Lo ammetto: quando in redazione mi hanno chiesto di recensire anche la seconda stagione di «Pesci Piccoli – Un’agenzia, Molte idee. Poco budget» (avevo già recensito l’esordio) la reazione è stata più ansiosa che entusiasta. Non per partito preso, ma per il semplice e umanissimo timore di rivedere le stesse gag riciclate, il solito teatrino pseudo-creativo, i meme triti da “agenzia sfigata”.
Invece, sorpresa: The Jackal ribaltano le aspettative e smontano, fin dal titolo, le premesse stesse della serie. Non sono un’agenzia con «poco budget», e lo dimostrano portando a casa otto puntate completamente diverse tra loro, lontanissime dal copia-incolla della stagione precedente pur con la dovuta continuità rispetto al recente passato.
Quel che è certo è che hanno idee, sanno scrivere, e soprattutto sanno come citare, senza sembrare quelli che fanno i fighi, le referenze: è la millennial comedy nel suo stato più puro, nella quale il citazionismo non è un vezzo, ma diventa una grammatica identitaria. Il risultato è una stagione che sembra confermare ciò che diceva (forse) qualche teorico del marketing: il suo vero scopo è farti desiderare cose che non volevi. Come, per dire, restare incollati a una puntata che inizia con l’evoluzione dell’uomo e finisce con community manager, copywriter, videomaker, purpose e la domanda più antica del capitalismo emotivo contemporaneo: ma perché lavoriamo? E soprattutto perché ci sentiamo sbagliati a rispondere «Per i soldi»?
Una seduta di psicoterapia aziendale collettiva
Nel mondo di «Pesci Piccoli», la distorsione cognitiva è regola, e lo specchio della realtà è rotto in modo creativo. I The Jackal ci chiedono continuamente di sospendere il nostro principio di incredulità che, in letteratura, indica la volontà del lettore e di chi scrive di arrendersi alla verosimiglianza di un racconto e di accettare una realtà in cui gli influencer decidono le sorti del mondo. Così un volto di Geopop diventa, ad esempio, un mago che cancella i ricordi. Beppe Vessicchio è pensato come il «profeta dei bidelli zen che indaga sul mistero del tempo libero» («che si fa quando si dorme? Si dorme? No, si va a bere un gin tonic».). Heidegger diventa memeable nella figura dell’Uomo Senza Tempo.
La comicità si intreccia con un realismo magico da «caffè aziendale»: Aurora è ancora innamorata del suo collega troppo figo di Milano, Ciro incontra la sua ex dopo sette anni e scopre che ha avuto un figlio da un altro (con una leggerezza che solo i The Jackal possono permettersi), Fru conta le parole invece delle calorie e ci si fanno i complimenti tra uomini come se fosse un atto rivoluzionario. Il meglio arriva con la puntata nel «Fantabosco», un crossover tra malinconia e horror infantile: Tonio Cartonio – protagonista della «Melevisione» interpretato da Danilo Bertazzi – torna per ricordarci che l’unico amico vero è quello che ti accompagna nel dolore dell’abbandono.
La verità è che questa serie non è un’analisi del lavoro creativo: è una dichiarazione d’amore frustrata e lucida verso un mestiere che ti svuota mentre ti chiede idee brillanti alle 18.30, quando sei ormai un cencio emotivo. «Che faccio per il resto della giornata?», si chiede uno dei personaggi. «Quello che faccio tutti i giorni: fingo di lavorare».
Una cheesecake all’amatriciana e il senso di tutto
Il paradosso è servito anche a tavola: «Pesci Piccoli 2» ci regala una delle sue puntate più assurde con lo chef Alessandro Borghese, che tiene un corso sulla cucina dell’inganno, dove i dolci sono salati e viceversa, come in una distopia da brunch di agenzia. Una cheesecake che è un’amatriciana è la perfetta metafora della serie: quello che sembra non è, e quello che è non si capisce bene. E non è solo intrattenimento: l’inclusività viene presa e sbeffeggiata con intelligenza, mostrando una influencer che gira uno spot con un ragazzo con la sindrome di Down che deve per forza perdere per far funzionare il messaggio.
E poi arriva l’intelligenza artificiale, che vorrebbe licenziare un dipendente obsoleto ma indispensabile (emblematico: «se io fossi un frigorifero, avrei il tuo disegno sul frigorifero»). Tra guest star improbabili e azzeccatissime (Stefano Nazzi, Maurizio Merluzzo, lo stesso Borghese), la serie trova il suo equilibrio tra satira, nostalgia, assurdità e un romanticismo sghembo. C’è persino una piccola vendetta personale di Aurora, che riesce a ribaltare anni di insulti liceali con l’aiuto di Greta, a suo modo catartico.
«Pesci Piccoli 2» non è, lo avevamo già detto e lo ribadiamo, la versione attuale di «Boris» e meno male: è una cosa a sé, un contenitore di domande esistenziali e battute fulminanti, in cui si cammina veloce per far finta di avere qualcosa da fare, si tengono le mani giunte davanti allo schermo per sembrare impegnati, e si tengono sempre gli auricolari nelle orecchie per simulare una call. Il lavoro è una grande messinscena, e la serie lo sa. Ma almeno ce lo fa vedere ridendo, o, come direbbe Borghese «è più importante sembrare un cannolo o essere un cannolo? ». Rispondere non è obbligatorio, ma almeno per otto puntate, ci si può permettere il lusso di rifletterci su.
Oltre «Pesci Piccoli»
Se «Pesci Piccoli 2» fotografa con ironia corrosiva il mondo del lavoro e l’universo social, il catalogo delle serie da non perdere si allarga con titoli che, pur diversissimi per tono e ambientazione, condividono uno sguardo lucido (e spesso disilluso) sulle dinamiche di potere, sulle identità in bilico e sui ruoli di genere in trasformazione.
È il caso di «Sirens», su Netflix, nuova serie scritta da Molly Smith Metzler (Maid) e interpretata da un cast di altissimo profilo: Julianne Moore, Meghann Fahy, Milly Alcock, Kevin Bacon. In un’isola che sembra uscita da un catalogo di wellness di lusso, Michaela (Moore), ex modella e filantropa, ha costruito una piccola comunità utopica, o così pare. In realtà il suo controllo sulle vite degli altri è capillare, opprimente, inquietante. Quando due sorelle — Devon e Simone — arrivano sull’isola, portando con sé vulnerabilità e ambizione, l’equilibrio si incrina. «Sirens» è un thriller psicologico in punta di piedi, che sotto la superficie patinata parla di maternità elettiva, manipolazione, relazioni tossiche tra donne e potere “buono” usato per controllare. Una serie che non alza mai la voce, ma ti resta dentro come un’inquietudine sottile. Ne avevamo bisogno? Sì.
Sempre su Netflix, «Sara – La donna nell’ombra» punta su atmosfere cupe e su una protagonista che sembra uscita da un noir più che da una serie italiana. Teresa Saponangelo è Sara, ex agente dei servizi richiamata in azione quando suo figlio muore in circostanze misteriose. Ma non aspettatevi action o twist forzati: la serie procede lenta, scavando nei rapporti umani, nei silenzi, nelle ferite che non si rimarginano. Accanto a lei, Claudia Gerini in un ruolo ambiguo e Flavio Furno in quello dell’investigatore giovane ma non ingenuo. È una serie che lavora di sottrazione: l’indagine c’è, ma il vero mistero è il passato di Sara, e quanto può permettersi di i sentire di nuovo qualcosa.
Fuori dall’asse Italia-USA, vale la pena dare uno sguardo alla nuova ondata di serialità turca, sempre più presente sulle piattaforme e ormai entrata a pieno titolo nelle abitudini di visione italiane (purtroppo o per fortuna). Il titolo più interessante è «Thank You, Next», romcom sofisticata e sorprendentemente moderna: Leyla, avvocatessa di successo, si ritrova single dopo due relazioni naufragate, e incappa in un uomo tanto affascinante quanto problematico. La serie mescola sapientemente glamour, melodramma e autoironia, con una protagonista (Serenay Sarıkaya) credibile, energica e mai vittima.
Alla fine, la morale sottotraccia di tutte queste serie – che si svolgano in un’agenzia partenopea, in una villa di lusso o nei corridoi lucidissimi di una tech company – è sempre la stessa: nel lavoro, come nella vita, quello che ci tiene a galla non è la carriera, né l’ambizione, né la fuffa motivazionale. Sono i legami, gli inciampi, le risate di traverso. Non perché l’ufficio debba essere una grande famiglia, ma perché anche nella precarietà più totale restiamo esseri senzienti, perfino con le mani giunte davanti a uno schermo per sembrare occupati e gli auricolari nelle orecchie per fingere una call. In un mondo che pretende che tutti fingano di essere squali, «Pesci piccoli» ha il coraggio di dire che si può anche sopravvivere restando se stessi. Purché si sappia ridere, o tutt’al più fingere benissimo.