Dall’epoca della prima Perestrojka (ricostruzione, ndr) fino al primo Putin. Anna Zafesova, giornalista russa con cittadinanza italiana ha vissuto a Mosca lavorando come corrispondente del quotidiano La Stampa, ha raccontato di quei periodi vivendo una prima fase di modesta, e poi vivace, libertà di stampa fino alla quasi totale restrizione, sancita dalla presa di potere di Vladimir Putin, nel 2000.
Zafesova sarà ospite domani sera, 1° maggio negli spazi di gres art 671, per la rassegna «Fiera dei Librai» di Bergamo. Alla presentazione del suo ultimo libro «Pietroburgo. Dagli assassini degli zar al cuoco di Putin», edito da Paesi Edizioni, dialogherà con Adriano Dall’Asta, professore di Lingua e Letteratura russa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. In questa intervista, Zafesova ci offre il suo punto di vista sul futuro del conflitto russo – ucraino e ci aiuta a riflettere sulle recenti prese di posizione da parte di alcuni Capi di Stato.
FF: Dal 1992 è stata corrispondente da Mosca per La Stampa. Che differenze c’erano al tempo rispetto ad oggi, per esempio, nel rapporto con le fonti?
AZ: Dalla Perestrojka in avanti non ci sono stati grandi problemi, i quali sono apparsi con l’arrivo di Vladimir Putin. Oggi, infatti, nella maggior parte degli articoli da Mosca sulla situazione politica o militare le fonti sono quasi sempre anonime. Questo apre anche il problema della diffusione di informazioni consapevolmente false. Se pensiamo alle conferenze stampa, Putin ne fa una all’anno, mentre all’epoca in cui lavoravo a Mosca le conferenze stampa erano all’ordine del giorno ed esisteva un Parlamento a cui si poteva accedere, dentro al quale accadevano cose. Si prendevano decisioni, si potevano incontrare esponenti politici di ogni genere e le fonti erano mediamente accessibili alla stampa. Una situazione che potremmo quindi paragonare a quella del panorama italiano ed europeo odierno. C’era maggiore controllo sugli spostamenti: i giornalisti stranieri dovevano avvertire il Ministero degli Esteri per viaggi stampa fuori Mosca, e anche l’accesso ai luoghi del potere è sempre stato molto regolamentato: servivano visti, accrediti e documenti. Oggi la gente teme i giornalisti, visti i casi di persone condannate a pene detentive per aver rilasciato interviste per strada a televisioni occidentali.
FF: Ha vissuto la presidenza di Boris Eltsin (1991-1999) prima della presa di potere di Putin. Che momento è stato?
AZ: L’arrivo di Putin segnò uno spartiacque. Putin fu presentato da Boris Eltsin come suo erede nell’agosto del 1999. In quel periodo i premier cambiavano con una certa frequenza e Eltsin, ormai malato, dichiarò che avrebbe voluto vedere Putin come Presidente della Russia e già questo creò uno shock. Nel linguaggio della politica il termine «erede» era più un modo per indicare il candidato a cui si sarebbe passato il testimone, quindi non in senso monarchico. Tuttavia Eltsin pochi mesi dopo, il 31 dicembre 1999, si dimise improvvisamente, trasformando Putin in un presidente ad interim. Il passaggio chiave che segnò questo momento è che non ci furono nuove elezioni: fu un passaggio dinastico, senza alternativa. Da qui in poi il potere in Russia non fu più stato trasferito democraticamente.
FF: A Mosca è rimasta fino al 2005. Come è cambiato il suo lavoro quando è tornata in Italia?
AZ: In quegli anni, da responsabile del desk esteri per La Stampa, mi sono occupata meno di Russia. Dopo l’esperienza da corrispondente, che è un lavoro molto più in solitaria, mi piaceva molto l’idea di lavorare in squadra. Con la rivoluzione di Internet e con tutte le nuove tecnologie, tante cose si potevano seguire anche a distanza. Per esempio, c’era la possibilità di seguire manifestazioni del 2011-2012 anche online da persone che le proiettavano. Paradossalmente è diventato sempre più facile lavorare da qui perché più la libertà di stampa a Mosca veniva limitata, più veniva meno l’importanza di essere sul posto. Le apparizioni di Putin sono da anni centellinate, organizzate e transennate. L’accesso è di solito autorizzato per pochi giornalisti russi. Una circostanza per noi banale, come una domanda non prevista, in Russia non è possibile, per cui seguire l’evento in streaming non fa alcuna differenza.
FF: Come è nata l’idea di scrivere un libro su Pietroburgo che presenterà domani sera a Bergamo?
AZ: Si inserisce in una collana di libri (di Paesi Edizioni) dedicati a città geopolitiche. L’idea era di non fare delle guide, anche perché sconsigliamo di visitare quelle città (almeno per ora), ma dei ritratti del ruolo che hanno ricoperto dal punto di vista storico, politico e culturale. In un confronto con l’editore, proposi una guida su Pietroburgo in alternativa a Mosca, che era l’idea iniziale, perché è una città che nasce da un’idea geopolitica. Volevo raccontarla provando a catturarne l’animo politico-letterario. E con l’intento di abbandonare alcune raffigurazioni stereotipate che la dipingono come gemma di architettura, di città romantica dove ammirare le notti bianche, o come la città di Putin e dei traffici di oscure mafie degli anni Novanta. Ho cercato di mischiare personaggi, storie e filoni di quest’anima in un racconto non lineare da cui ne nasce una guida d’autore.
FF: Tornando più all’attualità. In una recente intervista al «Festival del Giornalismo» di Verona ha parlato di «punto di follia» in merito all’invasione dell’Ucraina, e che le ragioni le comprenderemo solo quando il regime di Putin crollerà. La pensa ancora così?
AZ: Rimango sulla componente di follia e credo che tante cose le scopriremo un giorno. Nel frattempo abbiamo visto dell’irrazionalità anche dall’altra sponda dell’Atlantico, con Trump. A Verona era stato un discorso su quanto fosse difficile prevedere dal punto di vista geopolitico le decisioni di Putin, oggi siamo di fronte a un premier statunitense che vediamo prendere decisioni che sono palesemente irrealizzabili, ancora prima di essere giuste o sbagliate. Sicuramente la follia è più pertinente a un regime totalitario, dove non c’è possibilità di critica. Nel caso degli Usa sappiamo tante cose per via della libertà di stampa e di parola, per la Russia lo scopriremo a regime finito. Questo mito della Russia, anche in Occidente, impedisce a molti di vedere oltre le apparenze. Trump dice che la concessione che la Russia farebbe è di non invadere il resto dell’Ucraina, ma non si rende conto che, se la Russia avesse avuto la possibilità, lo avrebbe già fatto. Qui il ruolo del giornalista torna di grandissima attualità e importanza.
FF: È notizia degli ultimi giorni l’annuncio della Russia di un cessate il fuoco in Ucraina di tre giorni, dall’8 al 10 maggio. Che idea si è fatta?
AZ: Penso che sia stato annunciato da Putin con l’obiettivo di rubare la scena a Zelensky. A San Pietro è stato accolto da un applauso caloroso, è stato fatto sedere in prima fila nonostante il protocollo: ha dato l’idea di un grande leader mondiale. Putin non c’era perché notoriamente non può viaggiare per via del mandato di cattura internazionale che ha sulla testa. Quindi Zelensky, a quanto sembra, ha approfittato di quel faccia a faccia per portare le sue ragioni a Trump.
FF: Che cosa ne pensa del faccia a faccia tra Trump e Zelensky in San Pietro, ai funerali di Papa Francesco?
AZ: In quel momento Putin stava perdendo un po’ di consensi e Zelensky, uomo molto carismatico e empatico, è riuscito a trovare quell’approccio con Trump che non era riuscito a trovare nello Studio Ovale. Trump pare infatti sia riuscito a dire qualcosa che è il contrario di quanto accaduto una settimana fa, quando disse a Giorgia Meloni «I’m not a big fan» di Zelensky. E lo disse a una delle maggiori sostenitrici sulla scena internazionale. Di fronte a questo scenario, Putin si è sentito nella posizione di rilanciare, passando per “buono” con l’annuncio della tregua di fronte al premier ucraino che chiede, invece, le armi.
FF: Tregua che rimane, però solo annunciata.
AZ: È anche una dimostrazione del fatto che Putin si trova in difficoltà, visto che finora non aveva mai accettato tregue e le uniche volte che lo ha fatto non le ha rispettate: duravano poche ore e non era possibile negoziare nulla. Qui invece la annuncia con settimane di anticipo, quindi pare che la voglia veramente. Tornando al discorso sulla follia, siamo in un momento in cui, siccome abbiamo un presidente Usa che prende decisioni al pari di un monarca capriccioso, pare che Zelensky sia in salita e Putin in discesa. Vedremo cosa succederà perché in gioco ci sono interessi importanti, e alcuni ambienti americani che stanno trattando con Putin fanno pressioni su Trump. Il quale, a due giorni dall’incontro in San Pietro proponeva un piano di pace che sostanzialmente era una resa dell’Ucraina alle condizioni di Putin, incluso il riconoscimento giuridico della Crimea, da parte statunitense, come russa che va contro qualsiasi regola del diritto internazionale.
FF: È ottimista sulla fine del conflitto russo-ucraino?
AZ: Secondo me non c’è alcuna prospettiva che la guerra finisca rapidamente, quindi nel migliore dei casi assisteremo a un cessate il fuoco più o meno lungo, ma non a una pace. Credo che, come dice un bravo politologo ucraino, «alla fine Trump e la realtà si scontreranno». Capirà che la posizione dell’amministrazione Biden sul sostegno all’Ucraina non recava danno ai contribuenti americani, ma era una necessità strategica. Credo che gli Usa torneranno a sostegno dell’Ucraina, vedremo in che modo, e per certo dopo una serie di inciampi, e soprattutto tante morti.