, si trova a competere con candidati più giovani oppure con altri che hanno seguito percorsi di carriera più strutturati e hanno accumulato una specializzazione concreta. La sua mancanza di expertise specifica lo costringe a rimanere bloccato a ruoli di livello inferiore e sta facendo molta per trovare posizioni stabili. Insomma, un classico esempio di come la mobilità eccessiva possa rivelarsi un ostacolo per la crescita professionale nel lungo termine.

Se da un lato il turnover elevato è una risposta fisiologica a un mercato del lavoro surriscaldato, dall’altro è necessario che aziende e giovani adottino una visione di lungo periodo. Solo così si potrà evitare che l’attuale dinamismo si trasformi, in futuro, in un vicolo cieco professionale.

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