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La Resistenza a pedali: cinque storie di partigiani in bicicletta

Guida. La bicicletta ha giocato un ruolo cruciale nella lotta partigiana. A ottant’anni dalla fine della guerra e della caduta del regime le rendiamo omaggio attraverso cinque storie di uomini e donne che, sui pedali, hanno contribuito alla costruzione di un Italia libera e democratica

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La prima gara di Gino Bartali nella foto con il padre Torello (a sinistra) (Foto ANSA)

Nell’Aprile del 1945, mentre le truppe anglo-americane e polacche sfondavano il fronte tedesco ed entravano in pianura Padana, i partigiani scendevano dalle montagne e occupavano caserme, prefetture e fabbriche delle Nord d’Italia. Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, guidato tra gli altri da Sandro Pertini, proclamò l’insurrezione generale dei territori ancora occupati dai nazifascisti. L’ordine fu diffuso dalle staffette in bicicletta e, in breve tempo, i partigiani riuscirono a liberare tutti i centri urbani, ponendo fine a vent’anni di dittatura fascista e a cinque di guerra. Fu l’inizio della costruzione dell’Italia repubblicana, democratica e antifascista. Dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, la bicicletta è stato il mezzo più usato dai resistenti per trasportare stampa clandestina, viveri, medicine e munizioni, coordinare scioperi e azioni militari, e muoversi agilmente tra città e campagne. In questo articolo raccontiamo la storia di cinque partigiani che con le loro biciclette hanno dato il loro contributo alla liberazione dell’Italia.

Gino Bartali, il campione

Gino Bartali, già leggenda del ciclismo con due Giri d’Italia e un Tour de France alle spalle, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale trasformò il suo talento e la sua bicicletta in strumenti di salvezza. Quando le competizioni vennero sospese, non smise di pedalare: con la scusa degli allenamenti, iniziò ad attraversare l’Italia portando con sé documenti falsi nascosti nel telaio della bicicletta. Su richiesta dall’amico Elia Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, entrò a far parte della DELASEM, l’organizzazione clandestina che si occupava di assistere gli ebrei italiani perseguitati dal regime nazifascista. Nessuno, meglio di lui, poteva svolgere quel compito con rapidità e discrezione. Per un anno intero affrontò viaggi lunghi e pericolosi, affrontando continui rischi di perquisizioni e controlli e in sella alla sua Legnano gialla recapitò messaggi, passaporti e fototessere tra Liguria, Toscana e Umbria.

Nel frattempo, nello scantinato di casa sua, a Firenze, teneva nascosta la famiglia ebrea Goldenberg. Umile e schivo, Bartali non rivelò mai a nessuno il suo impegno come corriere neanche dopo la fine della guerra. Solo anni dopo, grazie a testimonianze e documenti, si è potuto ricostruire il suo ruolo straordinario grazie al quale ha contribuito a salvare circa 800 ebrei. Nel 2005 il presidente Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito la Medaglia d’oro al merito civile, e nel 2013 il memoriale Yad Vashem di Gerusalemme lo ha riconosciuto come «Giusto tra le Nazioni». La sua storia è stata anche raccontata dalla RAI nella fiction «Gino Bartali – L’intramontabile», perché le sue imprese, sia sportive che umane, meritano di essere ricordate per sempre.

Gina Galeotti Bianchi, la partigiana Lia

Nata a Mantova nel 1913, cominciò giovanissima la sua militanza antifascista milanese partecipando a scioperi e lotte e venendo catturata diverse volte. Nel 1943 fu arrestata per aver organizzato manifestazioni contro la guerra e per la sua militanza del partito comunista italiano clandestino. Venne incarcerata per quattro mesi e liberata con la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943, dopo l’8 settembre entrò nelle organizzazioni della Resistenza come molte altre italiane aderendo ai «Gruppi di difesa delle donne».

A Milano svolgeva un ruolo importantissimo nella trasmissione di informazioni tra le varie brigate e si occupava di assistere le famiglie dei partigiani caduti. Venne falciata da una raffica nazista il 24 aprile 1945, la vigilia della liberazione, mentre si dirigeva al Niguarda in sella della sua immancabile bicicletta. Era incinta e aveva appena riferito all’amica Stellina Vecchio “Lalla” di essere contenta perché il suo bambino sarebbe nato in un paese libero. Purtroppo, né lei né il figlio che aveva in grembo ebbero modo di conoscere la libertà ma il suo sacrificio – come quello di tante altre donne – contribuì a renderla possibile. Le è stata assegnata la medaglia d’oro alla memoria dal Comando Generale delle Brigate Garibaldi e a lei sono dedicati i giardini tra via Val di Ledro e via Hermada.

Gillo Pontecorvo, il regista che amava il tennis

Gillo Pontecorvo nacque a Pisa nel 1919 in una famiglia ebraica benestante. Seguendo le orme dei fratelli Bruno e Guido, futuri scienziati, si iscrisse a chimica, ma abbandonò presto gli studi per dedicarsi alla direzione d’orchestra, e, soprattutto, al tennis. Con l’entrata in vigore delle leggi razziali nel 1938, lasciò l’Italia insieme al fratello Bruno e si trasferì a Parigi dove entrò in contatto con intellettuali e artisti come Picasso, Sartre e Stravinskij. Frequentava la Mutualité, dove si tenevano grandi assemblee di giovani che arrivavano in bicicletta da tutta la capitale per discutere di politica e antifascismo.

Per mantenersi scriveva come corrispondente, partecipava a tornei di tennis e collaborava con il regista Yves Allégret. Quando i tedeschi occuparono Parigi, fu costretto a una fuga rocambolesca verso il sud della Francia, in sella al tandem con la sua compagna e una racchetta da tennis al seguito. A Tolosa si avvicinò al Partito Comunista e iniziò a intrecciare contatti con la Resistenza italiana, conoscendo figure come Giorgio Amendola, Aldo Capitini e Ugo La Malfa. Nel 1942 intraprese un lungo viaggio per stabilire legami tra i vari nuclei antifascisti italiani , spostandosi tra Perugia, Pisa, Torino e Milano, dove assistette alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943. Rifugiatosi a Torino, città in cui era poco conosciuto, divenne comandante della brigata d’assalto «Eugenio Curiel» sotto il nome di battaglia Barnaba. Coordinò diverse azioni tra Piemonte e Lombardia, contribuendo alla liberazione di Torino il 28 aprile 1945, al fianco di Giorgio Amendola, che tenne in quell’occasione un commosso comizio pubblico. Autore di memorabili film sulla resistenza straniera, quali «La battaglia di Algeri» che gli valse il leone d’Oro di Venezia, Gillo Pontecorvo scelse di non raccontare cinematograficamente la lotta di liberazione italiana perché avendola vissuta dall’interno aveva paura di scadere nella retorica e nell’emotività. La sua storia è riportata nel libro «La bicicletta nella Resistenza» di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci.

Tina Costa, la staffetta della linea gotica

Tina Costa nacque in provincia di Rimini nel 1925 in una famiglia socialista e antifascista. A soli sette anni, si rifiutò di indossare la divisa di figlia della lupa, subendo così i rimproveri della maestra fascista. Attiva nel Partito Comunista, maggiorenne divenne staffetta partigiana: aveva il compito di attraversare la linea gotica in bicicletta per recapitare messaggi, viveri, munizioni, medicine e stampa clandestina ai compagni di brigata. Nonostante i nazifascisti avessero tentato più volte di proibire l’uso della bicicletta per ostacolare la Resistenza, il divieto non fu mai davvero rispettato, soprattutto nelle grandi città come Milano e Torino, dove le due ruote erano il mezzo di trasporto quotidiano per moltissimi operai. Tina, come tante altre, continuava a pedalare consapevole del rischio ma determinata a fare la sua parte. Arrestata insieme alla madre e a un fratellino, durante il tragitto verso il campo di Fossoli, riuscì a fuggire approfittando di un bombardamento.

Nel dopoguerra continuò la militanza politica, prima nel PCI e poi in Rifondazione Comunista e nel sindacato nonché nell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Nel documentario «Le ragazze del ’43 e la bicicletta», realizzato da Raffaella Chiodo, Vittoria Tola, Francesca Spanò, Tina Costa ricorda la bicicletta come simbolo di autonomia e libertà, non solo personale, ma per l’intero paese.

Don Raimondo Viale, il prete giusto

Raimondo Viale nacque nel 1907 a Limone Piemonte e, a soli 23 anni, fu ordinato sacerdote. Venne assegnato alla parrocchia di Borgo San Dalmazzo, dove presto si attirò le ostilità del regime fascista per il suo impegno culturale e sociale, sempre rivolto agli ultimi e ai più deboli. Alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, Don Viale condannò apertamente le scelte del governo, definendo la guerra “un’inutile strage” durante accorate omelie che gli costarono l’arresto e una condanna a quattro anni e mezzo. Dopo aver scontato 15 mesi di confino in Molise, tornò a Borgo San Dalmazzo, riprendendo subito il suo lavoro pastorale e civile. Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, centinaia di ebrei in fuga dalla Francia giunsero in Piemonte attraverso la valle Vésubie, cercando rifugio nei borghi di Entracque, Valdieri e San Dalmazzo.

Il capitano delle SS, Müller, ordinò il concentramento di tutti gli stranieri nella caserma di Borgo: 349 ebrei furono catturati e, il 21 novembre, deportati verso Auschwitz. Altri riuscirono a nascondersi nelle baite e cascine della zona. Don Raimondo in sella alla sua bicicletta percorreva instancabilmente le valli Stura e Gesso, visitando le famiglie che ospitavano i rifugiati. Trascorreva in parrocchia brevi periodi, alternati a lunghi viaggi in bici, di notte e per strade secondarie per portare cibo, medicinali e conforto a più di 200 ebrei nascosti nelle valli. Nel frattempo, manteneva contatti con i partigiani, con i vicecurati di Borgo e con figure di spicco come il cardinale Fossati di Torino e monsignor Repetto, vescovo di Genova, che lo sostenevano moralmente ed economicamente. Nel libro «Il prete giusto» di Nuto Revelli, Don Viale afferma che la Resistenza è “sacra” perché respinge la violenza e protegge la vita e la dignità umana. Per il coraggio e l’altruismo dimostrati, è stato riconosciuto «Giusto tra le Nazioni» .

Alla Resistenza presero parte oltre 250.000 persone, uomini e donne con orientamenti politici eterogenei -cattolici, comunisti, socialisti, azionisti, monarchici, liberali, repubblicani e anarchici - uniti dal comune obiettivo di abbattere il regime fascista. Campioni come Gino Bartali, Alfredo Pasotti, Luigi Ganna, Antonio Bevilacqua, Alfredo Martini, Vito Ortelli e altri meno noti, che sulle due ruote scelsero di supportare la lotta partigiana. Fu un esercito silenzioso, fatto di studenti, impiegati, operai, contadini, sacerdoti e militari che misero a rischio la propria vita per un mondo migliore. Tra loro, migliaia di donne, spesso dimenticate dalla storia, che rifiutarono il destino di essere solo spose e madri esemplari, e con coraggio si fecero protagoniste della Resistenza, rendendo possibile la vittoria.

A Gino Bartali, Gina Galeotti Bianchi, Gillo Pontecorvo, Tina Costa, Don Viale e a tutti coloro che scelsero la bicicletta invece del carrarmato, va il nostro grazie: con coraggio e silenziosa determinazione trasformarono uno strumento umile in un’arma di libertà. La Resistenza non fu solo liberazione dall’oppressore, ma un’esperienza collettiva che unì ideali diversi e pose le fondamenta della nostra democrazia e della Costituzione. Quel progetto, nato tra le montagne, non può dirsi concluso: oggi come allora, ogni pedalata per la vita e la libertà e contro la guerra e la violenza è un atto di resistenza.

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