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#workinprogress: quanto (non) sappiamo della categoria degli insegnanti

Articolo. Qual è il carico di lavoro effettivo di un docente? Quanto viene retribuito? Secondo una ricerca dell’Università del Sussex, di questo secondo punto nello specifico gli italiani non hanno alcuna idea. Occuparci delle reali condizioni lavorative degli insegnanti, oltre che parlare dell’importanza e della ricchezza della professione, significa intervenire sulla qualità del nostro sistema scolastico. E sulla società intera

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Dal 2013 l’Università del Sussex, in collaborazione con Varkey Foundation, porta avanti un interessante progetto di ricerca comparativa sullo status sociale degli insegnanti in 35 paesi del mondo. L’obiettivo è quello di rilevare il grado di prestigio e rilevanza sociale riconosciuto alla professione del docente nei vari contesti nazionali.

Da questa ricerca emerge quella che è stata più volte indicata come una anomalia italiana: lo status sociale dei nostri insegnanti risulta essere il terzo più basso della classifica globale. Nella scala da 1 a 100 utilizzata per determinare la collocazione di status, la media europea è 34. Quella italiana 14. Meno della metà. Il dato è considerato fortemente anomalo perché non ha alcuna correlazione con ciò che emerge dalle ricerche sulla qualità dell’insegnamento, sia riguardo i risultati scolastici che il grado di soddisfazione di studenti e genitori. Non riflette particolari criticità legate alle capacità e alle prestazioni didattiche degli insegnanti italiani. Al contrario, se si leggono i report annuali delle organizzazioni internazionali che studiano in chiave comparata i sistemi scolastici, si scopre che il nostro corpo docente non ha nulla da invidiare a quello degli altri paesi europei.

L’università del Sussex ha anche scoperto che gli italiani — unico caso in Europa — non hanno alcuna idea della retribuzione degli insegnanti. Il salario lordo annuale di un docente italiano della scuola secondaria, secondo i cittadini intervistati, è di circa 16.000 dollari (circa 14.000 euro), mentre in realtà ne percepisce 33.000 (circa 30.000). E se viene chiesto loro di indicare il compenso che ritengono adeguato a questa professione, la risposta è 20.000 (circa 18.000). Il 40% in meno della media attuale.

Una percezione così sfasata può avere ragioni culturali, ideologiche, ma non ha nulla a che vedere con la materialità dei processi educativi e con le reali condizioni lavorative degli insegnanti. Delle quali, invece, dovremmo preoccuparci al più presto. Ne va della tenuta del nostro sistema scolastico. Tutta Europa sta attraversando una crisi di vocazione alla professione docente: si registra un invecchiamento del corpo insegnante e grandi carenze di organico. L’Italia è tra le realtà più problematiche sotto questo punto di vista.

A scanso di equivoci: la crisi di vocazione non è un problema di scarsa motivazione. Anzi, l’indagine TALIS del 2018 ha rilevato che l’insegnamento è stata la prima scelta professionale per il 65% degli insegnanti italiani. Un giovane che oggi sceglie di diventare insegnante è senza dubbio motivato, consapevole del lungo e impegnativo percorso di formazione e selezione (laurea, specializzazione, concorsi, abilitazione, tirocini) che lo aspetta. E dei tanti anni di precariato e incertezza economica, lavorativa, geografica che dovrà affrontare prima di stabilizzarsi. In Europa gli insegnanti under 35 con contratti temporanei sono circa un terzo. In Italia sono addirittura più di due terzi (78%), molti dei quali con contratti non superiori a un anno.

A compromettere l’attrattività — e lo status sociale — della professione docente sono proprio le condizioni di lavoro (stipendio, orario di lavoro e mansioni extra). Un insegnante della scuola pubblica statale percepisce in media 1.400 € netti mensili, poco sopra la soglia della povertà. Come scrive Orizzonte Scuola, «Prendiamo il caso di un docente di scuola dell’infanzia o primaria a Milano senza figli. La soglia di povertà è di 1.175 euro, il suo stipendio di 1.400 euro rappresenta solo il 119% della soglia di povertà, lasciandolo in una zona grigia di vulnerabilità economica. Se esaminiamo la situazione per un docente con famiglia, le cifre cambiano: per un nucleo di due adulti e un bambino piccolo, la soglia di povertà a Milano sale a 1.700 euro, e per una coppia con due figli adolescenti, si parla di soglie tra 1.790 e 2.084 euro in Lombardia».

Qualcuno potrebbe obiettare che non è una retribuzione inadeguata, se si considera che lavorano solo 18 ore a settimana. Questo è un vecchissimo luogo comune — ahimè duro a morire — che nasce dal fatto che in Italia vengono indicate nel contratto di lavoro degli insegnanti esclusivamente le ore d’aula, che rappresentano solo una parte dell’orario di lavoro effettivo. Una recente ricerca dell’Università Cattolica di Milano ha infatti dimostrato che i docenti italiani lavorano in media 36 ore settimanali, ossia il doppio di quelle che appaiono nel contratto.

Se ci soffermiamo un momento e mettiamo in ordine tutti i dati esposti finora, le ragioni della sopracitata “anomalia italiana”, dello scarso riconoscimento sociale accordato agli insegnanti italiani, appaiono meno oscure.

Ancor peggiore, sia in termini economici che di status sociale, è la condizione dei docenti della formazione professionale, delle scuole non statali, i quali, nonostante svolgano il medesimo lavoro dei loro colleghi della scuola statale, si trovano in una situazione ancor peggiore. Non sono selezionati attraverso concorsi e graduatorie, bensì tramite reclutamento diretto e discrezionale. Hanno salari inferiori, orari più lunghi e frequentemente è richiesta loro un’ampia flessibilità. L’errata stima della retribuzione degli insegnanti da parte degli italiani, rilevata nella ricerca dell’Università del Sussex, diviene purtroppo corretta nel caso dei docenti della formazione professionale. Inoltre, operando nella formazione professionale, questi insegnanti si trovano ad affrontare situazioni ad alta complessità didattica e relazionale. Hanno percentuali elevatissime di studenti con DSA certificati, che rappresentano spesso più di metà della classe. Insomma, sono pagati meno di chi insegna in un liceo, ma la fatica che viene loro richiesta è spesso maggiore.

Il mondo della formazione professionale è una grande realtà sommersa di cui si conosce davvero poco. Anche perché molto difficile da mappare. In Lombardia risultano circa 3000 docenti assunti con il contratto nazionale della loro categoria, ma si stima ve ne siano almeno altri 15000 (probabilmente sono di più) con i contratti atipici più disparati: partite IVA, somministrazione, contratti a chiamata, contratto commercio terziario, rapporti di lavoro che fanno riferimento a regolamenti di istituto, e chi più ne ha più ne metta.

Anche per questa ragione i piccoli miglioramenti determinati dal rinnovo del CCNL della formazione professionale che, dopo dieci anni di stallo, è stato finalmente firmato lo scorso primo marzo, riguarderanno una minoranza di questi docenti, lasciando la situazione complessiva sostanzialmente immutata. Sia chiaro: il rinnovo per quadriennio 2024-2027 è un risultato importante, da non liquidare. Soprattutto se si tiene conto della debolezza sindacale che, per ragioni strutturali, caratterizza questa categoria. Nel primo biennio «realizzerà aumenti pari al 5%, prevedendo nel contempo la riapertura della trattativa per il secondo biennio. A queste risorse si aggiungono almeno il 3% di salario incentivante e 1.000 euro una tantum da attribuire attraverso le contrattazioni regionali, la sanità integrativa, confermata la previdenza complementare».

L’estensione del contratto nazionale al più ampio numero possibile di questi docenti è attualmente l’unica strategia per contrastare il dumping salariale prodotto dall’uso improprio di altri contratti e dalla dispersione generata dalle diverse articolazioni regionali. Tuttavia, dato il grado di frammentazione appena descritto, unificare contrattualmente questa categoria è una battaglia difficilissima.

I rappresentanti sindacali sono pochi e, a mio parere, eroici, se ci ricordiamo che si trovano nelle medesime condizioni di precarietà e ricattabilità dei lavoratori che rappresentano. Ma non possiamo scaricare su di loro l’onere di cambiare la situazione. Non stiamo parlando semplicemente delle condizioni di una categoria lavorativa, ma della qualità del nostro sistema scolastico. Statale e non statale. Dunque delle sorti della società intera.

Se riguarda tutti, credo che ciascuno debba fare la sua parte. A cominciare dalle famiglie e dall’informazione, che non possono certo elevare le retribuzioni degli insegnanti, perché non è in loro potere. Ma non vale la stessa cosa per lo status sociale. Su questo si può intervenire, raccontando l’importanza, la ricchezza e la complessità di questa professione. Evitando di ridurre l’informazione sulla scuola a una sequenza di fatti di cronaca (bullismo, comportamenti devianti) come spesso accade. E magari abbandonando un altro vizio molto diffuso, ovvero la cattiva abitudine di criticare in modo generico e superficiale la categoria degli insegnanti. Soprattutto alla luce del fatto che, come ci ha dimostrato l’Università del Sussex, non sappiamo di cosa stiamo parlando.

Questo articolo non sarebbe stato possibile senza il contributo essenziale di Antonio Cassella, insegnante di italiano, storia e geografia e delegato provinciale FLC-CGIL per la formazione professionale. È grazie a lui che ho potuto avere dati e informazioni — irreperibili altrove — relative alla condizione degli insegnanti che lavorano nelle scuole non statali lombarde.

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