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La bellezza delle protee, così lontane e così vicine

Articolo. La protea è un fiore che potete vedere ovunque in questo autunno ritardatario. Dalle terre remote del Sudafrica, pian piano queste piante si stanno facendo strada con i loro colori caldi e le loro forme bizzarre nel nostro immaginario comune, oltre che nei cosiddetti «giardini terapeutici»

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La protea non è solo un fiore di straordinaria bellezza, un fiore che in molti porteranno al cimitero la settimana prossima, sulla tomba dei loro cari. Appartiene anche ad una delle famiglie di piante più antiche ed evolute del mondo: risale infatti a 300 milioni di anni fa.

La protea venne documentata per la prima volta dal botanico ed esploratore olandese Carl Linnaeus nel 1735. Linneo chiamò la pianta in onore del dio greco Proteo, noto per la sua capacità di cambiare forma. Questo nome era appropriato, dato l’aspetto unico e nello stesso tempo diversificato degli esemplari.

Oggi la troviamo anche a Bergamo, ma la sua storia comincia in Sudafrica: qui costituisce un vero e proprio simbolo ed è è rinomata per la sua forma unica e intricata, i capolini rosa e i colori vivaci. Non a caso, il Sudafrica è noto per la sua flora e fauna diversificate, con un’abbondanza di specie endemiche che si possono trovare solo in questa regione.

Nella cultura sudafricana, le protee sono state a lungo considerate simboli di speranza, resilienza e forza. Il fiore, infatti, è tutt’oggi spesso utilizzato nelle pratiche curative tradizionali e si ritiene che porti fortuna. Questa pianta ha anche un significato speciale per gli indigeni San, una popolazione del deserto del kalahari, che usano la pianta per scopi medicinali. Come anticipato, si tratta di un fiore straordinario nelle sue diverse forme, dimensioni e colori. Può variare da fiori piccoli e delicati a fiori grandi e appariscenti, che possono raggiungere fino a trenta centimetri di diametro. I petali possono essere morbidi e vellutati oppure rigidi e ruvidi, e i colori possono mutare dal rosa pallido al rosso intenso, con sfumature di giallo, arancione e viola in mezzo.

La protea king (Protea cynaroides) è una delle specie più conosciute ed è spesso utilizzata nelle composizioni di fiori recisi e come pianta ornamentale. Della protea esistono però oltre 1.400 specie, un numero che la rende una delle famiglie di fiori più diversificate e abbondanti al mondo e paradossalmente concentrata su un territorio limitato.

Possiamo considerare questa flora endemica sudafricana un patrimonio vegetale, paesistico e culturale dal valore inestimabile, unico a livello mondiale, che merita di essere protetto per le generazioni future. A tal proposito, sono in corso molte iniziative per conservare e proteggere la protea e i suoi habitat, comprese iniziative di rimboschimento e conservazione e programmi di allevamento che mirano a sviluppare varietà nuove e migliorate di questo incredibile fiore, come Protea Atlas Project .

Il fuoco è uno degli elementi più caratteristici sia del Regno Floreale del Capo, un’ecoregione floristica interamente inclusa nella nazione del Sudafrica, che delle savane e praterie africane: la maggior parte delle protee si è adattata a sopravvivere agli incendi nascondendosi in parte sotto terra. Queste piante tendono ad avere grandi tronchi o portinnesti (ovvero steli spessi e sotterranei) contenenti numerose gemme dormienti che, dopo che un incendio ha ucciso le porzioni fuori terra, vengono stimolate a produrre ulteriore crescita. Molte di queste specie fioriscono solo per pochi anni dopo un incendio e poi diventano nuovamente poco appariscenti.

In Sudafrica, le protee spuntano come margherite. Con il nostro clima sarebbe impossibile fare altrettanto: un giardino di protee è qualcosa di utopico. Eppure, gli utilizzi “inanimati” di queste piante sono straordinariamente stupefacenti. Recise o essiccate si adattano a qualsiasi composizione conferendo un carattere inconfondibile. Infatti, negli ultimi anni hanno spopolato negli allestimenti per eventi bohemien , ma soprattutto come fiori che rallegrano i cimiteri nel periodo dei morti, essendo tutt’altro che effimere.

Il giardino di protee di Domitilla

Non tutti sanno che esiste un altro legame tra Bergamo e il Sudafrica, e ha a che fare proprio con le protee. Una donna bergamasca, Domitilla Rota, nel lontano 1967 fondò proprio in un campo di protee vicino a Johannesburg l’istituto LITTLE EDEN . Con il marito, Daniele Hyams, diede vita a una casa e una famiglia per bambini handicappati di diverse etnie, religioni e classi sociali, in un paese che era profondamente e spaventosamente diviso dall’apartheid e oggi ne paga ancora le conseguenze. Nel 1992 Domitilla ha inaugurato l’Elvira Rota Village in onore di sua madre. Al villaggio, come lo chiamava lei, tutto è organizzato come una fattoria. I ragazzi stanno spesso all’aperto a contatto con gli alberi di noci, le coltivazioni di fagioli e le piante aromatiche. Esiste persino un sistema di gestione e depurazione delle acque.

Si tratta di un esempio (su cui ha lavorato ampiamente anche il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Studi di Bergamo) di quello che oggi viene chiamato Healing Garden, ovvero giardino terapeutico. Un concetto che sta spopolando negli ultimi anni abbracciando e unendo discipline artistiche, scientifiche e umanistiche, e riguarda l’allestimento degli spazi scoperti di strutture come case di cura, ospedali, centri per anziani o per disabili per favorire lo svolgimento di attività socioeducative e terapeutico-riabilitative all’aperto ed immersi nel verde.

Curare con la natura

I paesaggi curativi sono dagli arbori dell’umanità un aspetto importante della vita umana. Quando gli uomini iniziarono a costruire le prime abitazioni, nella natura si potevano trovare luoghi mistici o quanto meno socialmente ritenuti terapeutici. Nel mondo occidentale, le comunità monastiche affiancavano infermerie che si basavano sull’uso delle erbe e sulla preghiera, e comprendevano quasi sempre un giardino di clausura, una certosa, o semplicemente un chiostro.

I moderni progressi della tecnologia biomedica hanno progressivamente diminuito l’importanza della natura nel processo di guarigione. Si tratta di una tendenza da invertire e bilanciare, in quanto è stato dimostrato che nei paesaggi naturali è possibile infondere un senso di fascino e attrazione che allontana gli utenti dalla distrazione, riducendone inoltre le emozioni negative e lo stress. Si è ulteriormente attestato che i pazienti che godono di una vista sulla natura hanno un tempo di degenza postoperatorio significativamente inferiore, un minore uso di farmaci e hanno avuto meno complicazioni postoperatorie rispetto ai pazienti con vista su un muro. Anche i residenti nelle case di cura con accesso fisico o visivo alla natura hanno un apporto calorico e un esercizio fisico significativamente maggiori rispetto a quelli senza.

Questi giardini curativi tradizionali si trovano spesso all’interno o adiacenti a strutture sanitarie al chiuso. Sono pensati per utenti specificatamente malati o disabili, che devono essere in grado di accedere fisicamente o almeno visivamente a questi siti. Tuttavia, anche in ambito sanitario, questi spazi sono spesso utilizzati da una popolazione più ampia, compreso il personale e i visitatori, nonché i pazienti e i residenti.

In generale, questi Healing Garden sono efficaci in quanto tali se promuovono determinati elementi. Tra questi spicca il senso di controllo: i pazienti e i residenti devono sapere che esiste un giardino, poterlo trovare facilmente ed essere in grado di accedere e utilizzare lo spazio in modo attivo o passivo. Dovrebbero anche avere aree per la privacy protette dalla vista delle finestre. Una varietà di spazi può aiutare gli utenti a fare delle scelte. La sensazione di controllo può essere rafforzata anche coinvolgendo gli utenti nella progettazione del giardino.

Le specie di piante medicinali e commestibili e quelle che coinvolgono tutti i sensi sono spesso una buona scelta per la tavolozza delle piante da presentare nel progetto, così come le piante che incoraggiano la fauna selvatica. Le piante velenose, spinose e quelle piante che incoraggiano grandi quantità di insetti indesiderati dovrebbero essere evitate, specialmente nei giardini utilizzati da bambini e malati psicologici.

Molti esempi di giardini curativi sono stati avviati da una forte leadership, ma sono stati implementati attraverso un forte processo comunitario. Partendo perciò dal giardino di protee di Domitilla, che ora è diventato un vero e proprio villaggio agricolo terapeutico e nello stesso tempo produttivo, spero di aprire qualche cuore ad intraprendere questo tipo di iniziative. Pensateci, quando nei prossimi giorni camminerete nei cimiteri stracolmi di protee.

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