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Sono disabile ma ho smesso di dare alle persone il potere di farmi soffrire (e di andare ai matrimoni)

Racconto. #disabilità / Oggi vi racconto di come ho scoperto che non sono solo una donna di origini calabresi che vive a Bergamo, con una disabilità importante, che se ne va in giro con passo incerto, indossando due cicatrici dietro ai talloni

Lettura 5 min.

Tornare in Calabria per le vacanze significa, tra le altre cose, dover fare i conti con le solite, invadenti e inopportune domande di amici e parenti. Dopo il “Come stai?”, “Quando torni? E quando te ne vai?”, il galateo degli interrogatori impone un altro urgente quesito: E un fidanzato Bergamasco quando ce lo porti?!

Io rido – interiormente – e un po’ mi imbarazzo. Cerco anche di visualizzarlo a mente, perché sia più facile appagare la spasmodica curiosità loro e il divertimento mio.

E allora, per sicurezza e per ironia (della sorte), questo potenziale malcapitato me lo immagino altissimo. Immagino poi i conseguenti commenti: “Poverino”, “Sicuramente le vuole bene”, “Deve essere proprio un bravo ragazzo”. Certo. Deve essere bravo, perché per compensare i miei gap fisici, ho innalzato le mie aspettative, le ho fatte diventare quasi più alte del mio fidanzato immaginario.

Partiamo da una precisazione sugli autoctoni. La verità è che sulle centinaia di persone conosciute da quando mi sono trasferita, quelle che mi hanno detto “Sono di Bergamo”, saranno state tre o quattro.

Ma c’è un’altra questione, più importante, perfino della mia disabilità: non è facile starmi accanto, perché rompo le scatole. Puntualizzo, su tutto, in modo esasperante.

Inoltre, trasferendomi ho avuto modo di constatare che il sarcasmo di cui mi nutro, del quale vado fiera perché rappresenta la mia copertina di Linus, il mio scudo, è un’arma a doppio taglio.

E così nei primi mesi le conversazioni che intrattenevo, sembravano come dei dialoghi delle sitcom americane degli anni ’90. Quelle che per non lasciarti nel dubbio facevano partire la risata dopo una battuta. Solo che, nel mio caso, l’unica risata di sottofondo che partiva era la mia.

Allora, dopo l’ennesima delusione per il fatto che nessuno riuscisse a cogliere il mio talento, ho chiesto ad una mia amica: “Ma lo avranno capito che scherzo?” E lei, in tutta sincerità mi ha risposto: “Carmen, c’è un problema. La gente non ti capisce perché dici le cose con un tono serio, quindi le persone non sanno bene quando scherzi e quando invece devono prenderti alla lettera”.

Questa affermazione mi ha fatto riflettere, rivelando un aspetto del mio temperamento al quale non avevo mai dato la giusta importanza. Ma la cosa non mi dispiaceva, anzi. Raggiunta questa consapevolezza, mi divertiva ancora di più reiterare questo atteggiamento.

Negli anni ho capito che non solo non devo affannarmi per stare al passo degli altri, ma anche e soprattutto che non devo dannarmi l’anima pretendendo che gli altri mi stiano dietro.

L’apparente ovvietà di questa frase sintetizza perfettamente la storia della mia adolescenza. Un guscio di solitudine nel quale mi sono rinchiusa pensando che in fondo era più facile restare a casa a leggere libri e guardare film, piuttosto che correre il rischio di sperimentare cosa ci fosse al là di quella realtà ostile che mi sembrava sempre a portata di mano.

In fondo, l’appellativo di “secchiona” nascosta dietro agli occhiali che ha come unico argomento di discussione la scuola, non si discostava troppo dalla realtà. E se inizialmente mi infastidiva la connotazione negativa che si celava dietro a quella denominazione, ero certa che i libri, a differenza delle persone, non mi avrebbero mai delusa. Perfino quelli di matematica – che ancora adesso mi sembrano incomprensibili e noiosi – non avrebbero mai giudicato la mia inettitudine nel fare i calcoli o la mia pigrizia.

L’università (della “Vita”)

Col tempo ho abbracciato l’idea di fare del depistaggio una vera e propria professione. Un’arte che ho affinato con gli anni, quasi inconsapevolmente. Soprattutto confrontandomi con persone che ogni giorno non facevano altro che ripetermi che non conta leggere libri ed essere bravi “in teoria”, ciò che conta è sfondare, in pratica.

Anche se mi dispiace ammetterlo, questa affermazione presa direttamente dal manuale “Fondamenti dell’Università della Strada” un fondo di verità ce l’aveva: nella teoria ero bravissima. Non facevo altro che leggere e studiare per stare al passo della mia mente. Sempre desiderosa di capire, imparare, spiegare. Ma la pratica?

Nella pratica sono una frana. Difatti penso sempre che la mia vita sia una piccola commedia grottesca.

Distruggo tutto e perdo qualsiasi cosa: lo zaino quando andavo a scuola, i telefoni, il portafogli e via a andare. Insomma, ho sempre la testa fra le nuvole e la disabilità non c’entra niente. Anzi, più precisamente, l’ho fatta diventare un vero e proprio deterrente.

Per darvi un’idea di quello che mi accade ogni giorno vi racconto l’episodio più recente. Buffet di benvenuto in un matrimonio al Sud.

Comincio specificando che di base odio i buffet perché richiedono tutta una serie di attività sincronizzate che includono lo stare in piedi, tenere un piatto in mano, nell’altra la borsetta o il drink (o entrambi, dipende da quante mani avete a disposizione) e anche la forchetta per mangiare. Possibilmente socializzando.

Ora capirete bene che il mio disagio comincia già nel momento in cui devo cercare di mantenermi in equilibrio in posizione eretta, dando vita ad un climax ascendente che aumenta sempre di più se penso che ci siano delle persone a guardarmi. E quindi rapita dall’ansia di dover gestire il peso di tutte mosse cruciali, nel prendere le pietanze mi scivola la forchetta che prima finisce sul piatto facendo cadere tutti gli stuzzichini che avevo valorosamente conquistato in diverse lotte all’ultimo sangue e poi cade per terra con un rumore fragoroso e inequivocabile.

Poteva succedere il peggio, penserete voi! E invece l’ho gestita alla grande! Ho sfoggiato tutta la nonchalance che avevo in corpo e ho fatto finta di niente. Ho posato il piattino e ho cambiato zona. Senza voltarmi indietro, come nelle più grandi commedie romantiche.

È questo il personaggio che ho alimentato per anni, almeno all’esterno. Mi diverte ancora adesso l’idea di dare alle persone quest’immagine goffa di me e di fargli credere che questa basti. Un po’ come quando dovevo aggiungere del sale alla pasta e più ne mettevo e più mi sembrava che mancasse. Era zucchero.

“Sorridi alla vita ma occhio ai moscerini”

Ad un certo punto ho smesso di ridere. Ero stanca di dare ragione alla vita, di dargliela vinta. Ho sempre creduto che il sarcasmo fosse la mia ancora di salvezza rispetto alla delusione di dover limitare le mie aspirazioni, dando un freno ai miei sogni.

C’era questa pratica, indiscreta e crudele nella sua evidenza empirica, che avallava le preoccupazioni e l’apprensione esasperante di mia madre: “Come puoi pretendere di andare a vivere da sola se non sei in grado neanche di fare una lavatrice? Se quando cucini rischi di incendiare la casa? Se la tua stanza sembra un campo di battaglia? Rischi di bruciarti, un drago potrebbe uscire dalla cappa, e se cadi e ti fai male? E se ti rompi una gamba come fai? Non sei come gli altri…”.

Come faccio. La prima settimana in cui sono arrivata a Bergamo sono caduta qualcosa come venti volte. Continuavo a cadere in modo stupido sulle ginocchia, tanto che ad un certo punto ho pensato: o mi chiudo in casa oppure se cado un’altra volta mi spezzo le rotule e finisce che devo dare ragione anche a mia madre. Cadevo e le persone accorrevano tutte preoccupate per soccorrermi. Ma io ridevo e paradossalmente le rassicuravo: “Ti sei fatta male?”, “No, tranquilli, ci sono abituata”. Sipario.

Poi la mia “fuga” (si fa per dire) al Nord ha iniziato a essere una possibilità concreta. E allora a tormentare le mie notti insonni da futura studentessa fuori sede c’era un’unica lancinante domanda: ma ce la farò mai a fare la lavatrice?!

Alla fine, la lavatrice l’ho fatta. Ma non ho mai iniziato a cucinare, non ho ancora superato la paura dei draghi. Andandomene però ho avuto modo di constatare che in realtà la mia famiglia contava su di me molto più di quanto io avessi mai avuto bisogno di loro. Ma questo è un articolo celebrativo delle mie gesta eroiche, non una rubrica sull’egoismo dei genitori.

Sassolini nelle scarpe e qualche innocente rivelazione

Sono disabile. L’ho scoperto, l’ho imparato, l’ho accettato, l’ho scritto. Ma in tutti questi mesi in cui mi sono raccontata vi ho mentito spudoratamente. Perché a dispetto di tutti i drammi che vivo quotidianamente e di cui sono regista, protagonista e scenografa, la disabilità è l’ultimo dei miei problemi. E sì, sono diversa. Perché il dolore fa parte della mia vita da quando ho ricordo. È stato un compagno di giochi e torna ancora puntuale ogni mattina a ricordarmi quello che non mi posso permettere. Ma non voglio più che sia l’unica cosa che mi definisce.

La disabilità mi ha reso diversa nella misura in cui mi ha permesso di sviluppare l’abilità innata di decifrare gli altri in pochi istanti. Di prestare attenzione ai loro gesti, ai loro sguardi e ai loro limiti per poter conseguentemente scegliere quale versione di me mostrare.

Ho smesso di dare alle persone il potere di farmi soffrire solo perché si limitano a ciò che vedono e ho smesso di pretendere che possano essere più di questo. Più di una risatina, di uno sguardo compassionevole, di una pacca sulla spalla.

Sono Carmen, sono una donna, sono disabile e non ho più paura di mostrare le mie cicatrici. Prendete tutto questo e fatene quello che volete. Tanto poi l’unica scelta che conta è la mia.

(immagini Indigo Photo Club)

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