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Mario Calderini, «non dobbiamo fare l’errore di disinnamorarci dell’ecologia»

Intervista. Il professore del Politecnico di Milano sarà ospite domani, martedì 10 giugno al gres art di Bergamo, per «Odissea Terra» insieme allo scrittore Alessandro d’Avenia e la Presidente del CNR Maria Chiara Carrozza

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C’è un motivetto che da mesi (anzi, da più di un anno) spopola sui social tra i più giovani, ma che solo di recente – grazie al risalto che gli ha dato sui social una grande testata nazionale – si è fatto strada anche tra gli adulti. È a tema sostenibilità, e dice: « la plastica nell’umido, le sigarette in mare; non ce ne frega niente, noi vogliam solo inquinare ». Dobbiamo questa boutade a tale «Tony da Milano», opinionista che di tanto in tanto interviene alla «Zanzara», la controversa trasmissione di Giuseppe Cruciani su Radio24, con tesi discutibili convogliate al suo pubblico tramite delle canzoncine orecchiabili. Le frasi di «Tony da Milano» hanno dato subito scandalo, tanto che il 7 ottobre 2023 il Corriere della Sera ne aveva già parlato in un articolo. Ovviamente, la canzoncina va presa per quello che è: un concentrato di ironia che vuole far parlare di sé, senza veramente prestare attenzione a ciò che dice e a come lo dice. Ma resta che oggi spopola sui social, e il semplice fatto che sia rimasta tra i trend per dodici mesi è preoccupante.

È preoccupante perché è un campanello d’allarme che ci avvisa di un atteggiamento non anti-ambientalista, ma insofferente nei confronti dell’ecologia e della transizione verde. Atteggiamento che va di pari passo con quello della politica globale, che dalla rielezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti sembra aver gettato la maschera, cercando di mettere da parte a forza tutti i (dolorosi, talvolta) sforzi che abbiamo fatto nella lotta al cambiamento climatico.

Se vogliamo intavolare un discorso serio sulla transizione verde – su una transizione verde duratura e appoggiata dalle persone comuni – occorre studiare questi sentimenti negativi dell’opinione pubblica. Senza cavalcarli, ovviamente: il fatto che le politiche ambientali vengano percepite negativamente non le rende meno importanti. Semmai, la rabbia ecologica va capita e smontata piano piano, con risposte concrete e un approccio che unisca scienza, società, economia e cultura. È questo l’ambizioso obiettivo che la Fondazione Pesenti ETS e la Fondazione Corriere della Sera si sono poste con «Odissea Terra», un ciclo di conferenze che diventerà un progetto multimediale interamente dedicato alle grandi domande sulla sostenibilità: come perseguirla, perché farlo, come convincere il pubblico a (tornare a) impegnarsi. Il secondo incontro di « Odissea Terra » si terrà martedì 10 giugno alle 18:00, al gres art 671 di via San Bernardino, a Bergamo. A introdurlo ai lettori di Eppen è Mario Calderini, professore di «Management for Sustainability and Impact» al Politecnico di Milano e consulente scientifico del progetto.

BA: Perché avete deciso di inaugurare «Odissea Terra»?

MC: «Odissea Terra» è nato con lo scopo di tenere alta la guardia sulla sostenibilità, intesa come compatibilità delle nostre azioni individuali e collettive con il futuro del pianeta. Abbiamo deciso di coinvolgere esperti di varie branche del sapere per capire come la cultura, la scienza e l’innovazione possano aiutarci a rendere migliore il futuro per le generazioni che verranno.

BA: Crede che l’attenzione sulla transizione verde si stia riducendo?

MC: Negli scorsi anni, abbiamo alzato molto la soglia dell’attenzione sulla transizione ecologica, soprattutto in Europa. Negli ultimi mesi, a partire dall’elezione di Trump, si è verificata una reazione negativa della società e dei corpi intermedi - industria e associazioni di categoria per prime - nei confronti di questa tematica. Credo che questo cambiamento sia figlio dei mutati venti politici, ma non solo. Parti della società si stanno rendendo conto che la transizione verde non può essere solo ambientale, ma deve accompagnarsi a una transizione sociale, che deve “portare a bordo” i cittadini fornendo loro un dividendo dei suoi effetti positivi. Tutto ciò non si è verificato, non fino ad oggi: ora in tanti temono di doversi sobbarcare i costi della transizione ecologica senza ricevere nulla in cambio, e per questo vogliono interrompere il processo.

BA: Quindi la società si è “messa in mezzo” alla transizione verde, e ora vuole fermarla?

MC: Non proprio. La lotta sociale è l’altra faccia della medaglia della lotta al cambiamento climatico: non sono in antitesi. Però per perseguire queste due lotte - quella verso una società più giusta e quella per l’equilibrio con la natura - occorre del tempo. La strada è lunga, e qualcuno ha percepito che i costi per percorrerla vengono pagati dai più deboli, mentre i più forti si appropriano dei vantaggi. Ci sono stati anche degli errori di comunicazione da parte delle istituzioni, e c’è stata troppa fretta nel perseguire la transizione ecologica. Un caso molto chiaro è quello dei lavoratori dell’automotive, che hanno iniziato a protestare quando hanno percepito che le direttive europee sull’auto elettrica venivano “pagate” solo da loro. La lotta al cambiamento climatico ha dei costi: se andiamo troppo veloci e non prevediamo delle misure sociali per tamponarli, la società smette di accettarli.

BA: La transizione ecologica sta avvenendo troppo velocemente: è questo il problema?

MC: No, dire che la transizione ecologica è troppo rapida è un’esagerazione. La questione è un’altra: per evitare che la transizione verde rallenti, dobbiamo accelerare tantissimo su quella sociale, per rimetterle in pari. Mettiamola così: stiamo schiacciando l’acceleratore a tavoletta, ma non ingraniamo le marce successive alla prima. Così ingolfiamo la macchina.

BA: Come si fa ad aiutare la transizione sociale?

MC: Un ruolo fondamentale ce l’ha la formazione, soprattutto a livello industriale. Dobbiamo aiutare i giovani e i lavoratori che rischiano di essere colti alla sprovvista dalle misure verdi, in modo che non si sentano espulsi dal mercato del lavoro. Contestualmente, trovo pericolosa la riduzione dei fondi destinati alla ricerca, perché è proprio la ricerca che ci permette di trovare delle soluzioni a basso impatto sociale al cambiamento climatico. Per questo, con «Odissea Terra» cerchiamo di coinvolgere formatori e ricercatori di livello: a Bergamo, per esempio, ci saranno lo scrittore Alessandro d’Avenia e la Presidente del CNR Maria Chiara Carrozza.

BA: Anche l’Unione Europea dovrebbe contribuire a questa trasformazione?

MC: Sì, e gli strumenti già ci sono. Al suo primo mandato, Ursula Von der Leyen e la sua Commissione hanno approvato il «Piano d’azione per l’economia sociale», che promuoveva le attività che perseguivano fini di inclusione e coesione attraverso il mercato: ogni impresa doveva diventare un’impresa sociale, in soldoni. L’UE ha lanciato il Piano e ha raccomandato agli Stati membri di implementarlo, ma dopo la reazione negativa contro la transizione ecologica degli ultimi mesi sembra averlo messo da parte. La colpa è anche della Commissione stessa, che di recente ha commesso l’errore di riportare indietro l’orologio di circa dieci anni creando una rivalità secca e pericolosa tra sostenibilità e competitività. Ma non è vero che le politiche sociali, quelle industriali e quelle ambientali sono in antitesi. Al contrario, l’idea che si potesse essere sostenibili e competitivi insieme è uno dei traguardi più importanti che abbiamo raggiunto in politica negli scorsi anni.

BA: Ha detto che l’opinione pubblica è convinta che sono i più ricchi a guadagnare dalla transizione ecologica. Ma anche le aziende la criticano perché comporta spese ingenti. Chi è che ci guadagna davvero?

MC: Ci sono diverse risposte. In primo luogo, ci guadagniamo tutti: il cambiamento climatico è un problema ambientale, e un ambiente migliore va a vantaggio di tutta la società. Poi c’è chi crede che vi siano dei “poteri forti” che si stanno arricchendo: in realtà non esistono. Però ci sono anche dei settori e delle aziende che effettivamente ci guadagnano. La percezione, a mio avviso, è che a perderci siano soprattutto le piccole e medie imprese, che però sono la spina dorsale del nostro tessuto produttivo. Chi invece trae vantaggi enormi sono le grandi aziende.

BA: Di quali grandi aziende parla?

MC: Di quelle legate all’Intelligenza Artificiale, per esempio. Il settore dell’IA, dei server e dei datacenter sta seguendo una traiettoria estremamente energivora, con enormi consumi di elettricità e di acqua, e non è un caso. A chi fa comodo questo sviluppo così rapido e che non tiene conto della disponibilità di energia? A chi produce grandi quantità di dati e ha necessità immediata di analizzarli, ma anche a chi ha grandi capitali da investire, e li spende negli impianti di produzione di elettricità. La società deve accettare i grandi sacrifici che le vengono richiesti in nome della salute del pianeta, ma dall’altra parte vede queste traiettorie poco sostenibili che riescono perché sono guidate da interessi finanziari molto specifici e molto grandi.

BA: L’Unione Europea ha avuto un ruolo in questa stortura del sistema?

MC: L’UE ha chiesto grandi sforzi alle imprese, soprattutto nella rapportistica. La “grammatica” dell’ESG si è sviluppata in modo fin troppo favorevole alle multinazionali, premiando tantissimo la «E» e molto poco la «S». In questo sistema, i grandi gruppi che contribuiscono molto alle riduzioni delle emissioni registrano delle performance positive. Le piccole aziende - pensiamo alle PMI bergamasche, che hanno capacità limitate nella riduzione delle emissioni ma che magari sono l’unica fonte di reddito per intere comunità - vengono penalizzate. E non solo dal punto di vista normativo, ma anche di fronte alle banche e ai finanziatori.

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