Ogni anno, circa due mesi prima del 7 dicembre, davanti al Teatro alla Scala prende forma un rito unico nel suo genere: la coda per i biglietti della Prima. È una liturgia laica, un esercizio di pazienza e una dimostrazione di passione che si rinnova con la puntualità di una tradizione più forte del tempo e delle mode. I codisti, così si chiamano quelli che prendono parte a questo rito, si accampano sotto i portici di Largo Ghiringhelli, a lato del teatro, con sedie pieghevoli, plaid, termos di caffè e un senso di appartenenza semplice ma molto sentito. Questo rito, quest’anno, si è compiuto mercoledì 8 ottobre, meno di 24 ore fa.
A guardarli, sembrano reduci di un tempo in cui l’opera era un fatto popolare e il teatro un luogo di vita collettiva. In realtà, i loggionisti – così si chiamano gli irriducibili che si contendono i posti lassù in cima al teatro – sono i custodi di un sentimento popolare, schietto e sincero, che Milano, pur trasformata, non ha mai abbandonato.
«Fare la coda, per me, è un divertimento», racconta Lorenzo, melomane di lungo corso e “milanese doc”. «Vuol dire esserci, rivedere persone a cui voglio bene e con cui ho instaurato un rapporto di amicizia». Il suo è un volto familiare, come quello di Germana, anche lei milanese che da anni presidia il loggione con garbo e con familiarità: «La Prima è un rito a cui bisogna partecipare. Per apprezzare l’opera, però, bisogna tornare anche alle recite successive». È un popolo silenzioso e disciplinato, che si dà il cambio come in una staffetta: uno resta, l’altro va al lavoro, poi torna a dare il cambio. La “lista” dei presenti è scritta a mano e custodita e sorvegliata con rigore e scrupolo.
Ogni ora viene fatto l’appello: chi non risponde alla chiama perde la priorità acquisita. La regola è ferrea, ma accettata da tutti: una piccola comunità autogestita e ordinata, dove valgono il rispetto reciproco, la correttezza e la pazienza di chi condivide la stessa passione. Nella coda, con i suoi ritmi lenti e le sue liturgie, Milano ritrova la propria immagine più vera: elegante e ironica, disciplinata e appassionata, capace di trasformare anche una lunga attesa in un gesto di civiltà. Perché, come ricorda ancora Paolo Gavazzeni, coordinatore della direzione artistica del Teatro alla Scala, «persino la coda fa parte della magia della Prima: è un rito popolare e condiviso, un momento di attesa e partecipazione che unisce generazioni diverse e persone di ogni provenienza, tutte accomunate dall’amore per la musica e dal desiderio di sentirsi parte di un evento unico. È lì, sotto il portico della Scala, che si percepisce quanto la musica sappia ancora creare comunità e custodire lo spirito autentico di Milano».
Sociologicamente, la coda della Scala è una piccola comunità ideale. Il tempo livella le differenze, la pazienza diventa merito, la conoscenza del repertorio un capitale che sostituisce quello economico. Il premio è un biglietto di galleria per assistere all’evento più ambito dell’anno: la Prima del 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, patrono della città. Lì, tra abiti da sera e flash dei fotografi, i loggionisti si sentono – e in parte sono – i veri arbitri della serata. È da lassù che, nel tempo, si sono scritte alcune delle pagine più memorabili della Scala: trionfi, contestazioni, applausi interminabili e fischi che rimbombano ancora nella memoria. Il loggione è il cuore pulsante del teatro, il luogo dove la passione si fa giudizio e il giudizio diventa spettacolo. Il loggione giudica, perdona raramente, ama con ferocia.
Ma la coda non è solo devozione alla Scala e alla musica: è un racconto della città. Tra i presenti si riconoscono volti noti della coda: pensionati appassionati, studenti di conservatorio, insegnanti, professionisti in libera uscita, habitué che da anni non mancano un appuntamento: custodi della memoria orale della Scala meglio di qualunque archivio.
Nelle ore del giorno come quelle della notte si parla di Verdi e di Puccini, di calcio e di politica, con quell’ironia pratica e affettuosa che è il marchio della città meneghina. «La Prima è la festa della città», dice ancora Lorenzo. «Per questo ci resto male quando lo spettacolo non è all’altezza di quello che devono essere il teatro e Milano stessa». Poi aggiunge, con una scintilla di curiosità: «Quest’anno l’opera scelta è insolita per un’inaugurazione («Una lady Macbeth del Distretto di Mcensk» di Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, ndr), ma proprio per questo sarà interessante: è l’occasione per scoprire qualcosa di nuovo».
Nata come inaugurazione della «Stagione di Carnevale e Quaresima» nel 1778, anno della prima stagione del teatro milanese, la Prima della Scala si celebrava fino al 1950 il giorno di Santo Stefano. Fu Victor de Sabata, direttore musicale e figura carismatica della Scala, a decidere nel 1951 di anticiparla al 7 dicembre, giorno del patrono cittadino. Una scelta che trasformò un appuntamento teatrale in un simbolo. Quella sera, con «I Vespri Siciliani» di Verdi e una giovane Maria Callas sul palco, la Scala visse un momento fondativo: la nascita della «Divina» e della Prima come evento nazionale. La città intera la sentì come un evento proprio, qualcosa che apparteneva a tutti, e il Corriere della Sera dedicò alla serata un titolo a tutta pagina. Da allora, il 7 dicembre è il giorno in cui Milano e l’Italia si raccontano, si mostrano e si rappresentano.
«Il Teatro alla Scala ha un legame profondo e inconfondibile con la città di Milano», spiega Paolo Gavazzeni. «È un rapporto che si rinnova ogni anno nel segno del 7 dicembre, una tradizione nata nel 1951 grazie all’intuizione del grande Victor de Sabata, e che da allora è diventata un appuntamento simbolo non solo per Milano, ma per l’intero Paese». Parla con orgoglio anche da bergamasco, nipote del grande Gianandrea Gavazzeni. «La Scala non è soltanto il tempio della musica, ma l’espressione più alta del “fare bene” milanese e italiano: precisione, eleganza, rigore, creatività. La Prima è il momento in cui il teatro offre al pubblico il meglio di sé, la sintesi di mesi di lavoro e di ricerca dell’eccellenza».
Non mancano, però, le sfumature più complesse. Dal «Don Carlo» contestato del 1968 diretto da Abbado, tra lanci di uova e proteste in piazza, alle prime accese da polemiche su regie moderne e allestimenti “troppo concettuali”, la Prima è sempre stata specchio del suo tempo. È un teatro che riflette il Paese, la sua eleganza e le sue tensioni, la sua voglia di discutere. Come dice ancora Gavazzeni: «La Prima va oltre la musica. È un evento che parla anche a chi non è appassionato di lirica, perché è entrato nell’immaginario collettivo. È un momento mondano, ma anche un luogo di espressione civile, dove trovano voce le preoccupazioni e le speranze della contemporaneità».
Dopo la notte passata in coda, l’alba del giorno in cui si aprono le vendite arriva puntuale, e il portico della Scala si anima come un palcoscenico. La voce del responsabile della lista riecheggia come un recitativo: si ricontano i nomi, si srotolano le coperte, si sistemano i termos. Qualcuno si stringe nel cappotto, qualcun altro racconta un aneddoto dell’anno prima: è già spettacolo prima dello spettacolo. Un’anteprima, una prova generale della Prima. «La coda per il biglietto della Prima costa fatica e impegno ma la Scala rappresenta la musica in tutte le sue espressioni classiche», dice Germana. E in quella frase c’è tutto. La Scala è molto più di un palcoscenico: è un simbolo, una misura di eccellenza, un modello a cui guardano artisti e pubblico.
Quando la sera di Sant’Ambrogio le luci si abbasseranno e l’orchestra suonerà le prime note, chi è lassù in galleria saprà di aver guadagnato quel momento, fatto di musica, bellezza, identità e costume, ora dopo ora. Sarà la loro ricompensa: quella degli ultimi romantici che hanno fatto la fila per i biglietti della Prima.
La coda della Scala resta così un piccolo rito cittadino che attraversa gli anni, una prova di passione che si manifesta in attese lunghe e mutua assistenza. Un appuntamento che dura una notte soltanto, ma abbastanza da restituire alla città, che parallelamente scorre distratta e indaffarata, la sua misura più autentica: quella per cui la bellezza si conquista insieme, pazientemente, con sacrificio e passione.