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Il testamento dell’ortolano: e se ricevessimo in eredità un orto?

Intervista. Domenica 27 aprile alla Casa del Parco Oglio Nord a Torre Pallavicina andrà in scena «Il testamento dell’ortolano», uno spettacolo che esplora il legame profondo e millenario tra l’umanità e la terra, attraverso gli occhi dell’ortolano Adelmo.

Lettura 6 min.
Massimo Barbero in «Il testamento dell’ortolano»

Per me, che sono l’autrice di questo articolo, l’orto è un luogo speciale, un angolo che racchiude un mondo di emozioni e ricordi. È la memoria di un’infanzia passata tra le mani esperte di mio nonno, che coltivava la terra con una dedizione che solo chi sa quanto la vita sia strettamente legata alla terra può comprendere.

La storia che mi lega a quell’orto affonda le radici in un piccolo paesino di montagna, ormai disabitato, dove le famiglie dei miei nonni coltivavano la terra con sudore e speranza. In quei campi si sono incontrati, si sono innamorati, hanno costruito insieme una vita semplice e ricca di fatica e di legami profondi.

Una vita che non fu priva di difficoltà. Mio nonno, che da giovane si era messo al lavoro nei campi, si trasferì a Milano negli anni ’70 in cerca di una vita migliore, ma la terra chiamava e, dopo qualche anno, tornò a casa. La sua passione per l’orto non lo abbandonò mai, e così, con mia nonna al suo fianco, tornarono a coltivare quella terra che, anche se lontana, non aveva mai smesso di far parte di loro.
I miei ricordi di infanzia sono pieni di immagini legate all’orto di famiglia: il nonno che mi sbuccia i fichi d’india, il sapore delle uova fresche che mangiavo prima con lo zucchero e poi, più tardi, con il caffè.

È proprio questo legame che l’ortolano Adelmo ci invita a riscoprire nel suo «Il testamento dell’ortolano», uno spettacolo che andrà in scena domenica 27 aprile alla Casa del Parco Oglio Nord a Torre Pallavicina. Uno spettacolo che non è solo una rappresentazione teatrale, ma la testimonianza di un’eredità fatta di saperi, di tradizioni, di sapori che scompariranno se qualcuno non ne raccoglierà l’eredità.

Abbiamo intervistato Massimo Barbero l’attore che interpreterà l’ortolano Adelmo.

CP: Innanzitutto ti chiedo lo spettacolo in realtà è tratto da un libro, è corretto?

MB: Si tratta di un racconto che è stato anche pubblicato sul libro, un racconto di Antonio Catalano, che è il nostro poeta della meraviglia. Dico “nostro” perché abbiamo la fortuna di averlo nell’astigiano, anche se è un artista di caratura nazionale e internazionale, con una storia più che cinquantennale.
Da questa collaborazione nasce «Il testamento dell’ortolano», trattato drammaturgicamente da Patrizia Camatel (lavorato con Antonio a quattro mani) che lo ha fatto diventare un monologo teatrale, che porto in giro.

CP: Adelmo riceve la terra dai suoi antenati. Oggi sembriamo aver perso il contatto con le nostre radici. Secondo te, cosa ci stiamo lasciando alle spalle, oltre al sapere contadino?

MB: Che grande domanda. Mi verrebbe da dire… ci stiamo lasciando dietro tutto. Perché la saggezza contadina arriva dalle radici. Io ho avuto la fortuna di provenire da una famiglia contadina, cioè dalla parte di mia mamma e di mio papà. Ho avuto poi il mio ultimo zio contadino che è mancato due anni fa e che andavo a trovare per staccarmi dal mondo, e per sentire da lui come vedeva, come filtrava il mondo di oggi.

E quindi per ogni cosa che gli dicevo partiva subito con un detto contadino. Il detto contadino è frutto di anni - se non di più - di conoscenze. Conoscenze che noi apparentemente oggi possiamo avere: abbiamo un cellulare in mano, ci colleghiamo a Internet, facciamo una ricerca in pochi secondi e ci arriva una risposta. Ma la saggezza contadina è un’altra cosa. Sapeva condensare in poche parole tutta una somma di esperienze di vita e darne un filtro, e arrivare ad una soluzione o darne un giudizio sulle cose che è ancora più profondo e più alto. Quindi… è una domanda forse anche un po’ aperta.

Chi non riesce a ritrovare, chi non riesce ad avere un contatto con questo, perde tantissimo secondo me. E poi la saggezza contadina era anche legata al fatto che i contadini sapevano, sanno fare tutto. In qualsiasi cosa che gli capita lo sanno aggiustare, sanno trovare… sanno guardare il cielo e dire, in base al tempo che fa, e prevedere il tempo che farà. O in base alla stagione… sanno guardare verso il cielo. Quindi io son contento di aver ritrovato la mia radice contadina. E non saprei farne a meno, diciamo. Non trovo le stesse risposte sul web, insomma.

CP: Te ne viene in mente uno di questi proverbi, così al volo?

MB: Innanzitutto, c’è il proverbio che viene citato nello spettacolo, che è quello che ripeto un po’ sempre, che è quello che «Un contadino non smette quando è stanco, ma smette quando ha finito». Che è una cosa incredibile. Mi ricordo che, quando stavamo costruendo lo spettacolo, a fianco al racconto di Catalano che era un racconto un pochino più fantastico, abbiamo pensato di andarci a mettere appunto a recuperare delle conoscenze, dei detti, delle cose che avevamo sentito dire. Quindi abbiamo fatto anche un lavoro un po’ antropologico, di inserirci dentro, di fare un mix. E quando lo racconto non si capisce dove finisce la fantasia e dove invece c’è la verità.

CP: L’orto nel tuo spettacolo è definito e considerato un luogo magico. Ma nella concretezza della vita reale è fatica. Quindi cosa può insegnarci concretamente oggi l’essere ortolani?

MB: Innanzitutto a chi si avvicina a questo mondo, insegna a distinguere una verdura o un frutto vero dell’orto da quello che invece troviamo nei grandi supermercati o in giro. E quindi anche capire che i pomodori, ad esempio terra terra, in inverno è un po’ difficile che nascano in un vero orto.

Quindi anche a collocare al giusto tempo le cose, e anche accettare che durante alcune parti dell’anno certe cose non ci siano. E poi, come hai detto tu, ad avere cura. Perché l’orto è un luogo di cura, nel doppio senso della parola. Di cura nel senso che se non curi l’orto purtroppo non produrrà. Ma è anche un luogo di cura per se stessi. Perché è un luogo in cui curare la propria vita, nel senso di ritrovare appunto il legame con la natura e la terra, che io credo che sia benefico. È un fatto fisiologico, non siamo programmati per stare tutto il giorno davanti a un computer.

CP: Viviamo in un’epoca in cui siamo capaci di programmare una macchina, ma non sappiamo riconoscere una pianta in sofferenza. Non sappiamo il nome degli alberi. E siamo totalmente disconnessi dalla natura che ci circonda. Come siamo arrivati a disinteressarcene, secondo te?

MB: Perché come siamo arrivati? Ma forse perché abbiamo pensato di inseguire altro. Cioè, di diventare apparentemente più saggi, quindi di studiare, di abbandonare le campagne e di abbandonare anche il nostro modo di parlare. Io mi ricordo che da piccolo i miei hanno cercato un po’ di togliermi l’eventuale dialetto, ad esempio, che di solito nelle case si parlava. Disconoscere questo è un po’ la stessa cosa. L’uomo cerca di “evolvere” ma a me sembra più un’involuzione. Io ho la fortuna ora di poter abitare in campagna. Sebbene sia nato in una cittadina, in un piccolo grattacielo, a un certo punto ho scelto di tornare in campagna.

CP: Per quanto riguarda invece il tuo spettacolo, avete scelto di rivolgervi al pubblico dei bambini. Quanto è importante, secondo te, trasmettere il sapere, il “testamento” dell’ortolano, alle generazioni più piccole?

MB: Siamo partiti dal pubblico dei più grandi. Non so perché, forse perché ci sentivamo più protetti in questa cosa. Quando uno costruisce uno spettacolo, non sa bene dove andrà a finire, anche se magari si dà un obiettivo, un target di età. Quello è successo anche qua, in forma inversa. Siamo partiti con uno spettacolo che pensavamo potesse essere solo per adulti e invece, facendolo — quindi già portandolo un po’ in giro, con qualche replica — abbiamo cominciato a capire che questi contenuti si rivolgevano al mondo dei bambini. Ho cominciato a sperimentarlo nelle scuole.

CP: E come reagiscono?

MB: Loro sono i detentori della meraviglia. I bambini nascono con la meraviglia. È colpa nostra se poi, crescendo, la perdono. Sono gli adulti che gliela tolgono, che cercano di incasellarli, dicendo loro cosa devono fare, come devono pensare. Io ho sempre avuto la fortuna di avere pubblici bellissimi, anche misti.

CP: Secondo te, l’orto può diventare uno spazio di resistenza culturale? Un modo per rallentare, per recuperare azioni, identità, memoria?

MB: Assolutamente sì. Con grandissima convinzione. È un luogo di questo tipo. E non a caso, forse, sono approdato anche a questa idea, a questo spettacolo. A parte che, per me, questo spettacolo chiude una specie di trilogia: nei due monologhi precedenti avevo già parlato di natura e del rapporto tra uomo e animale. Quindi è un approdo naturale. Ed è senz’altro un luogo, un bel luogo, di resistenza. Per chi lo sa apprezzare. Per chi lo sa vedere. Non è per tutti, ovviamente. Non è per chi non si vuole sporcare le mani. Magari non è consapevole, ma bisognerebbe cercare di instradarlo.

CP: Come si articola la rappresentazione?

MB: Io interpreto me stesso. Nel senso che interpreto una persona che potrebbe avere quarant’anni, cinquant’anni, più o meno come me. E durante lo spettacolo racconto di due generazioni: quella di mio padre e anche quella di mio nonno. Anche se il nonno lo si svela solo alla fine: si scopre che c’era anche lui, prima del padre, a fare il contadino.

E racconto ricordando quello che mio padre mi ha insegnato. Mi portava nell’orto, cercava di farmi conoscere le verdure, come erano fatte, che faccia avevano, per riconoscerle. E poi racconto anche una serie di episodi vissuti con lui.

Ed è un po’ anche questo: il fatto che questo personaggio - cioè, io - abbia ricevuto in eredità un orto. All’inizio non sapeva che farsene. Ne aveva parlato con un vicino, che l’aveva anche preso un po’ in giro. Tra l’altro, questo vicino non lo sa, ma noi abbiamo immaginato che fosse mio zio, che è mancato. Io avevo questo cliché del contadino burbero - e mio zio lo era: non le mandava a dire, soprattutto a quelli che non sapevano niente di orti.

Però, pian piano, scopro la ricchezza che c’è in questo orto. E quindi alla fine si chiude questo cerchio tra generazioni. E si ha la fortuna che ci sia ancora - come dicevi tu prima - una speranza che la nostra generazione possa tornare davvero agli orti, alla natura.

Ce lo auguriamo.

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