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Con il «Digital Markets Act», l’UE imbriglia le Big Tech. O almeno ci prova

Articolo. Entrato in vigore lo scorso 7 marzo, il «Digital Markets Act» vuole limitare lo strapotere delle grandi corporazioni del digitale. Ma cosa cambia davvero per i consumatori?

Lettura 4 min.
(Foto JRdes-Shutterstock.com)

Il 7 marzo 2024 è stato un giorno storico per i consumatori europei, ma in pochi se ne sono accorti. Quel giorno è infatti entrato in vigore il « Digital Markets Act (DMA) ». Pietra angolare della legislazione tecnologica comunitaria, il «DMA» rappresenta una rivoluzione per la gestione dei servizi digitali nell’UE: contrasta le tendenze monopolistiche delle Big Tech cinesi e americane, favorisce la competizione delle aziende europee del comparto hi-tech e introduce maggiori tutele per i cittadini europei. Tutto questo, almeno, stando ai proclami e alle buone intenzioni di Bruxelles.

All’atto pratico, però, cosa cambia davvero per i consumatori con l’entrata in vigore del «Digital Markets Act»?

I sei gatekeeper dell’Hi-Tech

Ridotta ai minimi termini, la nuova legislazione identifica sei aziende – cinque americane e una cinese – definite gatekeeper: si tratta di compagnie che, con la loro sola presenza nel mercato, rischiano di “chiuderlo” a qualsiasi rivale europeo. I nomi sono quelli che conosciamo tutti: Alphabet – cioè Google – Amazon, Apple, ByteDance (che possiede TikTok), Meta e Microsoft. A queste sei compagnie fanno capo un totale di 22 servizi considerati a rischio monopolio a causa del loro bacino di utenza enorme e dei loro ricavi stratosferici: tra di essi troviamo Facebook, WhatsApp, Instagram e YouTube. Tutte piattaforme che ormai consideriamo insostituibili: se domani Google Maps scomparisse, quali servizi useremmo per orientarci nel traffico? Ancora peggio: se WhatsApp, Instagram e Facebook venissero oscurati di punto in bianco, verso quali social network ci sposteremmo?

A complicare le cose, c’è il fatto che molti servizi fanno capo alla stessa compagnia. Per esempio, il livello di integrazione delle app di Google sui dispositivi Android è profondissimo, molto più di quanto non lo sia sui PC con sistema operativo Windows o sugli iPhone: nell’homepage di ogni smartphone Google Pixel o Samsung Galaxy potete trovare la barra di ricerca sul web targata Google; aprendo il browser di sistema la pagina principale sarà quella di Google; scorrendo a sinistra si aprirà il pannello di Google News; preinstallati fin dalla prima accensione avrete YouTube, Google Maps, Google Play Store e chi più ne ha più ne metta. Parlando del mondo Apple, quante volte vi è stato sconsigliato l’acquisto di un iPhone perché «poi devi comprare anche un Macbook, un iPad, delle AirPods e un Apple Watch»?

Ecco, il «Digital Markets Act» vuole limitare lo strapotere (reale per le autorità UE, solo percepito per le Big Tech) delle grandi corporazioni del digitale, riducendo gli effetti di scala garantiti dagli ecosistemi integrati e dall’elevato numero di utenti. Per ottenere questo risultato, la Commissione e il Parlamento Europeo hanno elaborato una lunga serie di regole e obblighi a cui tutti i gatekeeper devono scrupolosamente attenersi, pena il pagamento di multe salatissime.

Le misure sono entrate in vigore il 7 marzo 2024, ma i cambiamenti reali sono pochi. I più attenti avranno notato dei pop-up e dei banner su tutti i servizi colpiti dal «DMA», a partire da Facebook, Google e Instagram: solo una manciata scarsa di persone, però, li avrà letti fino in fondo. Qualcun altro potrebbe essersi accorto del pensionamento forzato a cui è andato incontro il motore di ricerca per i voli di Google Flights, considerato incompatibile con il «DMA». Altri ancora potrebbero aver cambiato browser di default sul proprio smartphone, passando da Google Chrome (su Android) e da Safari (su iOS) a una delle alternative disponibili – una dozzina in totale. Briciole, se pensiamo alla pervasività delle piattaforme gatekeeper nelle nostre vite.

Su iPhone cambia tutto… o niente?

Tutto ciò significa che il «Digital Markets Act» si è rivelato inutile? Non proprio. Molte delle sue misure sono già in vigore e stanno cambiando il panorama dei servizi digitali. Per esempio, il «DMA» potrebbe rappresentare un terremoto per WhatsApp, che dovrà garantire l’interoperabilità con i sistemi di messaggistica tradizionale (gli SMS, insomma) e digitale (Telegram, Signal e iMessage di Apple).

Chi, seppur con mille reticenze, si è impegnato a rispettare il «Digital Markets Act» fin da prima della sua entrata in vigore, è proprio Apple. Giusto un paio di giorni prima che il «DMA entrasse in vigore, il colosso di Cupertino ha rilasciato iOS 17.4, un aggiornamento del software degli iPhone che ha introdotto tante novità volte a ottemperare agli obblighi imposti da Bruxelles. Dopo aver installato l’update noterete che vi verrà richiesto se desiderate cambiare browser di default per le ricerche sul web: oltre a Safari, potrete selezionare Chrome, Edge, Opera e DuckDuckGo, per citarne alcuni. Inoltre, Apple ha dato libero accesso al chip NFC degli iPhone anche agli sviluppatori terzi, il che significa che presto potrete utilizzare applicazioni diverse da Wallet e Apple Pay per i pagamenti contactless. Per i videogiocatori, c’è l’apertura al cloud gaming anche sugli iPhone.

La novità più importante è però il sideloading, ovvero la possibilità di scaricare applicazioni da app store alternativi a quello di Cupertino: si tratta di un’apertura senza precedenti per l’ecosistema Apple, che potrebbe portare al proliferare dei marketplace digitali alternativi a quello della Mela Morsicata. In ultima battuta, gli utenti potrebbero avere una scelta più ampia di app da scaricare sui propri iPhone.

Eppure, al momento gli app store alternativi su iOS si contano sulle dita di una mano. Le app di cloud gaming non ci sono ancora. Lo stesso vale per quelle per i pagamenti contactless. Perché gli sviluppatori europei non stanno sfruttando queste nuove opportunità di mercato? Da una parte, c’è la questione dei tempi: sviluppare dei software che si adeguino al «DMA» richiede mesi. Poi c’è l’attiva (ma indiretta) opposizione di Apple agli sviluppi promossi dall’UE: il sideloading, per esempio, è stato implementato solo in Europa, il che significa che gli app store alternativi non saranno accessibili sul mercato nordamericano e su quello cinese, dove si concentra la maggior parte degli utenti iPhone. Divide et impera, potremmo dire.

E ancora: la Mela Morsicata ha implementato un sistema chiamato « Core Technology Fee », a causa del quale tutte le app di successo distribuite tramite canali alternativi dovranno pagare un contributo spropositato all’azienda fondata da Steve Jobs. Secondo gli sviluppatori, questa “tassa” potrebbe mandare sul lastrico chiunque pubblichi una app gratuita di successo: l’UE ha già deciso che vuole vederci chiaro e sta indagando proprio in queste settimane.

Infine c’è l’interrogativo più grande, ovvero quello della reazione del pubblico. Siamo davvero sicuri che gli utenti iPhone siano disposti a scaricare le proprie app da un negozio diverso da quello che hanno usato negli ultimi 20 anni? Microsoft e NVIDIA – che possiedono i due principali servizi di gaming in streaming sulla piazza – non ne sono convinte. Neanche colossi del calibro di Netflix e Spotify, che pure hanno duramente criticato le più recenti politiche di Apple, hanno tentato di rendersi “indipendenti” dall’ecosistema iOS. È ancora presto per dire se il «Digital Markets Act» resterà carta morta nonostante le buone premesse, ma i primi segnali non sono incoraggianti.

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