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Il disastro del Gleno, una storia che cent’anni dopo non smettiamo di raccontare

Articolo. Esattamente cento anni fa crollava la diga del Gleno, causando 359 vittime accertate e danni incalcolabili. L’impronta lasciata sul territorio e sulle persone che lo abitano è insieme una richiesta di rispetto alla memoria e un monito per il futuro

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I ruggenti anni Venti, sfavillanti quanto inquieti. Anni cruciali di passaggio tra la Grande Guerra, la Belle Époque e la crisi mondiale del decennio successivo, che si sarebbe aperta con il crollo della Borsa di Wall Street. Mentre in Germania il marco si svaluta al punto che le banconote vengono usate come combustibile, negli Stati Uniti comincia l’età del jazz e dei night club. Nascono i primi voli per passeggeri e il cinema sonoro.

In Italia, intanto, con la marcia fascista su Roma Benito Mussolini assume il potere come capo del governo. Il futurismo inneggia alla modernità, al progresso e alla velocità. Tra Milano, Como e Varese hanno inizio i lavori per la prima autostrada al mondo. E un’altra grande infrastruttura vede gli albori in provincia di Bergamo, sui monti della Valle di Scalve: la diga del Gleno. Cinque anni di lavori, trenta metri di altezza, sei milioni di metri cubi di acqua. Non sono questi, però, i numeri che sono passati alla storia, quanto piuttosto le 359 vittime causate dal suo crollo, a soli quattro mesi dalla fine dei lavori, esattamente cento anni fa.

«A distanza di un secolo, il disastro del Gleno ha lasciato dietro di sé una memoria indelebile e il dolore ancora vivo del ricordo» testimonia Stefano Albrici, Presidente del Comitato Centenario Disastro Diga del Gleno. «Come comitato, ci siamo proposti di raccontare questa storia, di farla conoscere a chiunque ancora non la conoscesse, anche al di fuori dei nostri territori. È ancora troppo poco conosciuta e noi sentiamo la responsabilità, a distanza di cento anni, di non lasciarla cadere nel vuoto e anzi di assicurarci che il mondo abbia imparato la lezione di questa drammatica vicenda».

La storia comincia (o meglio, finisce) alle 7.15 del 1° dicembre 1923. È il crepuscolo, di lì a poco sorgerà il sole. Il sorvegliante della diga, Francesco Morzenti, riceve una telefonata dalla centrale idroelettrica di Molino di Povo che gli ordina di aumentare la portata dell’acqua. Esce dalla cabina di controllo, probabilmente lasciando a metà la tazza di caffè che stava bevendo per scaldarsi. Siamo a 1534 metri di altitudine sulle Orobie bergamasche e la prima neve sta iniziando a scendere.

Francesco aziona il volano per aprire la valvola della saracinesca di scarico, ma si accorge che qualcosa non va. Sente un tonfo, una vibrazione. Vede cadere dei sassi. Si accorge di una fessurazione che si sta rapidamente allargando da uno dei piloni. Non ha tempo di pensare. Dà ascolto all’istinto di sopravvivenza e corre più veloce che può. Si salva a stento, mentre sei milioni di metri cubi di acqua e fango si riversano sui paesi e le frazioni sottostanti: Bueggio, il Dezzo, Angolo con Mazzunno e Corna di Darfo. Quel che resta dell’imponente massa d’acqua termina la sua corsa nel fiume Oglio e poi nel lago d’Iseo. Almeno 359 persone (queste le vittime accertate) perdono la vita.

La domanda sorge spontanea: com’è potuto succedere?

Un passo indietro: le premesse del disastro

La diga era stata completata nell’estate del 1923, solo quattro mesi prima del crollo. Un’opera voluta da Michelangelo Viganò, titolare dell’azienda cotoniera Fratelli Viganò di Ponte Albiate Brianza, per rendersi indipendente dal punto di vista energetico. La prima domanda di concessione per lo sfruttamento delle acque del Nembo e del Povo, con uno sbarramento su quest’ultimo alla piana del Gleno, era stata presentata il 21 marzo 1907. Dieci anni dopo, Viganò riceve l’autorizzazione e, nel giro di un anno, dà inizio agli scavi.

Il progetto cambia aspetto più volte nel corso degli anni, in modi a volte poco trasparenti. Dai 3,9 milioni di metri cubi autorizzati si passa presto a 5 e poi a 6. Da una diga a gravità, la tipologia costruttiva cambia in corso d’opera a diga ad archi multipli. Il cosiddetto “tampone” che sbarra nella gola la vallata raggiunge i 20 metri d’altezza, più di qualsiasi altra diga esistente al mondo. Nell’agosto 1921 un sopralluogo del genio civile porta alla luce tutte le irregolarità e informa il Ministero dei lavori pubblici, che ingiunge la sospensione dei lavori e l’immediata presentazione di progetti aggiornati.

Senza aspettare l’autorizzazione a ripartire, la ditta Viganò, dopo aver comunicato la variazione del progetto, riapre il cantiere e incarica dei nuovi lavori l’impresa Vita e C . di Corbetta, in provincia di Milano. Le testimonianze degli operai scalvini che presero parte ai lavori raccontano di procedure scorrette, lavori frettolosi, utilizzo di manodopera a cottimo sottopagata, cattiva qualità dei materiali e assenza di un’adeguata assistenza tecnica. Nel giro di due anni la diga è completata e raggiunge per la prima volta la sua massima capacità il 14 ottobre 1923.

Quando, neanche due mesi dopo, la diga crolla, iniziano le accuse. Il 30 dicembre 1923 il Procuratore del Re, Cav. Giusti, incrimina per omicidio colposo Virgilio Viganò, il suo progettista, l’ingegner Santangelo e Luigi Vita, l’impresario costruttore. Il processo si apre tre mesi dopo presso la Corte d’Assise di Bergamo e, dopo vari rinvii, si conclude il 4 luglio 1927 con la condanna di Viganò e Santangelo (assolto Vita) a una pena di 3 anni e 4 mesi di detenzione e al pagamento di 7.500 lire oltre alle spese processuali. Verranno poi condonati due anni e la pena pecuniaria. Tutte le parti presentano ricorso presso la Corte di Appello di Milano, che il 27 novembre 1928 assolve Viganò, nel frattempo deceduto per emorragia celebrale, e Santangelo per insufficienza di prove.

Nessuno, ad oggi, è stato ritenuto responsabile per il disastro.

La memoria che rifiuta di essere cancellata

Nonostante la voragine giudiziaria in cui si sono risolti i processi per il disastro del Gleno, resta la volontà di continuare a ricordare quello che è successo e far sì che nessuno lo dimentichi. «Abbiamo cercato, in questi mesi, di raccontare questa storia, di mantenerla viva» rivela Albrici, voce del comitato, «e abbiamo usato linguaggi diversi, promuovendo attività culturali, artistiche e musicali. Ciascuna di queste è stata importante, anche la più piccola ha avuto un significato».

C’è stato per esempio un progetto di ricerca portato avanti dall’Università degli Studi di Bergamo, che ha esplorato gli aspetti ingegneristici strutturali, il profilo storico degli atti e delle vicende processuali e l’interpretazione geografica. Oggi il progetto si è trasformato in una pubblicazione e in una serie di eventi e iniziative. C’è stata una collaborazione tra le scuole dell’infanzia, primaria e secondaria di primo e secondo grado dell’Istituto Comprensivo Vilminore di Scalve, che ha dato vita a un progetto di istituto in cui ogni grado d’istruzione ha realizzato attività differenti: un plastico 3D, un libro illustrato per bambini, una rappresentazione teatrale e un tour virtuale.

Oppure, ancora, la canzone «Viene giù il Gleno» di Giorgio Cordini, chitarrista e compositore. O il progetto della sottosezione CAI Valle di Scalve, «La Via Decia - Il cammino dei boschi di ferro», 95 km di percorso tra Val Camonica e Val di Scalve. Per non parlare della Colere Must , la gara memoriale di trail running che passa da quel che rimane della diga e dagli altri luoghi che hanno fatto da palcoscenico alla triste vicenda.

«La cosa positiva di questo anno straordinario – riassume Albrici – è che c’è stata la collaborazione di tanti: dalle associazioni, ai gruppi, alle scuole, all’Università di Bergamo, fino ai semplici cittadini. Tante persone che hanno sentito la responsabilità di continuare a raccontare».

I prossimi eventi di commemorazione

Nel giorno (e nel mese) dell’anniversario è previsto un programma speciale di eventi, che prenderà la forma di una commemorazione diffusa tra la Valle di Scalve e la Valle Camonica: il «Percorso della memoria». Ieri sera, presso la Chiesa parrocchiale di Vilminore di Scalve, si è tenuta la cerimonia di inaugurazione dell’impianto di illuminazione emozionale della Diga del Gleno in Val di Scalve. L’evento, che è stato intitolato « Luce per ricordare », ha mostrato in anteprima le riprese video volute dall’associazione di promozione sociale Scalve Mountain.

Oggi, all’orario esatto del crollo avvenuto cent’anni fa, le 7.15, si terrà la Santa Messa solenne in ricordo delle vittime presso la Chiesa Parrocchiale di Bueggio. Le campane di tutte le chiese della Valle di Scalve suoneranno in contemporanea nello stesso orario e nei luoghi del disastro si terranno deposizioni di corone d’alloro presso le lapidi commemorative, saluti delle autorità e benedizioni.

Il ricordo del Disastro sarà rinnovato per tutto il giorno anche attraverso altre iniziative in programma nei singoli comuni. A Bueggio, in via Bonino Bianchi, verrà esposta l’opera condivisa «Impronte della memoria» composta da oltre 400 mattonelle realizzate dalle comunità della Valle di Scalve e ideata da Milda Poderyte Visentin, membro della Commissione della Biblioteca di Vilminore di Scalve. Dalle 10 alle 13 presso la Chiesa del Sacro Cuore (Chiesetta del Gleno) di Darfo Boario Terme è prevista l’apertura straordinaria della videoinstallazione «Ricordi di un dolore» a cura del regista Davide Bassanesi.

Lunedì 4 dicembre alle 20.30 a Darfo Boario Terme Lella Costa interpreterà il reading teatrale «La Voce degli invisibili», accompagnata dalla musica dell’orchestra di Fiati della Valle Camonica. Il programma di iniziative che ha scandito le tappe del ricordo in Valle di Scalve e in Valle Camonica con oltre 50 appuntamenti sviluppati lungo tutto il 2023 è stato organizzato dal Comitato Centenario Disastro Diga del Gleno, in coordinamento con enti e istituzioni tra la Valle di Scalve e la Valle Camonica, con il Patrocinio della Provincia di Bergamo e della Provincia di Brescia, della Comunità Montana di Scalve e della Comunità Montana della Valle Camonica, oltre che dei Comuni di Angolo Terme, Azzone, Colere, Darfo Boario Terme, Schilpario e Vilminore.

«Mi auguro che questo anno sia un po’ un anno zero – conclude Albrici – e che aver ripreso in mano questa storia, pur nella sua tragicità, ci permetta di iniziare a pensare al futuro di questo territorio. Di ripartire da oggi per pensare a domani».

Attività realizzata dalla Comunità Montana Valle di Scalve con il contributo di Regione Lombardia nell’ambito del bando OgniGiorno inLombardia, progetto Campagna “VAL DI SCALVE: UNA PERLA INCASTONATA TRA BERGAMO E BRESCIA”.

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