Si parla spesso di disagio giovanile, ma raramente lo si guarda negli occhi. Quando i ragazzi cercano ascolto, troppo spesso trovano risposte automatiche, distrazioni digitali, diagnosi affrettate o – peggio – nulla. È in quel vuoto affettivo che si formano comunità come quelle degli incel, dove l’isolamento si trasforma in identità e la sofferenza diventa rabbia. Con la psichiatra Sarah Viola abbiamo cercato di capire cosa si nasconde dietro certe etichette e perché l’adulto di oggi – genitore, educatore, società – fa così fatica a guardare e riconoscere il dolore dei più giovani.
Il termine incel, nato nei primi anni Duemila in ambienti anglofoni, ha progressivamente guadagnato spazio nel dibattito pubblico europeo e italiano, grazie anche ai social e alle cronache nere che ne hanno amplificato i risvolti più drammatici. Oggi non è raro che venga utilizzato – a volte con superficialità, altre con allarmismo – per etichettare qualunque adolescente introverso, arrabbiato, chiuso in sé stesso. Ma ridurre tutto a una sigla significa ignorare la complessità del fenomeno.
Come sottolinea Sarah Viola, dietro queste etichette si nascondono dinamiche molto più profonde e trasversali, a partire dall’incapacità del mondo adulto di riconoscere la sofferenza emotiva degli adolescenti. Con la rete che in questo contesto, non è la causa, ma spesso l’unico luogo in cui i ragazzi possono esprimere le loro fragilità e trovare conferme ai loro bisogni di appartenenza, di affermazione, di riconoscimento. Il web in questo scenario diventa allora uno spazio dove l’urgenza relazionale si manifesta in forme nuove, a volte disturbanti, ma sempre più significative.
Chi sono dunque gli incel? Si tratta di soggetti che si definiscono clinicamente incapaci di instaurare relazioni sentimentali e sessuali. Ma cosa può spingere un giovane ad abbracciare questa identità, a riconoscersi in una definizione così radicale?
«Alla base di questo vissuto di esclusione e fallimento vi è spesso una profonda insicurezza personale, legata alla percezione dell’altro — in particolare della donna — come figura che rifiuta o abbandona a priori. Il senso di inadeguatezza, di limite, di non accettabilità da parte dell’altro sesso, ha radici molto profonde: non nasce con l’adolescenza o con l’inizio della vita di coppia, ma si struttura fin dalla prima infanzia – precisa la dottoressa – La sicurezza in sé stessi, infatti, si sviluppa tra i 3 e i 6 anni, nella cosiddetta fase edipica descritta da Freud. È in questo periodo che il bambino si innamora del genitore di sesso opposto».
«Nel caso dell’uomo, questo processo si realizza attraverso il rapporto con la madre: è lei a offrire le prime conferme affettive, quelle che permetteranno al figlio di sentirsi un maschio amabile, degno d’amore, accettato – continua Sarah Viola – Tradizionalmente, questo meccanismo ha sempre funzionato meglio nei soggetti di sesso maschile, perché le madri — a differenza dei padri — sono spesso più presenti, più affettuose, più capaci di confermare l’identità del figlio. Va peggio, storicamente, alle bambine, perché i padri risultano spesso più assenti o distratti».
Ma oggi, sottolinea Viola, le cose stanno cambiando. I ragazzi si trovano di fronte a madri meno presenti, più in crisi, più distratte. In un certo senso, queste madri somigliano sempre più ai padri di un tempo. Meno capaci di dare conferme, meno disponibili emotivamente. Così, i figli maschi crescono con un dubbio precoce sulla propria validità fallica, potremmo dire cioè sulla propria adeguatezza maschile. Quando poi si affacciano all’incontro con l’altro sesso, trovano ragazze molto diverse da quelle che furono le loro madri o le donne delle generazioni precedenti.
«Le ragazze – sottolinea Viola – oggi vengono percepite come più aggressive. Non necessariamente in senso fisico — anche se talvolta lo sono — ma sicuramente meno accoglienti, meno materne. Sono più giudicanti, anche nell’ambito della relazione intima. Questo contribuisce ad accrescere nell’adolescente una sensazione di inadeguatezza. In sostanza, l’insicurezza originaria, insinuatasi nella fase edipica, viene confermata nel rapporto con l’altro sesso: l’uomo fa fatica a sentirsi amato, accettato, non abbandonato. Alcuni ragazzi, allora, decidono di non mettersi affatto in gioco. Altri, che definiamo “narcisisti malevoli”, si mettono in gioco cercando un oggetto di relazione che sia totalmente rassicurante, che li scelga in modo univoco e che non metta in discussione la relazione. Questi soggetti non tollerano l’abbandono, la fine del legame, la possibilità che la donna scelga di lasciarli ».
Sono proprio l’esperienza del rifiuto, l’insicurezza, la bassa autostima e la percezione della propria inadeguatezza a spingere questi ragazzi verso forme di legame fondate su dinamiche che Sarah Viola definisce «compensative»: «Nelle community online, che spesso sono ambienti tossici impregnati di rabbia e misoginia, si attivano dinamiche molto specifiche. L’isolamento, la mancanza di autostima, l’esperienza di rifiuto — che sono in fondo esperienze tipiche dell’adolescenza — diventano il terreno fertile per cercare relazioni basate su quella che possiamo chiamare “medesimezza”: cerco altri come me».
Ma qui c’è il problema: questi gruppi non si fondano sulla volontà di risolvere l’inabilità relazionale, ma sulla sua legittimazione. Il messaggio è: «Non ti vogliono, non è colpa tua, il mondo è ingiusto, le donne sono nemiche». Così il sintomo viene rinforzato, non curato: «Si alimenta una visione paranoide dell’altro — soprattutto dell’altro sesso — come pericoloso, giudicante, nemico, causa di sofferenza. Il gruppo funziona come catalizzatore di un’aggressività crescente, di un senso di inadeguatezza che non trova sbocchi sani e di un bisogno di riscatto che si incanala in direzione autodistruttiva o violenta».
La pillola rossa
Un termine molto usato in questi ambienti è red pill , ispirato al film «Matrix». Prendere la «pillola rossa» significa, in questa narrativa, «aprire gli occhi», «scoprire la verità» sulle dinamiche relazionali, sul mondo femminile, sulla società che «umilia i maschi».
«È una metafora potente, ma pericolosa. Dal punto di vista clinico, si tratta di un radicamento del delirio: è come una rivelazione paranoide. “Io so, voi non sapete. Io vedo quello che voi non vedete”. Questo momento epifanico — in cui si “prende coscienza” di una verità che giustifica la rabbia — è spesso descritto anche nei racconti di femminicidi. “Quando ho capito com’era davvero, allora ho agito.” La pillola rossa è l’apice dell’escalation verso l’angoscia persecutoria e la necessità di sopprimere l’altro come forma di difesa. Ovviamente – ci tiene a spiegare la dottoressa – non tutti gli uomini che frequentano questi ambienti arrivano al passaggio all’atto violento. Ma molti interiorizzano forme più o meno gravi di isolamento, esclusione, misoginia radicalizzata. In alcuni casi, fortunatamente, resta confinata a uno stato mentale. In altri, sfocia in azione».
Internet in tutto questo è sia catalizzatore che amplificatore. Non è la rete a “creare” un narcisista malevolo o un paranoico misogino. Ma se dentro di te c’è già quel nucleo — se hai una predisposizione o una struttura di personalità fragile — allora la rete lo rinforza.
La crisi del maschile contemporaneo
Un aspetto che ricorre spesso è il disagio legato al ruolo maschile oggi. Da un lato, l’uomo non può mostrarsi fragile. Dall’altro, non riesce a trovare uno spazio emotivo legittimo. La pressione sociale incide in modo drammatico sull’identità maschile. «Il maschio è in fuga. Si sente schiacciato da un modello che ancora lo chiama a essere virile, forte, dominante — anche se, oggi, esistono narrazioni più temperate, che valorizzano una mascolinità più riflessiva o persino femminile. Ma il messaggio dominante resta quello: il maschio non deve chiedere mai, non deve piangere, non deve crollare. E se lo fa, non ha diritto di cittadinanza emotiva».
Oggi l’uomo si ritrova davanti a un pubblico femminile che non accetta più il maschile patriarcale e che cerca un maschio più sensibile, aperto, comunicativo. L’uomo vive quindi un momento di crisi e di conflitto, perché ha perso il modello di riferimento. « I padri, che una volta avevano poche idee ma chiare – e cercavano almeno di trasmetterle – oggi sono ancora più in crisi dei figli. Per cui il maschio si trova spesso in una situazione in cui vive come senso di colpa le proprie istanze, anche le più tipicamente maschili che riesce a vivere nella relazione. Ma se rinuncia completamente, si sente fallito anche sul piano dell’immagine maschile. È un momento davvero complesso».
La rete ha tantissimi vantaggi. E i ragazzi, se stanno bene, la sanno usare benissimo. Anche l’algoritmo può essere un alleato. Il problema è, sottolinea Sarah Viola, sempre lo stesso: la funzione genitoriale. «Come possiamo agire? Dobbiamo semplicemente esserci. Ma “esserci” non vuol dire solo comprare scarpe o dire “vai a studiare”. Vuol dire guardare in faccia tuo figlio. Cogliere la sua emozione. Percepire il suo disagio. I nostri figli sono una fucina di energia attiva, che può diventare meravigliosa o distruttiva. Il nostro sguardo è l’unico vero strumento. Ma cosa significa, in concreto, guardare? Significa ascoltare. Ascoltare davvero: le parole, i silenzi, i gesti, le sfumature della voce. Non è difficile se il genitore c’è davvero, se si siede accanto al figlio. Il problema è che spesso il genitore non c’è ».