Novazza, frazione del comune di Valgoglio, è un borgo assolato, adagiato sui pascoli ai piedi della cima di Bani, con l’orecchio proteso verso la Valle del Goglio e lo sguardo rivolto al fiume Serio. A impreziosire il borgo sono le secolari case di pietra, i balconi di legno, le viuzze acciottolate e le piazzette un tempo animate dai giochi dei bambini. Alzare gli occhi significa raggiungere le cime più note e gli angoli più remoti delle Orobie. La storia di Novazza è strettamente legata alla soprastante cima di Bani e al suo “fratello” minore, il Coren Presì . La Valle del Goglio annoverava numerose fucine e opifici legati alla lavorazione del ferro, attività che concentrarono in zona molti abitanti. Le “lame” del Goglio erano paragonate per qualità e resistenza a quelle prestigiose di Toledo.
La zona non è purtroppo nuova ad eventi idrogeologici estremi: alluvioni, frane e addirittura un terremoto (nel 1555) hanno segnato profondamente il territorio e la popolazione. Facciamo un salto all’indietro nel tempo e torniamo al 1° novembre 1666: per raccontarvi cosa successe quel giorno utilizzerò il tempo presente. «Da parecchi giorni in Alta Valle Seriana piove ininterrottamente. Il torrente Goglio è in piena e i terreni sono fradici, incapaci di trattenere ulteriore acqua. È l’ora dei Vespri a Novazza, quando all’improvviso un gigantesco turbine d’aria e acqua si incunea nella Valle, sradicando alberi e sollevando massi che rimbalzano sulle pareti della valle distruggendo tutto ciò che incontrano. Molti abitanti vengono travolti dai sassi e risucchiati nel frenetico vortice. La tromba d’aria strappa dal terreno molti alberi anche nella zona a monte di Novazza (tra la cima di Bani e il Monte Presì), rendendo ulteriormente instabili pendii già abbondantemente deforestati per la produzione del carbone utilizzato nelle fucine. Pochi istanti dopo la furia dei venti, un intero versante della montagna si stacca, precipita a valle travolgendo ogni cosa. La gigantesca frana conclude la propria corsa nell’alveo del torrente Goglio, poco a valle della contrada Colarete. L’enorme massa di detriti occlude il corso del fiume in piena che si gonfia repentinamente arrivando a tracimare con veemenza. L’ondata di piena travolge l’abitato di Goglio, seminando morte e distruzione. L’ammasso di materiali, fango e acqua arriva fino al fiume Serio sbarrandone il corso e generando un lago. La forza delle acque del Serio in piena riesce, fortunatamente, a smaltire i detriti e a far defluire l’acqua senza provocare ulteriori disastri».
Come riferisce don Alessandro Ghirardelli, arciprete di Clusone, nella sua relazione del 1671 al Vescovo di Bergamo, l’evento durò «lo spazio d’un sol Pater Noster». Dileguata «la funesta nube si rasserenò la natura e l’ira divina e terminarono i tormenti di tanto furore». Alla fine si contarono 64 morti, la contrada del Goglio (cinquanta case, la chiesa, i ponti, i mulini, gli opifici e le fucine) fu totalmente distrutta e sepolta nel fango. È interessante sapere che nell’immaginario collettivo di quel tempo la tragedia sia stata collegata con l’apparizione, nei mesi precedenti, di due diverse comete (marzo 1665 e febbraio 1666), presagio di eventi funesti.
A distanza di quasi trecento anni, nel 1959, Novazza tornò a far parlare di sé. Nel mese di maggio, un tecnico dell’ENI con un contatore Geiger, apparecchio per la misurazione della radioattività, si avvicinò a una fontana del paese per dissetarsi. Lo strumento cominciò a impazzire. Dopo alcuni successivi rilievi si riscontrarono alti livelli di radioattività un po’ dappertutto: nelle case, per le strade, nel torrente. La pechblenda, il minerale uranifero presente in zona, venne trovato anche in chiesa, nel muro di contenimento, con livelli di radiazione altissimi. Ulteriori approfondimenti portarono alla scoperta di un importante giacimento poco a monte dell’abitato, proprio nel cuore della frana del 1666.
Da allora alterne vicende accompagnarono la storia dell’uranio di Novazza, dal miraggio di una possibile fonte di ricchezza per la popolazione alle vivaci azioni di protesta da parte di numerosi abitanti nel tentativo di scongiurare lo sfruttamento minerario dell’uranio. In tempi diversi, vennero realizzati gli scavi di alcune gallerie esplorative per verificare entità e direzione della venatura del giacimento, senza mai iniziare uno sfruttamento minerario vero e proprio. Nel 1983 L’ENI decise di sopprimere l’Agip nucleare. Iniziò così la smobilitazione degli impianti di Novazza. Il disastro di Chernobyl del 1986 e il successivo referendum del 1987 scrissero la parola fine del capitolo nucleare in Italia.
È di questi ultimi anni l’interessamento per lo sfruttamento della miniera non più per l’uranio ma per cavare il Serizzo verde, una pietra elegante e solida molto apprezzata nell’edilizia. I motivi di interesse sono innumerevoli ed è così che oggi scegliamo di andare alla scoperta di questo territorio, puntando alla conquista della Cima di Bani con partenza da Novazza. Per rendere l’escursione ancor più avvincente interpello l’amico Luca, novazzese doc nonché grande conoscitore del luogo e della sua storia. L’appuntamento è al posteggio (1024m) presso il cancello d’ingresso della miniera, un paio di chilometri a Monte di Novazza. Il posteggio è stato da pochi giorni ripulito e ampliato e può accogliere un discreto numero di veicoli.
Ci inerpichiamo sul sentiero che si diparte a fianco del torrente, in corrispondenza di un grosso masso ai piedi del quale transita il percorso. Non esistono indicazioni né bolli segnalatori, ma la traccia è piuttosto evidente e sale a zig zag nel bosco. In questo tratto iniziale può capitare di imboccare qualche traccia secondaria ma in ogni caso tutti i sentieri portano ad intersecare, prima o dopo, quello principale che proviene da Bani e si dirige al Coren Presì e alla cima di Bani. Luca ci fa presente che ci troviamo in Val Regone, nel centro del cono di scivolamento della storica frana: «Un tempo questa valle era priva di vegetazione ed era soggetta a frequenti valanghe; in questi ultimi decenni la vegetazione ha ricoperto il pendio. Gli alberi impediscono il distacco di nuove valanghe ma la forza di spinta della neve che tende a scivolare verso il basso arriva a piegare le piante incurvandone il tronco» e ci mostra la tipica «sciabolatura» dei tronchi. Mentre saliamo intercettiamo numerosi ral, le piazzole dove veniva prodotto il carbone. Dopo la fine della seconda guerra mondiale la produzione di carbone e lo sfruttamento dei boschi terminarono costringendo numerosi boscaioli all’emigrazione oltralpe.
I ral sono tutti segnalati da cartelli di legno, ciascuno con il suo nome. Transitiamo così dal ral del Morer, da quello de la Brusada, dal ral del Corèn Negher, e da tanti altri. Peccato che non esista una cartellonistica dei sentieri. Osserviamo da vicino il margine laterale della frana, ancora ben distinguibile nonostante la copertura boscosa. A quota 1250m incontriamo un cartello di legno che indica la deviazione per il Coren Presì, una guglia rocciosa con in cima una Madonnina a proteggere le case di Novazza. Luca sconsiglia di salirci, il terreno è assai impervio e pericoloso. Qualche anno fa questi pinnacoli minacciarono di precipitare a valle, rischiando di arrivare fino al paese. Nel 2018 vennero installati dei fittoni di ferro tra una guglia e l’altra per scongiurare i crolli. Mentre con non poca fatica arranchiamo nel bosco, ecco giungere le parole di Luca ad imporci un bagno d’umiltà: «Questi pendii una volta erano tutti pascoli magri. Si saliva a piedi dal paese per fare il fieno magro da utilizzare come scorta per l’inverno. Questo sentiero lo si percorreva in discesa con la fraschera in spalla carica di fieno». È interessante sapere che spesso la fraschera arrivava a pesare anche più di cinquanta chili!
Il bosco si fa rado e oltrepassiamo una piccola pozza d’acqua per sbucare su un colletto, dove si trova la splendida baita del Corèn Presì (1490m), un vero e proprio nido d’aquila, con la piccola fontana e il balconcino panoramico. Spicca una bella scultura nella roccia che rappresenta una scena di caccia. Scendendo poche decine di metri lungo la traccia che segue il crinale si giunge a un terrazzino roccioso con vista meravigliosa sul Corèn Presì e la vallata. Vale indubbiamente la pena fare la breve deviazione.
Proseguiamo per il sentiero che sale alle spalle della baita, lungo la dorsale. I pini mughi si sono impossessati di questo versante montuoso, diventando il luogo ideale in cui si nascondono galli e coturnici. Fortunatamente il sentiero è stato recentemente ripristinato e ripulito consentendoci di procedere senza tribolazioni. Ci affacciamo sulla Val Sanguigno ed ecco comparire in basso tre camosci. Giusto l’attimo prima di vederli scomparire lesti nella boscaglia. Le pendenze finalmente si addolciscono e raggiungiamo la croce di Bani (1640m), eretta al bordo di un prato incolto. Qui l’erba secca ha assunto una particolare colorazione giallo-sabbia dandoci l’illusione ottica di essere nel deserto.
La croce non è collocata sulla vetta ma molto più in basso, in un punto visibile sia da Bani che da Ardesio. Un ultimo sforzo ed eccoci sulla vera cima (1784m). Nessun segno a celebrare la vetta se non il panorama superlativo: verso Sud si staglia, severa, la costiera rocciosa che dal Monte Secco arriva fino all’Arera; ad Ovest luccicano i Monti Corte e Farno che separano le Valli Seriana e Brembana; verso Nord spiccano le cime della Valle del Goglio arrivando a sconfinare fino al Pizzo Redorta e al Coca, mentre ad Est tornano a predominare le rocce calcaree del Ferrante e del Vigna Vaga. Un bel compendio di geografia orobica da un unico punto d’osservazione.
Rimango molto affascinato dalla dorsale che dalla cima Bani arriva fino al Passo di Zulino, crinale di separazione tra la Val Canale e la Val Sanguigno. Luca racconta che tanti anni fa suo padre aveva aperto un sentiero ma, a distanza di tempo, la vegetazione ha ricoperto il tracciato rendendo il cammino molto complicato. Peccato!
Torniamo alla croce di Bani per imboccare il sentiero che scende al borgo di Bani procedendo in direzione Sud - Est. Il percorso è ben marcato ed evidente, rappresenta la via d’ascesa più frequentata per la cima di Bani. In poche decine di minuti siamo alla baita degli Amici, una sorta di rifugio posto al centro di una radura nel bosco (1476m), realizzato e gestito da un gruppo di volontari di Bani. La calata su Bani (1017) è repentina e consente di raggiungere il borgo in poco tempo. Ci accolgono le case più alte di Bani, di solida pietra rossa (il mio prediletto Verrucano Lombardo) che ci invogliano ad una sbirciatina alle sue viuzze, testimoni di ruralità dal sapore antico. Un salto alla chiesa è d’obbligo per onorare la memoria di don Francesco Brignoli, parroco di Bani dal 1890 al 1934, da tutti conosciuto come ol pret di Bà . È molto affascinante la storia di questo umile e straordinario prete di montagna, capace di leggere nei cuori della gente, che dedicò la vita totalmente agli altri. Bani, a distanza di più di novant’anni dalla morte di don Francesco Brignoli, è ancor oggi meta di pellegrinaggio dei numerosi fedeli seriani.
Il rientro alla miniera di Novazza avviene per la strada asfaltata: un paio di chilometri, privi di traffico, in cui si possono apprezzare i numerosi casolari immersi nel verde dei pascoli. In particolare vorrei segnalare la bellezza incomparabile della località Palva, poco prima della miniera: una cascina posta in una conca pascoliva di rara bellezza e, poco oltre, lo splendido Roccolo di Palva con il suo laghetto. Uno splendido connubio uomo-natura da fare invidia alle più celebri località trentine. Proprio in questo magnifico contesto, per la rassegna musicale «Roccolando…con jazz», il 28 giugno alle ore 16, si terrà un concerto jazz con il Francesco Chiapperini Quartet.
P.S. l’escursione qui descritta è lunga 8,5 chilometri con 850 metri di dislivello positivo. Calcolare tre o quattro ore di cammino. Non presenta difficoltà tecniche ma consiglio l’uso dei bastoncini per agevolare la salita nei tratti ripidi. Suggerisco caldamente una visita al borgo di Novazza.