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«Yūgen: tessere il caos». A Ponte San Pietro l’arte immersiva di Grazioli incontra la chitarra di Santangelo

Articolo. Sarà inaugurata domenica 21 settembre, presso la Chiesa Vecchia, la mostra dell’artista Emanuele Grazioli con una performance musicale a sei corde

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«Alcuni deboli raggi di sole gli diedero l’impressione che il cielo si stesse aprendo. Tra quei raggi la neve fluttuava leggera come cenere. Dovunque guardasse, i susuki appassiti oscillavano al vento. Sotto la debole luce del sole, la lanugine delle loro infiorescenze reclinate emetteva tenui bagliori». È una citazione tratta da «Neve di primavera» di Yukio Mishima: nello sguardo di Kiyoaki, il protagonista del romanzo, si consuma un fenomeno naturale che muta in epifania per il suo giovane cuore. Difficile, allora, non pensare alla parola giapponese «Yūgen», che indica un concetto estetico ben preciso: quello di una bellezza raffinata, incantata quasi, che, attraverso giochi chiaroscurali, si rivela per mezzo del «non detto» e dell’allusione.

Un principio a cui si è ispirato Emanuele Grazioli per la mostra «Yūgen: tessere il caos» che, articolata in due installazioni, verrà inaugurata dalla critica d’arte Chiara Medolago alle 10.30 di domenica 21 settembre, presso la Chiesa Vecchia di Ponte San Pietro all’interno della manifestazione «Un fiume d’arte». «Sono innamorato del Giappone, della sua cultura e delle parole della sua lingua – racconta Emanuele Grazioli, 44enne residente a Pontirolo Nuovo, insegnante di canto, educatore musicale e decoratore –, che, spesso, rivelano un gusto sinestetico, dove i significati si fanno plurimi e il confine fra i sensi si fa labile. “Yūgen” è una di queste: esprime una bellezza che non si riesce a nominare, un fascino che sosta nella penombra e che va oltre la superficie, una suggestione piena di grazia. È dal 2021 che le mie mostre itineranti hanno come tema vocaboli e principi del pensiero giapponese, ma questa esposizione si discosta da quelle precedenti, tracciando un solco netto fra un tipo di arte figurativa (ispirata ai capolavori di Kitagawa Utamaro e Katsushika Hokusai) e un tipo di arte materica e concettuale».

Un’ esperienza immersiva

Le due installazioni saranno in dialogo fra loro. «La prima opera, che si intitola “La nostra pelle– spiega Grazioli –, è la riproposizione, a grandezza naturale, di un busto umano, rivestito di juta, che mi piace definire “partecipativa”. Infatti, con essa (ma anche con lo strascico che dal busto si sviluppa), i partecipanti potranno interagire: accarezzandola, dipingendola o scrivendoci sopra, così da lasciarvi, in un certo senso, una parte di loro stessi. Assemblate all’installazione, ci sono anche frammenti di materiale a me caro, come carta, stoffa, foglia oro, legno e parte di quel lino che mia madre e mia nonna, con alle spalle una vita passata a lavorare nel linificio di Fara Gera d’Adda, avevano conservato e confezionato per me e per i miei fratelli. Un tuffo nella memoria personale che, attraverso l’arte, diventa condivisa».

La seconda opera è invece un cubo di due metri di spigolo, il cui titolo è «Ukiyo-e», dal nome delle celebri stampe giapponesi. «È una struttura in legno, aperta, in cui si può camminare – dice l’artista –, formata da tronchi recuperati in luoghi a cui sono affezionato, come certi laghi o certi sentieri di montagna, che, da sempre, stimolano i miei sentimenti e la mia persona, facendomi sentire in pace con la natura. Appesi al cubo, brandelli di pelle e di tessuto dipinti. Il loro significato? Affermare che la bellezza si insinua anche nelle crepe, che le cicatrici esprimono forza, non debolezza e che riconoscere la propria vulnerabilità è un valore. È quel che insegna il “kintsugi”, la tecnica che ripara gli oggetti lasciando visibili le linee di rottura, che vengono ulteriormente messe in risalto attraverso polvere d’oro. Il busto e il cubo, posti uno di fronte all’altro, sono in dialogo fra loro e complementari: rappresentano infatti un tragitto ideale fra un’esteriorità fisica e un’interiorità psichica e spirituale».

Un invito a intraprendere un percorso esperienziale che, nei «paesaggi emotivi», trova il suo apice. «Per ogni lato che circonda la navata della chiesa, ho pensato a delle tele di grandi dimensioni – afferma Grazioli – Composte con calce, terra, polvere di quarzo e colori acrilici, i loro soggetti trasmettono emozioni precise, evocando posti impalpabili eppure veritieri: “stati dell’anima” che possono essere rimirati dopo essere scesi nel profondo, ovvero dopo aver attraversato il cubo e le sue “viscere”. Insomma, dopo aver “tessuto” il caos».

Chitarra e arte

Il momento clou della giornata di domenica sarà però la performance delle 16. Ad accompagnare Emanuele (che interagirà con le proprie installazioni) ci sarà la chitarra elettrica del suo amico Giorgio Santangelo. «La mia sarà un’improvvisazione suggestiva – spiega Giorgio Santangelo, cinquant’anni, residente a Zogno, chitarrista del gruppo Scarymoose –, una novità per me, abituato a eseguire cover. I suoni saranno infatti più dilatati, distorti, grezzi, quasi primitivi; sicuramente molto diversi rispetto a quelli di un qualsiasi pezzo pop o rock. Lo spazio riservato alle emozioni sarà rilevante: sceglierò le note in base allo stato d’animo del momento, senza alcun filtro, così da poter rendere partecipi gli ascoltatori del mio sentire. Suonare canzoni famose è un po’ come essere un treno che procede sui binari. Qui, invece, sarà come essere una barca in mezzo al mare e di ciò ne sono veramente entusiasta». Nove i brani che il chitarrista eseguirà durante la performance. «Attraverso l’energia sprigionata dalla musica – afferma Santangelo, che si ispira a Joe Satriani, a Tony Iommi e ai Sigur Rós –, mi interessa penetrare l’essenzialità della realtà, così da tracciare, quasi, un dialogo e una connessione con il cosmo. Ogni singolo brano richiede tempo e fatica, ma anche una certa dose di sincerità, in primis con sé stessi e con il proprio pubblico».

Una forma di onestà (e rigore) intellettuale che, trasformandosi infine in simbiosi con il proprio strumento e con le proprie creazioni, diventerà, anche da un punto di vista fisico, un’esperienza travolgente. «Finita la performance – dice Santangelo –, mi sentirò completamente svuotato e credo che andrò a ricaricarmi per qualche minuto». Un’amicizia quella fra il chitarrista e Grazioli che è diventata anche un sodalizio perfetto. «Il rapporto di complementarietà, oltre che tra il cubo e il busto, c’è anche fra me e Giorgio – spiega Grazioli – Lui è capace di chetare la mia impulsività. Ma è anche in grado di dar vita a delle “scenografie musicali”, in nome di quella sinestesia a cui tende la nostra arte». Un’arte concreta e immersiva alla quale Grazioli affida una speranza. «Viviamo in un mondo sempre più “dematerializzato” – conclude l’artista – Mi piacerebbe che le persone tornassero a dare importanza alla relazione e alla conoscenza mediante i sensi: è l’unico modo per preservare la nostra umanità. L’arte, soprattutto se intesa come “materica” e quindi capace di interpellare la nostra sensorialità a 360 gradi, può facilitare il cammino verso un esistere più “genuino”, in modo da scoprire, in ogni angolo di mondo, la bellezza del creato».

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