«Prometeo» è, etimologicamente, colui che guarda oltre, verso il futuro. Oggi, però, per raccontare una bella storia attorno a questo mito antico, guardo indietro. Era il 2015 e scoprivo la bellezza di provare a fare teatro; accanto a me, sul palco dell’oratorio, c’era Erica Nava. Oggi Erica è un’attrice diplomata all’Accademia del Teatro Stabile di Torino e, con i suoi compagni di triennio, ha fondato una compagnia, i Potenziali Evocati Multimediali (PEM), diretta da quello che durante gli anni della scuola è stato loro maestro, Gabriele Vacis. Succede che Erica torna a casa, nella sua Bergamo, con il carico degli anni torinesi, portando in scena al Teatro Sociale una delle più belle tragedie di Eschilo.
Maria Grazia Panigada, direttrice artistica della prosa del Teatro Donizetti, le ha anche affidato ventuno incontri in nove scuole secondarie di secondo grado. «Erica, prima di entrare in Accademia, è stata un’attrice del “Progetto Young” del Donizetti; per me è bellissimo vederla ritornare in questa veste, avendo realizzato un sogno – mi racconta – Per il Teatro Sociale ho scelto “Prometeo” perché la sospensione di tempo e di spazio che dà l’opera di Eschilo ci permette di appartenere ancora di più a quello che si sta dicendo. Il fatto che sia resa da un gruppo e una compagnia giovane ha un significato ancora più potente: le parole vanno dal passato all’oggi, ma questi giovani ci dicono che varranno anche per il futuro». I PEM, tutti attori under 30, sono diventati quindi veri testimoni di quello “scoprirsi raccontati” in un testo antico.
Oggi io insegno lettere e, anni dopo, la mia strada torna a incrociarsi con quella di Erica in queste righe di intervista. Ci siamo ritrovate professionalmente accomunate dal desiderio di riuscire, sempre di più, a trasformare i contenuti in storie. E trasmettere la gioia di ritrovarsi nella vita degli altri.
CDM: Perché, secondo te, il teatro a scuola? Perché le scuole a teatro? Qual è il valore?
EN: Io credo che il teatro e la scuola si assomiglino perché sono gli unici posti rimasti in cui chi parla può ascoltare chi ascolta. Un attore o un’attrice, per fare bene il suo lavoro, ha bisogno di essere in relazione con il pubblico; in fondo, è questo il motivo per cui nei nostri spettacoli teniamo sempre la luce accesa in sala: intercettare sguardi a cui raccontare. Non è forse la stessa cosa che fanno gli insegnanti?
CDM: Tempo fa mi hanno regalato un libro: «Il corpo è docente». Credo racchiuda una grande verità: si è testimoni anche con le azioni, nella relazione, a prescindere dalla voce. E questo credo sia alla base del tuo lavoro da attrice.
EN: Sapere chi hai davanti cambia tutto. Al Teatro Sociale abbiamo portato «Prometeo» quattro volte: due mattine ai ragazzi e alle ragazze delle scuole, e due sere, al pubblico che ci ha dato fiducia. Quando siamo sul palco per i più giovani, non possiamo non considerarlo e cerchiamo di rendere lo spettacolo su misura. Il «nostro» Prometeo prevede in scena la presenza di Gabriele Vacis, nostro maestro e regista, voce narrante, talvolta pedagogica, della nostra azione performativa. Tra le date della mattina e della sera, non solo era diverso l’inizio dello spettacolo, ma anche quanto detto da Gabriele stesso: tante volte non sappiamo cosa aggiungerà o cosa toglierà, ci mettiamo insieme a lui in ascolto delle reazioni della platea.
CDM: Puoi farci un esempio concreto?
EN: Ripenso alla prima mattina. In prima fila, a un certo punto, un ragazzo si è addormentato; era impossibile per noi non accorgercene. Ecco che allora Vacis ha sentito la necessità di legittimare quel suo particolare “stare” a teatro. Improvvisamente ha aperto un excursus sull’utilità del teatro nell’antica Grecia, che aveva sì un ruolo formativo, ma anche di pausa dalle fatiche quotidiane e, quindi, di riposo. Per noi questi interventi aggiuntivi non diventano problemi, ma risorse con cui interagire nel «qui e ora». I ragazzi portano su quelle poltroncine una vita che il teatro spesso si dimentica.
CDM: È una frase forte. Perché dici così?
EN: Qual è il valore aggiunto del teatro oggi rispetto alla comodità del proprio letto e all’immediatezza di Netflix? Il teatro ci aiuta a fare cultura e non intrattenimento. L’alta risoluzione del cinema fa in modo che possiamo addirittura percepire i pori della pelle di Zendaya o Timothy Hutton; li sentiamo vicini ma, mentre li guardiamo, chissà dove sono e cosa stanno facendo. Ecco, in teatro, le ragazze e i ragazzi sanno che noi siamo lì, in carne e ossa, per loro.
CDM: A proposito di carne e ossa, nel vostro spettacolo il contatto fisico ha grande rilevanza…
EN: Il contatto fisico è parte essenziale della nostra narrazione. I ragazzi che interpretano Prometeo sono a torso nudo, spesso ci parliamo a distanze molto ravvicinate, ci abbracciamo, ci tratteniamo. Noi sappiamo che, così facendo, creiamo reazioni e commenti, tanto più espliciti quanto il pubblico è più giovane. Queste sono le situazioni in cui, tendenzialmente, in sala, i professori intervengono con un fragoroso «sshhhh». A noi piacciono quei momenti: sono reazione spontanea e vera, partecipazione.
CDM: Tra voi, in scena, emerge forte l’importanza dell’azione corale; il gruppo diventa quasi scenografia di sé stesso.
EN: Vedere un gruppo di giovani che fa una cosa insieme credo sia una delle ricchezze del nostro spettacolo. È segno che c’è un’altra possibilità, un’alternativa, rispetto all’essere la personalità di spicco. Prometeo è rappresentato da tre ragazzi, non da uno solo. Oggi, invece, persino negli sport di squadra si pone l’attenzione su chi primeggia. Noi vogliamo essere testimonianza che, insieme, si può emergere più che da soli. Uniti, tra noi, ma anche con Gabriele, che appartiene a un’altra generazione ed è stato nostro maestro. C’è relazione, rispetto, dialogo: solo se ci si mette in ascolto di chi ti precede si può andare lontano.
CDM: Con i ragazzi non si può fingere, se ne accorgono subito. Capiscono se credi in quello che stai dicendo, se davvero dà forma ai tuoi pensieri, alla tua vita, prima di inserirti nella loro.
EN: Sono d’accordissimo. Ti guardano e, in quello sguardo, ti costringono ad avere una ragione – tu per primo – per essere lì, su quel palco. Con loro più che mai il teatro è finzione, mai falsità.
CDM: È questo è il lavoro di ricerca che ha portato i PEM a interrogarsi sul testo di Eschilo e che, nel mese di gennaio, ti ha coinvolta in prima persona nell’incontrare i giovani spettatori delle scuole.
EN: È importante che ciascuno chieda a sé stesso quale sia il valore aggiunto nel portare in scena il messaggio di Prometeo. Non basta nascondersi dietro l’etichetta del «classico» che va letto e riletto, senza passare mai di moda. Ai ragazzi ho posto una domanda, schietta e decisa: «Quando sei stato, tu, Prometeo?». Il tema di base è la ribellione: si dice che l’adolescenza sia il periodo del sovvertimento delle regole; allora io ho deciso di partire chiedendo semplicemente quali sono le regole che normalmente rispettano. La conclusione, poi, è capire che il vero ribelle non è chi non rispetta le regole, ma chi sa quali regole rispettare e rinuncia alle prigioni della (sua) comodità.
CDM: E nel mezzo? Quali stimoli per arrivare a questa conclusione?
EN: Durante gli incontri mi faccio aiutare dalla storia di Aleksandros Panagulis, protagonista del romanzo «Un Uomo» di Oriana Fallaci. Lui, in carcere per un attentato, dopo cinque anni di reclusione, riceve la libertà. Uscito dalla prigione è accecato dalla luce del sole, perde l’equilibrio, non ha più certezze, non sa più chi è e cosa vuol dire vivere nel mondo. Prometeo, legato alla rupe, riceve delle visite di entità che gli propongono un aiuto. Lui rifiuta ogni genere di supporto e resta incatenato. Ecco, io allora chiedo ai ragazzi quali sono le prigioni in cui stanno comodi e quali quelle in cui tornano volentieri per stare meglio; quali, invece, le regole che scelgono di seguire per sapere dove andare, come essere liberi.
CDM: Cosa ti ha stupito delle loro risposte?
EN: Molti di loro, quando chiedo cosa vogliono fare da grandi, rispondono: «Boh». Alla domanda: «Hai un sogno?» – «No», «Non so». Allora mi viene spontanea la provocazione: faccio notare loro che per 16-18 anni hanno frequentato un posto (la scuola, ma anche casa) dove vigono regole a cui deve rispondere rigidamente ogni azione. Quando finisce quest’epoca delle certezze, però, se uno non ha sogni né ambizioni, il rischio è che, come Panagulis, si desideri «tornare in cella». È importante scegliere cosa fare e chi essere.
CDM: Certo, non sempre è facile capire se una regola – o una scelta – è giusta. Soprattutto in un mondo velocissimo, in cui le possibilità sono moltiplicate e lo smarrimento è all’ordine del giorno.
EN: Il teatro, nell’antica Grecia, serviva anche a questo: era una scuola perché il popolo si facesse domande. Le tragedie sono tragedie, e non drammi, perché portano in scena conflitti irrisolvibili. Io credo a Panagulis, credo a Prometeo. Le loro stesse scelte sono un parametro di scelta. Il mio desiderio è che queste ragazze e questi ragazzi abbiano qualcuno a cui credere per costruire il loro futuro.
CDM: Dopo questi incontri hai un suggerimento, da attrice, per tutti gli insegnanti?
EN: Noi cerchiamo di far capire loro quale è il significato della tragedia, di un testo. Abbiamo le nostre idee e li indirizziamo, sperando arrivino a ripeterci quello che vogliamo. Poi io, in questi incontri, ho imparato ad avere fiducia dello sguardo dei ragazzi, senza imporre il mio. Mentre cercavo di raggiungerli parlando di scelte, democrazia e giustizia, attraverso le loro domande li vedevo ancorati al tema del contatto fisico in scena. Beh, non è forse questa la loro reale tragedia? È una denuncia di disagio. In «Prometeo» loro rileggono la loro personalissima tragedia, quasi esistenziale, nell’utilizzo del corpo.
CDM: Avere fiducia nello sguardo, sì, ma anche nei loro silenzi.
EN: Mi capita spesso, quando faccio domande scomode, di avere il silenzio come principale risposta. Allora racconto di me: narro una mia storia perché loro possano metterla silenziosamente in relazione con la loro. Hanno grande rispetto di questo passaggio, soprattutto quando si mostra una ferita, uno spiraglio per entrare in relazione. Qui si scoprono le fratture del credere alla perfezione e alla sua ostentazione.