Per capire l’impatto delle differenze di genere nel linguaggio, voglio partire da un esempio lampante che mi sta capitando proprio mentre scrivo questo articolo. L’editor che utilizzo per digitare le parole, mi suggerisce di modificare la parola prorettrice evidenziando un errore e suggerendomi di sostituirlo con “prorettore”.
Ma è più corretto scrivere “prorettrice” o “prorettore”? E soprattutto questa apparente dicotomia ha senso? Lo abbiamo chiesto alla professoressa e linguista Piera Molinelli che insieme alla psicologa e psicoterapeuta Silvia Stanga ha scritto il volume «Scrivere bene per includere…meglio» edito da Cesati e che suggerisce un cambio di prospettiva.
I l dibattito mediatico sulla linguistica, l’uso della schwa e questioni simili ignora completamente altre tematiche che invece sono di assoluta urgenza. Ci sono aspetti che riguardano la diversità nel suo complesso, le neurodivergenze che non possono essere più trascurate.
Come deve essere ad esempio formattato un testo affinché una persona con dislessia sia facilitata nella lettura? E come deve essere scritto un testo della pubblica amministrazione perché sia comprensibile a tutti, tenendo conto delle identità plurali che popolano i contesti pubblici anche e soprattutto nell’esercizio di diritti e doveri?
CP: Parto con una curiosità personale. Il suo manuale ha messo in crisi le mie posizioni, perché ho sempre pensato che l’attenzione al testo, anche nei messaggi, in un’epoca dominata dalla fretta, fosse una forma di premura nei confronti della lingua italiana. Leggendo il suo libro, però, sembra che questo atteggiamento di “riverenza” verso il linguaggio sia legato alle differenze di genere. Che ne pensa?
PM: Penso che non sia sbagliato, ma non è l’unica ragione. La scrittura veloce, quella tipica dei social, ad esempio, cerca effettivamente di andare dritta al punto. Dal mio punto di vista, però, è corretta solo se si adatta all’interlocutore. Non esiste una scrittura universale, ma ogni scrittura deve avere come obiettivo l’ascoltatore. Se il destinatario è un giovane, probabilmente la scrittura rapida e diretta al punto è adeguata. Non parlerei quindi di giusto o sbagliato, ma di adeguatezza al contesto e all’interlocutore.
CP: Nel libro c’è un passaggio che spiega come le donne tendono a rifiutare il dialetto. In questa interpretazione alcune espressioni linguistiche sono inquadrate come delle “carinerie” che riflettono una sorta di sudditanza nei confronti del genere maschile. Può approfondire questo passaggio?
PM: Come lei ha giustamente detto, quella parte è un’interpretazione scientifica, un’osservazione legata allo stile linguistico che viene tradizionalmente associato al genere femminile. Non volevamo giustificare o validare questa visione, ma era una citazione dalla letteratura scientifica, soprattutto anglosassone, che si occupa di sessismo linguistico. Abbiamo cercato di evitare di entrare troppo in tematiche di genere, ma era comunque importante riportare queste osservazioni.
CP: A questo punto, visto che l’argomento è stato sollevato, non posso non chiederle: qual è la sua opinione sull’uso della schwa e di altre forme neutre, come l’asterisco?
PM: L’uso di questi elementi grafici come lo schwa e altri che sono stati via via prodotti, al di là della mia opinione personale in merito, non siano risolutivi. Io penso che tutto ciò che nella lingua non mette alla pari l’oralità e la scrittura, deve essere oggetto di attenzione. Anche l’esperimento che abbiamo fatto con circa 86 studenti di prima liceo ci ha dimostrato che tutto ciò che crea ostacolo alla comprensibilità perché trovo un inciampo, non viene approvato perché c’è un discorso ideologico di presunta parità di genere. Questi mezzi linguistici non sono la vera risposta ai problemi, al contrario la valorizzazione di tutti i generi o la neutralizzazione del genere, può essere efficace, soprattutto per chi scrive per un ampio pubblico. Associare dei ruoli alla lingua è, in questo senso, discriminatorio.
CP: Quali sono dunque le principali sfide della necessità di adattare la lingua italiana a un contesto che sia il più possibile inclusivo?
PM: L’inclusività di genere è un aspetto a cui prestiamo attenzione quando ci poniamo in dialogo con un largo pubblico, è una questione di atteggiamento sociale. L’inclusività dal punto di vista dei disturbi del neurosviluppo ci impone di tenere conto delle capacità cognitive. Quello che a noi è sembrato urgente è il tema della comprensibilità e della leggibilità di quello che noi diciamo e scriviamo. Ad esempio neutralizzando le difficoltà di un testo che siano di formattazione o di disposizione della frase, usando forme come “la comunità studentesca” invece che “studenti e studentesse”. In questo contesto è indispensabile interrogarsi sulla composizione del pubblico e avere una scrittura che tenga insieme le diverse difficoltà. Abbiamo dei software che ci aiutano a capire se un testo è di difficile comprensibilità.
Un testo ideale dovrebbe avere frasi comprese tra le 20 e le 25 parole e evitare parole troppo lunghe. Un esempio è quello delle parole derivate da verbi, come “responsabilizzazione”, che è molto più complesso di “dare responsabilità”. Ci sono una serie di accorgimenti che possiamo adottare per rendere un testo più leggibile e comprensibile, e questo annulla effettivamente le ragioni delle differenze.
CP: Spesso, quando si parla di inclusività e accorgimenti linguistici, spesso si richiama la libertà di espressione. Qual è la sua posizione in merito?
PM: La libertà di espressione è un concetto diverso: riguarda il diritto di un individuo di esprimersi come preferisce, ma senza considerare chi sarà l’ascoltatore o il lettore. Il problema sorge quando un singolo si rapporta a un altro. Per esempio, nella mia aula di studenti, posso usare un linguaggio più diretto, avendo di fronte persone che hanno seguito un corso per diversi mesi. La mia libertà di espressione mi consente di dire ciò che ritengo importante, in modo rapido e meno controllato. Tuttavia, se voglio che le stesse cose siano comprese da una persona comune, ad esempio un cittadino a cui scrivo un testo, devo spiegare le ragioni e rendere il contenuto accessibile. Quindi, in quel caso, la libertà di espressione non è più sufficiente, poiché si deve coniugare con l’obiettivo di far arrivare il messaggio in modo chiaro agli altri. In sostanza, un testo deve essere scritto pensando all’ascoltatore o al fruitore, piuttosto che alla volontà di chi scrive.
CP: Il dibattito sul linguaggio inclusivo ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni. Secondo lei, quali sono i fattori che hanno contribuito ad aumentare la sensibilità su questo tema, soprattutto in riferimento al genere?
PM: Uno dei principali fattori è stato l’incremento della presenza femminile in vari settori della società, che prima era meno visibile. Le donne sono oggi più presenti nell’ambito della comunicazione, dell’educazione e dell’industria e questo ha portato a un cambiamento nella dinamica linguistica e relazionale.
Gli studi ci dicono che la capacità femminile di costruire un dialogo uno a molti è più forte rispetto a quella maschile, che tende a concentrarsi più su relazioni uno a uno, esplicitando in modo più evidente il potere. La presenza femminile in vari segmenti della società ha favorito la diffusione di una comunicazione più inclusiva e solidale. Questo fenomeno non riguarda solo il nostro paese, ma attraversa diversi paesi, in particolare quelli europei.
CP: Quali suggerimenti, anche se il libro ne è pieno di esempi, darebbe concretamente a chi lavora nella comunicazione, come giornalisti o social media manager, per adottare un linguaggio più inclusivo?
PM: La prima cosa da fare è scrivere senza vanità. Molti giornalisti scrivono in modo vanitoso, centrando il proprio stile sulla propria figura, piuttosto che sul contenuto o sul lettore. Questo approccio non favorisce la chiarezza e l’accessibilità del messaggio.
Un giornalista, ad esempio, è spesso alla ricerca di un proprio stile, ma questo deve essere sempre al servizio della chiarezza e della comprensione da parte del lettore. Se scrivi per un giornale specifico o per un commento a notizie particolari, è chiaro che la ricerca dell’individualità del giornalista diventa più rilevante. Tuttavia, il consiglio che darei è questo: pensare sempre a chi è il proprio pubblico.
Chi legge principalmente quello che il giornalista scrive? È importante fare dei test, magari piccoli campioni, per capire quanto il pubblico riesca a comprendere quello che scrivo. Bisogna avere la volontà di cercare di avvicinarsi al pubblico ideale, cercando di essere sempre più essenziali. Questo non significa, ad esempio, che se scrivo per un pubblico con competenze linguistiche basse, come può essere un non madrelingua, io debba semplificare in modo eccessivo. Il problema del giornalista, secondo me, è legato al tipo di pubblico. È chiaro che un giornalismo di diffusione quotidiana, che scrive in modo veloce e diretto, sarà diverso da chi scrive un approfondimento politico o scientifico.
CP: Le faccio l’ultima domanda. Il linguaggio, plasmando il pensiero, può contribuire a una società più inclusiva. Ma secondo lei, tenendo conto delle posizioni ideologiche dei leader che oggi ricoprono le cariche pubbliche, il cambiamento culturale dovrebbe avvenire prima della trasformazione linguistica?
PM: Non credo che ci siano cambiamenti eclatanti o improvvisi. Si tratta di un processo che avviene gradualmente, attraverso diverse azioni. Per esempio, una donna che sceglie di mantenere un nome maschile per ricoprire una carica pubblica, a mio avviso, rappresenta comunque un’espressione di libertà. Il fatto che ci siano due possibilità, quella di utilizzare il femminile e quella di utilizzare il maschile, è un’espressione di libertà. Quello che credo possiamo fare noi, come docenti o come professionisti, è contribuire a questa costruzione della libertà. Sono molto fiera di aver contribuito alla revisione dello statuto della nostra università, stabilendo principi fondamentali, tra cui quello della libertà. Poi, come gruppo di lavoro, abbiamo cercato di suggerire formulazioni che attenuassero l’eccessiva polarizzazione dei termini sul maschile. Sono molto fiera del fatto che i primi due articoli dello statuto stabiliscano principi irrinunciabili, inclusa la libertà. Quando mi chiedono se preferisco essere chiamata prorettrice o prorettore, rispondo che non mi importa, purché ci sia la possibilità di utilizzare entrambi i termini. Sono figlia di un’epoca in cui questo tema non era così al centro, ma non ho vissuto come un trauma la possibilità di essere chiamata “professore” o “professoressa”.
Alcuni settori, però, come quello dell’ingegneria, mostrano ancora una certa resistenza, e per alcune donne, “ingegnera” suona come una parola scomoda. Ma da questo punto di vista, non possiamo pensare che tutto derivi da una rivoluzione. Si tratta di piccoli passi che si portano avanti nella quotidianità.
La cosa più importante è dare a tutti le stesse opportunità: alle ragazze di lavorare, per esempio. Non sono la prima donna della mia famiglia ad avere una carriera professionale; anche mia madre lavorava. Credo che oggi questo stia entrando nella nostra società come un’opzione valida. Non siamo ancora arrivati all’opzione in cui l’uomo sta a casa e la donna lavora, ma probabilmente non lo siamo nemmeno economicamente. Questo è anche un tema privato, ma sta cambiando.È una questione di libertà di espressione, ed è questo che conta. Il senso del mio libro è che la mia libertà di espressione non deve mai andare oltre la capacità o la possibilità degli altri di capire quello che scrivo o dico, soprattutto quando si tratta di scrittura di servizio.
Ecco, la questione è questa: se io sono una banca e scrivo a un utente, è diverso se scrivo “gentile” signora Carmen rispetto a “gentile cliente”. La seconda costruzione stabilisce una relazione più immediata e diretta. Questo è un obiettivo che mi pongo. Ma se sono un comune o un’istituzione, non è una scelta stilistica, è un dovere istituzionale cercare di essere il più possibile chiari. Un altro esempio: negli uffici, le firme non sono mai chiare. Non c’è solo un addetto, ma più persone. Se nessuno firma un documento, non si capisce chi è responsabile del messaggio, e questo non va bene. Ci sono una serie di piccoli accorgimenti che possono fare la differenza in termini di inclusione e di gestione di difficoltà di comunicazione.