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#workinprogress: perché senza lavoratori stranieri (qualificati) l’Italia non ha futuro

Articolo. Da una parte, il mondo delle imprese preme oggi sul governo affinché arrivino più immigrati per soddisfare il bisogno di manodopera nei settori chiave (agricoltura, industria, turismo e lavoro di cura). Dall’altra, anche le formazioni politiche di centro-destra sono ormai concordi sulla necessità di un incremento quantitativo della presenza di lavoratori stranieri. Ma dal punto di vista qualitativo la faccenda si complica

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Qualche mese fa Nicola — un caro amico che lavora da vent’anni in una storica fonderia bergamasca — mi ha interrogato su una questione specifica riguardante l’immigrazione. La fonderia, attiva dal 1947, è un’impresa di piccole dimensioni, la cui capacità di restare sul mercato dipende essenzialmente dalla specificità e dalla qualità delle lavorazioni. Una tipo di produzione non seriale che necessita dunque di forza lavoro qualificata, specializzata. Una risorsa ormai quasi impossibile da reperire tra i lavoratori autoctoni.

Oggi in Italia chi studia o chi si specializza in un mestiere difficilmente è interessato al mondo della fonderia. Molte imprese del settore faticano a trovare operai generici, figuriamoci quelli specializzati. Da anni lavorano con meno personale di quello che sarebbe necessario. Ma non è una scelta. Non trovando candidati per le loro offerte, sono costretti ad aumentare ritmi e intensità di lavoro, con tutti i rischi connessi per la salute degli addetti. Le poche persone che si presentano ai colloqui sono in genere lavoratori stranieri senza formazione. Per questa ragione Nicola si chiedeva: «come mai non arrivano da noi gli immigrati qualificati? Dove vanno a finire? L’Italia non è attraente per loro? O siamo noi che non li cerchiamo?». Dopo una breve ricerca sul tema, ho trovato la risposta: siamo noi che non li cerchiamo.

Nonostante tutto il baccano mediatico e propagandistico che sembrerebbe affermare il contrario, i vantaggi dell’immigrazione sono ormai evidenti anche alle formazioni politiche di centro-destra. In termini fiscali, il saldo è nettamente positivo. E il contributo occupazionale e demografico dei lavoratori stranieri è sempre più indispensabile. Il mondo delle imprese preme sul governo affinché arrivino più immigrati per soddisfare il bisogno di manodopera nei settori chiave (agricoltura, industria, turismo e lavoro di cura).

«Occorre emanare immediatamente il “Decreto flussi” 2023 – ha dichiarato a novembre 2022 il presidente della Coldiretti – per l’ingresso regolare di almeno centomila lavoratori migranti stagionali necessari al settore agricolo già dai primi mesi del nuovo anno per garantire la manodopera nei campi, combattere il caporalato, potenziare la produzione di cibo dell’Italia e difendere la sovranità alimentare nazionale». Anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha ribadito più volte, in questi anni, l’urgenza di interventi legislativi analoghi. «Servono almeno 200 mila lavoratori extracomunitari. Serve subito un “Decreto flussi”» ha affermato nel 2020. Cito questi esempi proprio perché provengono da visioni politiche e sociali diverse dalle mie. In altre parole, siamo tutti d’accordo sulla necessità di un incremento quantitativo della presenza di lavoratori stranieri. Ma dal punto di vista qualitativo la faccenda si complica.

Prendiamo ad esempio i dati relativi alla Blue Card , un canale di ingresso che permette di assumere dall’estero — al di là delle quote stabilite dal «Decreto flussi» — lavoratori in possesso di una laurea (almeno triennale) o di una qualifica professionale riconosciuta in Italia. Funziona così: il datore di lavoro fa domanda direttamente al Ministero dell’Interno e, in caso di assunzione a tempo indeterminato, al lavoratore viene rilasciato un permesso di soggiorno biennale. Altrimenti un permesso della durata del contratto se inferiore ai due anni.

Entrata in vigore nel 2012 in tutta l’Unione Europea, è oggi in fase di revisione a causa dello scarso utilizzo. Sono solo 80mila i permessi rilasciati dal 2013 al 2020, ossia l’1,3 per cento dei 6,2 milioni di permessi di lavoro. Come segnalavano recentemente Enrico Di Pasquale e Chiara Tronchin , gli unici paesi che sembrano aver utilizzato in maniera significativa questo strumento sono Lussemburgo (24,8 per cento dei permessi per lavoro) e Germania (16,6 per cento). «Naturalmente, in termini assoluti i numeri del Lussemburgo sono molto contenuti, per cui le oltre 50 mila Blue Card “tedesche” rappresentano quasi due terzi del totale europeo. […] L’Italia ha rilasciato nel periodo 2013-2020 appena 2.131 Blue Card (266 all’anno), pari all’1 per cento del totale dei permessi per lavoro. Infatti, se l’incidenza dei lavoratori immigrati è mediamente del 10 per cento rispetto al totale (2,26 milioni su 22,5 milioni di occupati totali), il valore varia da 2,2 per cento nelle professioni qualificate e tecniche a 29,2 per cento in quelle non qualificate».

Anche l’indagine OCSE sulla sovraqualificazione ci segnala che in Italia il 52% degli immigrati con una buona istruzione svolgono un lavoro poco qualificato (in Germania sono il 31,4%). Insomma, non sfruttiamo gli strumenti per importare forza lavoro qualificata e, allo stesso tempo, sottoutilizziamo le competenze dei lavoratori stranieri attualmente occupati nel nostro paese.

Le ragioni sono chiare. In assenza di politiche industriali e del lavoro, l’intermediazione dei processi economici — e dunque dei flussi occupazionali — è demandata al mercato e alle sue fluttuazioni di breve periodo. Dunque il sistema produttivo italiano, con il nanismo strutturale che caratterizza gran parte delle imprese, tende a navigare a vista e a competere al ribasso. Si cerca di batter cassa nell’immediato attraverso la compressione del costo della manodopera. Così la forza-lavoro straniera risulta appetibile non per le sue competenze, bensì perché più economica, subalterna e ricattabile (i lavoratori stranieri sono, per ovvie ragioni, i meno sindacalizzati).

È decisamente una visione poco lungimirante. Sia sul piano economico che su quello sociale e culturale. Perché limita le prospettive di crescita delle imprese, da un lato, e frustra le aspirazioni di mobilità verticale dei lavoratori stranieri. Rafforzando, al contempo, lo stereotipo sociale che identifica l’immigrato con la povertà, il lavoro dequalificato, la marginalità. Tutto questo mentre sale sempre più la preoccupazione per gli effetti del cosiddetto «inverno demografico». Sappiamo benissimo che, senza un aumento quantitativo e qualitativo dell’immigrazione, in pochi anni non avremo un numero di giovani sufficiente per sostenere il peso economico della popolazione invecchiata.

Non basta dunque aumentare il numero di lavoratori stranieri in ingresso. È necessario, allo stesso tempo, combattere l’attuale segmentazione del mercato del lavoro, che tende a collocarli nelle posizioni inferiori.
Ricordiamoci inoltre che in Italia il fenomeno dell’emigrazione di persone con alta specializzazione — che nel linguaggio giornalistico è chiamato «fuga dei cervelli» — è particolarmente drammatico. Coloro che se vanno sono molti di più di quelli che si trasferiscono qui da paesi esteri. Tra il 2010 e il 2020 abbiamo perso 30mila ricercatori, con conseguente mancato ritorno dell’investimento pubblico — circa 5 miliardi di euro — erogato per la loro formazione. E il saldo negativo tra flussi in uscita e in entrata continua a crescere.

Senza una inversione di tendenza, rischiamo di trovarci in una società impoverita da molti punti di vista, non solo in termini di ricchezza economica. Inseguendo l’illusione di chi promette loro che “verranno prima”, gli italiani rischiano davvero di arrivare ultimi.

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