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Gustavo Pietropolli Charmet, come la «rete buona» combatte la dispersione scolastica

Articolo. La lotta all’esclusione scolastica è lotta all’esclusione sociale. Lo ricorda lo psicoterapeuta Gustavo Pietropolli Charmet, che sabato 13 aprile sarà all’Auditorium del Collegio Vescovile Sant’Alessandro in occasione della conferenza finale del progetto «Erre2 – Risorse di Rete»

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Una delle attività realizzata all’interno delle Case del Sapere (Istituto De Amicis)

Combattere la povertà educativa e supportare, a Bergamo, i giovani che hanno vissuto fallimenti scolastici e formativi: è questo l’obiettivo del progetto triennale guidato da Opera Diocesana Patronato San Vincenzo. Realizzato in partnership con 23 realtà locali, « Erre2 – Risorse di Rete » è riuscito a raggiungere più di 1.000 giovani grazie alle 16 Case del Sapere, ai CRE tecnologici, agli incontri di orientamento, agli Eduticket e alle serate di supporto per genitori.

In occasione della conferenza finale di progetto, sabato 13 aprile alle 16, il professor Gustavo Pietropolli Charmet, tra i più illustri psicoterapeuti italiani, discuterà l’importanza della comunità educante come risorsa chiave per favorire l’inclusione e contrastare la dispersione scolastica. Il suo intervento è previsto alle 17.15, l’ingresso è gratuito con prenotazione obbligatoria (per informazioni scrivere a [email protected])

MM: Professore, ci racconta il progetto?

GPC: Si tratta di un intervento importante e ben finanziato che ha coinvolto strutture dell’area pubblica e privata per recuperare i ragazzi fuoriusciti dal circuito scolastico, che non studiano e non lavorano. È un tentativo, riuscito, di costruire una rete attorno ai ragazzi che rischiano di rimanere esclusi dalla tutela e dalla protezione scolastica. Si tratta di attivare una rete, cioè mettere in contatto istituti, enti, servizi che appartengono ad aree diverse: scuola, educatori, servizi territoriali, tribunale dei minorenni, consultorio, famiglia, oratori. Un esercito di risorse per impedire la dispersione scolastica, che è un fattore di rischio per molte condotte antisociali.

MM: Qual è l’esempio più estremo?

GPC: In guerra o a seguito di una catastrofe naturale i “dispersi” sono coloro che stanno peggio. La dispersione è precipitare in un cono d’ombra, dove la società non sa neanche più che esisti. Il massimo esempio è dato dall’aumento del numero di ragazzi homeless. Compiuti i 18 anni, chi vive in una Comunità Educativa per Minori dove va? Rischia di finire in strada. Nelle grandi città ci sono barboni giovanissimi, se non c’è una “rete buona” si finisce ai margini.

MM: Quali sono le cause della dispersione scolastica?

GPC: La povertà educativa, che non è più solo povertà economica. Si tratta di una mancanza di competenza da parte della famiglia rispetto all’utilizzo delle risorse e all’orientamento del figlio. La dispersione è sempre originata dal fatto che l’abbinamento fra quel ragazzo e quella scuola non funziona. La bocciatura è un trauma da non sottovalutare: è non sentirsi adatto, amato, voluto. Girovagare fra scuole e istituti di recupero degli anni scolastici è mortificante. Se nel presente nessuno ti vuole, è difficile immaginarsi il futuro, e il futuro è un concetto molto importante dal punto di vista psicologico ed educativo. Bisogna aumentare la competenza educativa di tutto l’ambiente per tenere dentro il ragazzo e non escluderlo. La lotta all’esclusione scolastica è lotta all’esclusione sociale e a tutto ciò che ne consegue, come le tossicodipendenze.

MM: Cosa significa “fare rete”?

GPC: Attorno al singolo ragazzino e alla famiglia a rischio, bisogna attivare tutte le risorse esistenti e riuscire a fare cooperazione e coprogettazione. Questo è un suggerimento che viene anche dall’Europa, che finanzia i progetti di comunità educante piuttosto che i singoli servizi, che rischiano di essere dispersivi. Io caldeggio questa metodologia e la applica nel consultorio che dirigo: famiglia e scuola sono strutture che dovrebbero parlarsi e allearsi. Se tutte le risorse si mettono in rete abbiamo a disposizione una corazzata e non un rimorchiatore. Con la rete c’è l’idea di un controllo sociale, ma non di tipo punitivo. È il tentativo di rispondere a un’esigenza reale degli adolescenti, loro hanno bisogno di interventi differenziati fra di loro.

MM: Fare rete è un bello slogan, ma l’impressione è che sia tutto demandato alla buona volontà dei singoli – un insegnante illuminato, un allenatore attento, un assistente sociale particolarmente tenace – più che strutturato per funzionare in modo organico…

GPC: Il concetto di comunità educante è un’utopia. Ogni struttura ha i suoi orari, le sue prassi, i suoi impedimenti amministrativi e burocratici. Si riesce davvero a fare rete nei casi particolarmente coinvolgenti, come un tentativo di suicidio. Lì si riesce a fare fronte comune e a non perdere di vista il soggetto. Ma sarebbe molto utile in tanti altri casi.

MM: Ad esempio?

GPC: Poniamo il caso di un ragazzo che abusi di sostanze: devo indirizzarlo verso la rete dei servizi per le dipendenze. Il percorso è precostituito, ma sarebbe meglio essere più integrati, in modo che, ad esempio, anch’io possa dare un sostegno psicoterapeutico andando alla radice del problema.

MM: In Italia è forte la convinzione che i figli siano dei genitori, e dei genitori tutte le responsabilità educative. È così anche all’estero?

GPC: Vedo la differenza quando lavoro in gruppi di lavoro europei: mentre i nostri ragazzi sono considerati figli della famiglia, quelli francesi o olandesi sono considerati come piccoli cittadini, tenuti presente dalla società. A 17, 18 anni i loro coetanei europei spesso vivono fuori casa, in gruppo, finanziati da soggetti pubblici con prestiti; negli Stati Uniti c’è il college. Sono strutture che favoriscono il distacco e le esperienze di autonomia sociale, che portano anche un miglioramento delle relazioni con mamma e papà. Sono favorevole al fatto che la società prenda provvedimenti volti a fare conquistare precocemente l’autonomia. Non credo abbia senso che un universitario studi nella cameretta che aveva in prima elementare.

MM: E il ruolo della scuola qual è?

GPC: Non può chiudersi nel proprio compito – insegnare a leggere, scrivere e far di conto – e non curarsi degli aspetti educativi. Alcuni docenti pensano che il loro compito sia solo didattico, ma se non c’è relazione i ragazzi non imparano niente.

MM: Com’è la situazione a Bergamo? La rete è abbastanza solida?

GPC: Per esprimere un giudizio su un territorio bisogna viverlo, e io manco a Bergamo da molto tempo, da 30 anni, quando lavoravo presso l’ex manicomio. Devo dire, però, che quando mi invitano, soprattutto nelle scuole, trovo un livello di competenze più alto della media. È chiaro a tutti che parliamo di ragazzi e non di studenti, di educazione e non solo di istruzione.

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