A volte mi capita di tornare a passeggiare nelle campagne vicino a Bergamo, nei luoghi dove ho imparato realmente a andare in bici. Ho iniziato tardi a usare la bicicletta: io e la mia famiglia prima abitavamo in centro città, e il traffico, negli anni 80, era già pericoloso per l’equilibrio ciclistico instabile di un bambino. Sebbene avessi già imparato a “stare su” e muovermi, quindi, è stato solo quando ci siamo trasferiti in campagna che ho iniziato ad andare davvero in bici, a scuola e in giro con amici.
Ora quei luoghi non sono più realmente “campagna” - ho raggiunto anch’io l’età in cui posso dire «Una volta qui eran tutti campi» - tuttavia passandoci non posso fare a meno di ricordare il me bambino, ancora instabile, cadere felice nei fossi e nelle strade sterrate. Questo aprirebbe la possibilità di parlare di come l’urbanizzazione stia procedendo, in alcune zone soprattutto, a un ritmo velocissimo divorando terreno fertile e prezioso. Un ritmo che non è giustificabile da necessità abitative, visto il costante calo demografico. Come se le nostre città stessero diventando, giocando con un famoso titolo di Italo Calvino, “città invivibili”, non “invisibili”, ma anzi solo visitabili. Ma questo mi porterebbe troppo lontano dai sentieri della psiche che voglio percorrere in queste psicogeografie.
La bicicletta non sta in piedi da sola
Torniamo quindi a un bambino che sta imparando ad andare in bici. La bicicletta, evidentemente, non sta in piedi da sola, ha bisogno di una forza dinamica, di movimento, per reggersi in equilibrio. Per questo, spesso, impariamo per gradi: triciclo, rotelle, sostegno di una persona adulta, finché: via! Abbiamo abbastanza fiducia in noi per muoverci.
È interessante notare che più siamo a nostro agio in sella, più possiamo permetterci di andare lentamente. Un paradosso, in un’epoca in cui tutto deve essere e andare più velocemente possibile. Provate a camminare più lentamente che potete, diminuite ancora la velocità, ancora un po’: com’è il vostro equilibrio? Forse siete in apnea? Anche sulle nostre gambe, che nella maggior parte dei casi ci sostengono da quando avevamo pochi mesi, rallentando potremmo avere la sensazione di perdere l’equilibrio, probabilmente se non abbiamo un buon radicamento, o se tensioni di cui potremmo essere inconsapevoli ci irrigidiscono e rendono instabili. È un paradosso che, da sostenitore della lentezza, non posso non far notare. Spesso, la velocità è un fallimento dell’equilibrio.
A volte non siamo noi a esser troppo veloci, ma è il mondo intorno ad andare a una velocità eccessiva. Sono quei momenti in cui ci sembra di essere fuori sincrono rispetto a tutto, di avere un passo diverso. Avremmo bisogno di rallentare, ma non ci è possibile. Secondo una certa visione esistenzialista del malessere psichico, a volte accade questo scollamento.
Quando ci sentiamo meno stabili sulle gambe
Mi torna in mente quella scena de «Il cielo sopra Berlino», capolavoro di Wim Wenders, in cui Marion si chiede: «Il tempo guarirà tutto. Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?». Può capitare, insomma, in ogni momento della vita, di sentirci meno stabili sulle gambe, di sentire di avere un equilibrio fragile, come bambini che stanno imparando ad andare in bicicletta.
A volte abbiamo la possibilità di rallentare, di mettere in pausa la nostra vita, di stare col nostro kairos, il tempo vissuto, in attesa di poterci nuovamente riallineare con il chronos, il tempo degli orologi e della tecnica. Ma a volte questa possibilità non ci è data, e quindi possiamo trovarci nella situazione di dover tornare metaforicamente a mettere le rotelle. Un “tornare” a volte necessario, come quando si torna sui propri passi perché si è dimenticato qualcosa, o per prendere la ricorsa (ne scrivevo qui): a volte questo movimento psichico, la regressione, è necessaria ai processi evolutivi e individuativi che abbiamo di fronte, per cui non dobbiamo spaventarci o giudicarci male se ci capita di aver bisogno di “rotelle”. Fuor di metafora, possono, per esempio, essere rotelle utili o necessarie: un percorso psicologico; un momento, anche lungo, di ritorno a modalità e comportamenti che credevamo aver superato; il chiedere aiuto a amici o parenti; ma anche farmaci.
Sono qualcosa di simile alle stampelle che usiamo se ci rompiamo una gamba, a cui ricorriamo quando sono necessarie e solo per il tempo utile alla guarigione, ma spesso siamo molto più intransigenti nei nostri confronti quando si tratta di malessere psichico o emotivo: probabilmente c’è la tendenza a giudicare il dolore fisico più “oggettivo” e quindi a giustificare maggiormente pause, fermate e ricorso a ausili varia quando stiamo male a un livello somatico. Ma il dolore psichico è altrettanto importante e la sua cura almeno altrettanto vitale.
Come fuscelli abbiamo bisogno di sostegno
Cresciamo come alberelli fragili, impieghiamo un tempo lunghissimo rispetto a specie simili alla nostra prima di riuscire a reggerci sulle nostre gambe autonomamente, e come fuscelli abbiamo bisogno di sostegno per crescere, e può capitare di averne bisogno anche in fasi più avanzate della nostra vita. Significa che abbiamo ancora potenzialità, che ci sono ancora parti di noi che chiedono, vogliono e hanno il diritto di crescere e svilupparsi. Da qualche parte Tom Robbins diceva - più o meno - che non invecchiamo, ma cresciamo continuamente in maniera diversa.
Ben vengano dunque nuove rotelle, quando sono utili, se non necessarie. Probabilmente non saranno i genitori a mettercele, ma dovremo avere la maturità di cercare noi il supporto giusto per noi in quel momento.
Imparare a cadere è altrettanto importante
Un’ultima cosa: è importante avere sostegno e crescere bene, ma è anche importante imparare a cadere. Anche nel nostro sviluppo psichico, è importante ci siano rotture, cadute e fallimenti: senza di questi non si creerebbe quella complessità psichica che ci permette di vivere e adattarci, di affrontare le difficoltà.
Una delle frasi che preferisco di Carl Gustav Jung dice che: «La vita, per compiersi, ha bisogno non della perfezione, ma della completezza» (da «Psicologia e Alchimia). Completezza significa che nel nostro viaggio in bici ci sta tutto, possiamo accogliere tutto: cadute, rotelle, forature, ma anche bellezza del paesaggio, libertà data dal movimento, gioia del viaggio e la soddisfazione del raggiungere una meta.