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Paolo Capelli, l’orologiaio di Bergamo che ci insegna il valore del tempo

Articolo. La storia dell’artigiano che da 40 anni ripara orologi nel cuore della città: un mestiere antico, un’eredità di famiglia e un modo unico di dare dignità al tempo

Lettura 6 min.
Paolo Capelli

Quando ho conosciuto Paolo Capelli stavo scendendo lungo una via, senza una meta precisa. Ero alla ricerca di un orologiaio, ma quello che mi segnalava Google Maps era troppo lontano da dove mi trovavo, così ho rinunciato e mi sono messa a pedalare senza meta. Poi, quasi come se il destino avesse deciso per me, l’ho notato mentre scendevo, proprio sulla sinistra. Una bottega minuta, con un cartello affisso alla porta che recitava: «entrare uno per volta».

La porta era socchiusa. Ho varcato la soglia, ma in quell’attimo una signora si è infilata dietro di me, cercando di entrare insieme. Lui, senza alzare troppo lo sguardo, ha detto piano ma deciso: «Si fa una cosa per volta». Mi sono scusata, ho sorriso, gli ho detto che non avevo fretta. E che quella mattina ero di riposo, proprio per rassicurarlo. Poco dopo gli ho spiegato che dovevo sostituire il cinturino del mio orologio al quarzo.

Mi ha mostrato diversi cinturini. Li avrei voluti tutti, perché ognuno sembrava dare al mio orologio un carattere diverso. Alla fine ho scelto un marrone, caldo come il legno delle pendole che riempivano le pareti. «Aspetta fuori, ci metto cinque minuti», ha detto. E così sono rimasta sull’uscio. Ho osservato ciò che mi circondava: lo spazio era ristretto, ma non soffocante. Era pieno di orologi a pendolo che sembravano portare addosso il peso delle loro storie senza esserne appesantiti.

Sul banco, una lente d’ingrandimento e tante scatoline piene di ingranaggi minuscoli, come semi d’oro. L’orologiaio aveva capelli ricci e biondi e quell’aria un po’ ribelle e insieme gentile, di chi vive il proprio mestiere come parte integrante della sua identità. «Questo lavoro è il mio mondo», mi avrebbe confidato poco dopo. «Quello che pesa non è il tempo che ci dedichi, ma la responsabilità di lavorare in proprio. Io però non potrei fare altro: questo mestiere è stato la mia scelta sin da ragazzo».

L’orologeria sulla strada

La bottega non è nascosta in un cortile, né protetta da pareti invisibili. È lì, sulla strada, in via Guglielmo D’Alzano a Bergamo. Una scelta precisa, che fu del padre. Nel 1977 aprì l’attività, raccogliendo l’eredità del nonno calzolaio.

«All’inizio mio padre non voleva che facessi questo lavoro», racconta Paolo. «Diceva che era troppo presto, voleva che andassi a scuola. Ma io non avevo voglia di studiare, ho sempre avuto la mania di smontare tutto e riparare qualsiasi cosa, che fossero le prime macchinine elettriche o le bici dei miei amici, e mi sono impuntato. Così mi ha portato qui a lavorare. Mi ricordo come se fosse ieri il mio primo giorno di lavoro, 4 settembre 1985. Il primo orologio che ho riparato era un cucù, ancora funzionante».

Lui è nato nel 1971, suo padre nel 1941. «Siamo nati lo stesso giorno, il 17 marzo. Dal 1985 fino al 2011, quando è mancato, abbiamo lavorato sempre a gomito a gomito. Con il senno di poi, è stato bello avere il papà così vicino. Certo, col suo carattere: nonostante mi avesse dato responsabilità, se qualcosa non andava bene, me lo diceva subito, non mi ha mai trattato come figlio, ma come dipendente. Niente favoritismi. Dovevo imparare così», prosegue Paolo.

Era un apprendistato fatto di pazienza e rigore. Mentre altri ragazzi inventavano continue scuse per svincolarsi dal lavoro, lui restava lì, a osservare le mani del padre che smontavano e rimontavano meccanismi minuscoli. «Sono cresciuto così. E oggi mi accorgo che quella scuola era molto più di un lavoro perché lui voleva che lo osservassi per imparare un metodo. In questo lavoro ci sono cose che più che spiegarle a parole devi osservarle, capire i meccanismi di funzionamento».

Gli aneddoti non si contano. Uno resta scolpito: «Stavo montando un perno di una pendola francese dell’Ottocento. Ho fatto troppa pressione e si è spezzato. Ci rimasi malissimo. Mio padre lo ricostruì, me lo ridiede, e io, rimontando, spezzai il perno di un’altra ruota. A quel punto mi disse: “Per oggi hai finito, vai a farti un giro. Ci vediamo domani”. Era un insegnamento: non avere fretta, rispetta il tempo». Una frase più di tutte mi ha colpito, quando gli ho chiesto di raccontarmi del rapporto con suo padre. Non la dice con leggerezza, e nemmeno con retorica: la dice con un’emozione che si vede negli occhi. «Mio padre mi ha creato», sussurra. Non intendeva solo dire che gli ha dato la vita, ma qualcosa di più radicale: gli ha trasmesso il mestiere, la disciplina, il modo stesso di guardare il mondo.

La forza di questa orologeria è proprio quella di essere rimasta sulla strada. A differenza di tanti colleghi che negli anni Ottanta hanno scelto di vendere oro e gioielli, lui ha resistito. «Era più semplice vendere oro e orologi, soprattutto negli anni ’80 e ’90, piuttosto che ripararli. Riparare un orologio non è come vendere un oggetto. Per riparare un orologio bisogna smontarlo fino all’ultimo ingranaggio. Ogni microcomponente va disposto sul banco, in ordine, pronto a ritrovare il suo posto. E capisci, già la tua presenza qui, pur gradita, ha interrotto un fragile equilibrio di concentrazione. Se tu uscissi adesso, non riuscirei più a recuperare l’attenzione che avevo venti minuti fa. Questo lavoro dovrebbe essere svolto in una stanza chiusa a chiave, isolata da ogni distrazione».

Gli orologi sono cambiati, la gente anche. «Quando ho iniziato, la gente si accontentava che un orologio segnasse l’ora in modo approssimativo», racconta. Non era un dramma: ci si orientava guardando il cielo, ascoltando l’ora esatta alla radio, osservando i campanili o persino aspettando il telegiornale della sera. Bastava avere un riferimento, un punto fermo nella giornata. Oggi invece no. «Le persone pensano che tutto funzioni come al supermercato, aperto tutti i giorni. Pretendono la precisione assoluta, come quella a cui ci hanno abituati i computer. Ma un meccanico non è un computer: vive di una molla, del polso di chi lo porta. È un corpo che respira». L’orologio meccanico non è mai stato un oggetto inerte, ma un compagno che scandisce i nostri gesti quotidiani. Se lo porti con calma, lui cammina con calma. Se ti muovi di più, lui prende energia. È un organismo delicato, che non segue la logica della tecnologia digitale, ma quella più intima del movimento umano.

In questo rapporto con il tempo si riflette anche il cambiamento della società: da una vita scandita da ritmi lenti e da punti di riferimento condivisi si è passati a una corsa incessante verso la perfezione, in cui l’attesa non è più contemplata. Sorride mentre lo racconta, ma dietro si avverte una nota di stanchezza. «La gente pretende risposte immediate, è quello che ci si aspetta da una attività posta sulla strada dove suoni ed entri. Non ci sono pareti divisorie a proteggerti. Per questo, negli ultimi anni, ho cambiato metodo: chiudo alcuni giorni per dedicarmi esclusivamente alle riparazioni, programmo meglio. È l’unico modo per garantire che quello che prometto venga portato a termine. Non è una mancanza di disponibilità, ma un segno di rispetto: verso i clienti, che ricevono un lavoro fatto bene, e verso me stesso, che non posso essere sempre in allerta».

Ed è stato il tempo stesso a metterlo alla prova. Perché ci sono momenti in cui non basta la pazienza, e nemmeno la passione. Momenti in cui il lavoro e la vita si piegano sotto il peso degli eventi. Uno di questi è stato l’alluvione di un anno fa. «Mi sono trovato cinquanta centimetri di fango in garage. Ho chiuso una settimana. Sono rimasto senza auto per due mesi. Alcuni clienti non capivano, si arrabbiavano. Altri invece mi telefonavano per chiedere se avevo bisogno di una mano. È lì che capisci la differenza tra chi ti tratta come un servizio e chi ti considera una persona».

Il tempo che resta

In quarant’anni di lavoro, in questa via, è cambiato tutto: le vetrine, il modo di proporsi e anche i linguaggi: «Quando sono arrivato qui, si parlava in bergamasco: c’era quasi difficoltà a capirsi. Adesso sembra quasi di dover parlare più inglese che italiano. Negli anni Settanta sembrava che il quarzo fosse il futuro: preciso, economico. Ma le grandi maison hanno mantenuto la tradizione meccanica». Ma cos’è che determina il valore di un orologio? Oggi un orologio può costare da 6mila a 50mila euro, spesso più per marketing che per la meccanica. « Un orologio di pregio degli anni Ottanta costava tre milioni di lire: oggi vale 10mila euro. Altri modelli, che all’epoca costavano 15 milioni, oggi non valgono nulla. È questione di prestigio, di storia. Io non mi emoziono davanti al valore economico. Ho più soddisfazione nel riparare un orologio arrugginito e ridargli vita. Ho riparato orologi dell’Ottocento ripristinando il suono e le melodie originarie, un’emozione indescrivibile», spiega ancora Paolo.

Mi mostra i meccanismi su cui opera, alcuni necessitano di lenti speciali solo per essere guardati, figuriamoci per essere maneggiati e riparati. Mi spiega come smonta un orologio per ricostruire il perno più sottile di un’unghia che regola il meccanismo di rotazione dei giorni. «Ho dovuto fare diverse prove, diversi tentativi, perché il perno si inceppava e quindi per alcuni giorni scattava il giorno successivo e per altri si inceppava. Per sistemarlo mi sono inventato una sorta di cappuccio che andava a compensare quel nulla che mancava. Ma quel nulla, è davvero un nulla, qualcosa che a occhio nudo sembra davvero invisibile, eppure è determinante per ripristinare il funzionamento di tutto l’orologio».

Dentro quella bottega, il tempo non è un nemico da battere. È un compagno di viaggio, un alleato silenzioso che scandisce ogni gesto. «Per me il tempo è prezioso, ma non sono ossessionato. È quello che mi serve per arrivare dove voglio, per fare bene le cose. Non è mai sprecato se porta ad un risultato». Eppure, al di là degli ingranaggi e delle molle, c’è qualcosa che resiste. «Quando si affermò il quarzo sembrava che fosse il futuro, ma poi le marche di lusso sono tornate agli orologi meccanici. Un orologio meccanico non sarà mai perfetto, ed è questa la sua bellezza».

Così, mentre fuori le persone corrono, dentro la bottega il ritmo resta quello di un mestiere antico. E l’uomo dai ricci biondi lo sa bene: ogni giorno, dietro il suo banco, nel silenzio che scandisce la sua concentrazione, resta la verità più grande e il segreto del suo mestiere: quello che conta non è far ripartire il tempo, ma restituirgli dignità. «Se mi chiedi come siamo arrivati fin qui, la risposta è semplice: ci abbiamo dedicato una vita intera. Ho avuto la fortuna di incontrare una persona che aveva frequentato la scuola di orologeria per cinque anni e che si era specializzata nella riparazione di un solo calibro di orologio. Lei lavora a Zurigo. Quando ha visto come lavoro, mi ha domandato come avessi fatto a maturare tutte queste conoscenze. Gli ho risposto: con quarant’anni di esperienza sul campo».

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