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Il paradosso della scuola democratica e altri motivi per leggere “Il danno scolastico”

Articolo. Una scuola troppo “facile” non aiuta gli studenti con meno mezzi, ma li danneggia per sempre. È la tesi di Paola Matrocola e Luca Ricolfi in un saggio disturbante, ma che vale la pena leggere

Lettura 4 min.

Mi ha infastidita, quindi suppongo sia un buon saggio. “Il danno scolastico – La scuola progressista come macchina della disuguaglianza” (2021, La Nave di Teseo) dei coniugi Paola Mastrocola – professoressa di Lettere e scrittrice – e Luca Ricolfi, accademico e sociologo (ha fatto molto discutere il suo ultimo libro, pubblicato nel 2019, “La società signorile di massa”) denuncia come la scuola “democratica” invece di aiutare i più svantaggiati li danneggi.

Pazienza se la loro lettura di don Milani sia – nella migliore delle ipotesi – miope e nella peggiore capziosa e facilona (nessuno che lo abbia letto può pensare che don Milani volesse una scuola “facile”). Pazienza se si rifanno a modelli novecenteschi completamente superati, se per tutto il saggio non facciano che contrapporre il “figlio dell’idraulico” al “figlio dell’avvocato”, ignorando che, con l’impoverimento delle professioni, oggi ha probabilmente più mezzi l’idraulico. Pazienza se rimpiangono una scuola che in prima media bocciava metà dei suoi studenti (anche se sarebbe simpatico ci spiegassero cosa fare dei bocciati: tutti ad arare i campi, come si diceva nei tempi antichi?). Pazienza se tralasciano qualunque tipo di discorso basato sulla neuro diversità, se ignorano che in classe possano esserci bisogni speciali, dai dislessici agli studenti stranieri.

Malgrado queste mie non trascurabili “note a margine”, per metà della lettura de “Il danno scolastico” non ho fatto altro che annuire. Mi hanno aiutato a riordinare le idee una maestra, un professore delle “medie” – o meglio primaria di secondo grado, la fase riconosciuta come la più vulnerabile del nostro sistema scolastico – e una ricercatrice universitaria. E, visto che vi ho già detto perché “Il danno scolastico” non mi è piaciuto, vi dico anche perché vale la pena leggerlo.

La scuola non è tutto

“Le nostre famiglie pensavano che la scuola dovesse darci una buona istruzione, che ci permettesse di ‘andare avanti’ negli studi. Punto e basta. Non pretendevano che ci assicurasse serenità, socializzazione, svago. Quello non era affare della scuola. Era affare di ognuno costruirsi la propria felicità, con il successo negli studi, con il trenino elettrico, con gli amici, con lo sport. Ognuno a modo suo”, scrive Ricolfi.

Noi genitori oggi chiediamo troppo alla scuola? Probabilmente sì. Di colmare tutte le nostre lacune, per debolezza ma anche per oggettiva impotenza. E perché, dai tempi in cui Ricolfi giocava col trenino elettrico, la famiglia e la società sono cambiate.

I genitori lavorano entrambi e alla scuola si chiede il “tempo pieno”, possibilmente pienissimo, in modo da avere meno problemi nella gestione del bambino fino al ritorno a casa di mamma e papà. Il gruppo dei pari non c’è più – nel senso che i bambini non si trovano più a giocare fra di loro in cortile o per strada – e anche i fratelli e i cugini sono sempre meno. Quindi alla scuola si chiede anche di guidare nella socializzazione.

Mi sembrano richieste legittime, ma siamo sicuri che spetti alla scuola farsene carico? Come può l’insegnante essere sia maestro sia animatore? Come può un ragazzino rimanere concentrato se è a scuola dalle 8 a dopo le 14, senza mangiare? (succede alle medie: orari compressi, per evitare di frequentare il sabato).

E veniamo alle richieste meno legittime: spetta alla scuola insegnare ai bambini ad allacciarsi le scarpe, dato che, come abbiamo raccontato qui, ormai pochissimi bambini arrivano in prima elementare con questa competenza? Spetta alla maestra mostrare come usare coltello e forchetta durante le ore di mensa? O insegnare ad aspettare il proprio turno e a gestire un’attesa di due minuti senza smartphone? “È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli”, recita l’Articolo 30 della Costituzione. E forse, prima di cominciare a pensare a tutto ciò che la scuola dovrebbe fare, è bene riflettere su ciò che la scuola non è tenuta a fare.

Le materie al centro

“I progetti sono quel che ha trasformato la scuola in un’impresa che offre all’utenza attività extrascolastiche (…) Le materie decadono a optional, l’inutile e marginale, vecchio e stantio materiale da smaltire, residuo di una scuola antiquata e superata, non al passo con i tempi. Si tollera la loro esistenza (bontà dei riformatori!), ma si dà loro sempre meno valore”, scrive Mastrocola.

Analisi logica, tabelline, parafrasi, riassunti, capitali e capoluoghi da imparare a memoria, lezioni da ripetere. Sì, d’accordo, non è un elenco entusiasmante, ma anche io sono convinta che la scuola debba essere essenzialmente questo, e che ogni attività educativa avvenga attraverso questo: le materie. Qui il mio conservatorismo è totale.

Esiste un momento in cui capire la differenza fra soggetto e complemento oggetto, fra moltiplicazione ed elevamento a potenza, fra causa ed effetto. Non solo perché è importante imparare a fare le divisioni a due cifre alle elementari e non alle superiori, ma perché – come scrive Ricolfi – si tratta di “organizzazione mentale e capacità di assimilazione”.

Mi è capitato di tenere dei progetti di giornalismo nelle scuole secondarie. Contenuti e attività pensati per essere interessanti, e per alcuni studenti spero lo siano stati. Ma che senso ha spiegare come distinguere una notizia falsa da una vera se i ragazzi non sanno fare un riassunto?

“Nelle direttive scolastiche sta scritto che l’insegnante deve raggiungere certi obiettivi che hanno a che fare con certe competenze, fine. Non importa se li raggiunge facendo leggere Dante o un manuale di giardinaggio”, scrive Mastrocola. Ecco, io penso ancora che Dante sia fondamentale, anche per chi da grande farà il giardiniere. Perché da Dante si può sempre passare al manuale di giardinaggio, mentre il contrario no.

La scuola facile danneggia i meno fortunati

È la tesi del libro, che ribalta un luogo comune piuttosto pernicioso (riuscendoci in gran parte). Uno studente proveniente da un contesto “svantaggiato”, quindi con alle spalle una famiglia con scarsi mezzi economici e ancor meno mezzi culturali, per emergere non ha bisogno di una scuola facile, ma di una scuola difficile.

Un “figlio di papà” troverà sempre il modo di superare le lacune di una scuola poco formativa, ricorrendo a lezioni private, scuole private, corsi privati. Fuori dalla scuola potrà contare su una rete di conoscenze e sulla tranquillità che dà il benessere economico, che consente di non doversi preoccupare di come mantenersi agli studi o agli stage.

Per uno studente svantaggiato (non occorre per forza immaginarsi personaggi dickensiani), invece, la scuola è l’unica possibilità. Per farcela, deve avere la fortuna di non accumulare lacune che non riuscirebbe a colmare da solo. Per questo deve potere contare su una formazione impeccabile, fin dalle elementari e dalle medie, molto prima di arrivare all’Università.

Analisi logica, tabelline, parafrasi, riassunti, capitali e capoluoghi da imparare a memoria, lezioni da ripetere. Per poi arrivare a maneggiare l’algebra, il latino, la fisica.

Se si toglie qualcosa – per facilitare il percorso, perché a casa non c’è nessuno che può aiutarli (ma mi verrebbe da dire: perché in classe ci sono troppi studenti e dare a ognuno l’attenzione di cui ha bisogno è difficile) – non si fa loro un favore. Si rimanda un problema, a quando verranno bocciati al liceo o dovranno cambiare scuola o non potranno neanche ambire a ricoprire una certa posizione. Che verrà presa da una persona con una migliore formazione, o da un “figlio di papà” adeguatamente paracaduto.

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