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#psicogeografie: la rivoluzione silenziosa del lavoro su di sé

Articolo. L’aumento delle persone che decidono di iniziare un percorso di psicoterapia, o comunque di crescita personale, non è solo indice di un aumento della consapevolezza dell’importanza della salute e benessere psichici o un indice di una crisi sociale, ma un vero e proprio movimento che sta cercando di migliorare il mondo partendo dal lavoro su di sé

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A volte mi viene chiesto, nell’ambito del mio lavoro (ma anche oltre), se sono ottimista o pessimista riguardo il futuro del mondo. Realisticamente è innegabile la drammaticità dei tempi che stiamo vivendo, fra conflitti armati da un lato e crisi climatica dall’altro, senza trascurare la pandemia che ci siamo appena lasciati alle spalle. In risposta, mi capita spesso di raccontare un aneddoto della vita di C. G. Jung che mi è stato raccontato durante una sorta di “gita scolastica” a Zurigo e che riporto per come me lo ricordo, passibile di qualche imprecisione ma salvandone il senso.

Un analista americano riesce a organizzare una seduta con Jung, con cui parla della sua frustrazione nel vedere che il mondo andava sempre peggio, e di poter vedere in analisi solo una trentina di persone alla settimana, troppo poche per fare la differenza. Tornando poi a Zurigo da Küsnacht, dove Jung abitava e lavorava, in un proverbiale esprit de l’escalier si ricorda un sogno che si è dimenticato di raccontare. Riesce a fissare un incontro per il giorno successivo e a descrivere il sogno in questione: si stava muovendo in un cantiere di proporzioni ciclopiche, con solo le fondamenta gettate, portando con sé un mattone, e con la consapevolezza che si doveva costruire una enorme cattedrale.

Era, simbolicamente, quello di cui avevano parlato il giorno precedente, e Jung gli fece notare che le fondamenta erano già state poste e che lui stava portando il suo mattone, stava facendo la sua parte (un po’ come il colibrì di cui ho scritto nell’ultima psicogeografia). Alla richiesta di quanto tempo sarebbe stato necessario, mattone dopo mattone, alla costruzione della cattedrale, Jung rispose – con una precisione che lascia intendere quanto fosse chiaro e puntuale per lui il linguaggio dell’inconscio – circa 150 anni (spero di ricordare bene), e di saperlo con esattezza dai suoi sogni e da quelli delle persone che vedeva in analisi.

Nel mio piccolo, quello che noto nel mio lavoro è una sorta di movimento volto a un cambiamento in positivo. Con “movimento” intendo un vero e proprio fenomeno sociale con l’obiettivo di migliorare il mondo, partendo da sé. In questi ultimi anni si è notato una grande aumento delle persone che iniziano un percorso personale (si veda quanto velocemente sono stati esauriti i fondi per il cosiddetto «bonus psicologo» per esempio), e trovo questo dato interessante, essendo psicoterapeuta, soprattutto quando questo percorso è una psicoterapia o una analisi. La definisco una vera e propria rivoluzione silenziosa.

Numerose persone che stanno intraprendendo un percorso di questo tipo hanno il desiderio di non ripetere gli errori che, seppur in buona fede, i loro genitori possono aver fatto con loro. Spesso è una sorta di “compito” che ci si sente chiamati a compiere, consapevolmente o meno, non solo verso sé stessi ma anche verso il futuro.

Stiamo parlando di alcune generazioni che non vogliono ripetere gli errori delle generazioni che le hanno precedute. Se pensiamo ad alcuni movimenti di piazza di questi ultimi anni (che personalmente trovo condivisibili e bellissimi), specialmente fra i più giovani le motivazioni sono simili: denunciare gli errori delle generazioni precedenti (a volte con l’urlo drammatico del terrore di poter essere l’Ultima Generazione, per citare solo un movimento) e fare in modo di non ripeterli o, anzi, di provare a porvi rimedio. Cambia il setting e, probabilmente, la direzione (da un lato verso l’interno, verso di sé, dall’altro verso l’esterno, verso il mondo), ma l’intento è il medesimo, e non credo una direzione escluda l’altra: introversione ed estroversione sono entrambi movimenti necessari, sebbene ognuno di noi si trovi a proprio agio in uno più che nell’altro.

L’assumersi la responsabilità di cambiare è l’opposto del meccanismo psichico noto come “proiezione”, tramite cui contenuti che non riusciamo a accettare della nostra psiche vengono proiettati all’esterno. È il funzionamento base del razzismo e di tutte le forme di discriminazione e intolleranza, ma è anche fondamentale in gran parte dei problemi relazionali e di coppia: l’Altro è sempre il cattivo. Un percorso di analisi comporta spesso l’integrazione di queste parti inaccettabili, che in gergo analitico compongono la nostra Ombra. Lavorando su di noi diventiamo più consapevoli delle nostre zone d’Ombra, e delle parti di noi che non vogliamo vedere: è una strada verso la presa di coscienza della complessità dell’esistenza psichica innanzitutto, ma non solo.

La semplificazione più frequente rispetto alla complessità è il dualismo, la divisione in due opposti in cui ci si identifica unilateralmente in un polo, identificando nel polo opposto il “nemico” e proiettandoci tutto il Male. Un meccanismo che vediamo lampante in rete, dove i social network sembrano alimentare proprio questa polarizzazione (si veda il documentario «The social dilemma», per esempio, o questo articolato meme).

Diventando consapevoli delle moltitudini che conteniamo, per citare Walt Whitman, è più facile accettare la diversità altrui e non ingaggiare l’ennesima “guerra giusta”, anche se combattuta solo in rete o in casa propria. Come ha detto Robert Mercurio, analista junghiano e teologo, in un recente convegno su Luci e Ombre della società e della psiche contemporanee, spesso chi è coraggioso in guerra è un codardo nella vita psichica. Al contrario, chi intraprende un percorso di crescita interiore, che a volte può essere un viaggio dantesco, non ha nemmeno bisogno di entrare in battaglia. Sicuramente è un viaggio lungo e lento, ma è probabilmente il più significativo che possiamo intraprendere.

Certo, in questi tempi smart e fast, c’è il rischio di imbattersi nell’illusione di una soluzione “magica” e veloce. Ma queste supposte soluzioni, che possono avere sapori moderni (la pillola definitiva) o antichi (una tecnica di una qualche fantomatica tradizione esotica), a mio avviso spesso falliscono (specie se considerate come soluzione unica) nel compito di dare un senso al mistero che siamo e all’esperienza di cambiamento, nel dare dignità all’esperienza del dolore, collocandola banalmente nella categoria “sintomi” invece che provare a stare con la domanda di senso che porta.

In una società in cui tutto deve essere sempre più veloce, dai trasporti ai telefoni e alle connessioni internet, la vera sfida contemporanea è la lentezza. Darci tempo significa darci valore: dedicare tempo a qualcuno è probabilmente il più grande atto d’amore che possiamo fare. Perché quindi avere fretta nei nostri processi di crescita e cura? Perché non farci questo grande regalo donandoci una profonda esperienza di senso e, nel frattempo, goderci questo viaggio verso “chi siamo”?

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