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L’arte di Benjamin Royaards dipinge i volti, i dettagli e le storie di Bergamo

Intervista. Dal 6 al 14 settembre il Centro Culturale San Bartolomeo accoglierà «Incontri» la prima mostra personale dell’artista di origine belga capace di trasformare la quotidianità in storie da ritrarre con intimità e poesia

Lettura 6 min.
Benjamin Royaards, The Eternal Child, 2025, acrilico su tela, 60 x 50 cm

Capita, a volte, che un incontro duri il tempo di un semaforo rosso, di un cappotto che sfiora il tuo, di un dettaglio che sembra scappato per sbaglio da un sogno. Un orecchino spaiato, un libro tenuto sottobraccio come fosse un talismano, la piega buffa di un sorriso che non ti era destinato. A Bergamo queste cose succedono con una naturalezza disarmante: in Piazza Pontida, tra i tavolini che sembrano sempre pronti a raccogliere storie, lungo via XX Settembre, dove la gente cammina svelta ma lascia dietro di sé scie di piccoli misteri, sotto i portici di Piazza Vecchia, quando l’eco dei passi si mescola alle risate che risalgono leggere fino alle Mura.

E allora capita di restare, un po’ smarriti, a raccogliere brandelli di immagini come fossero coriandoli rimasti appiccicati dopo una festa segreta. Li ritrovi negli sguardi rapidi davanti al Teatro Donizetti o in quel profilo che si perde sulle scalette che portano alla Rocca. Non li puoi lasciare andare: ti pungono le dita finché non decidi di sporcartele di colore, capendo che l’unico modo per lasciarli andare è prenderli sul serio. Allora poi non resta che afferrare un pennello e tradurre quei frammenti di attimi in una specie di fotografia che non ha bisogno di obiettivi, ma solo di un cuore testardo che insiste a ricordare.

È questo sguardo sulla nostra città – e, soprattutto, sui suoi abitanti – che ha animato Benjamin Royaards (1984), artista di origine belga, che il 6 settembre inaugurerà la sua prima mostra personale «Incontri» presso il Centro Culturale San Bartolomeo di Bergamo (Largo Bortolo Belotti, 1). Sarà visitabile dal 6 al 14 settembre 2025, la mattina dalle 10.30 alle 12.30, il pomeriggio dalle 14.30 alle 19. Caratterizzato dall’entusiasmo e dall’emozione di chi sta per presentare una parte di sé per la prima volta, è stato interessante scambiare con lui alcune impressioni per capire l’origine del suo lavoro.

CDM: Benjamin, quanto hanno inciso le sue origini nella scelta di diventare pittore e nel modo che ha di guardare il mondo?

BR: Quando uno guarda i miei quadri, credo riconosca subito la mia mano. Penso che questo derivi da una radice profonda, il realismo tipico della tradizione belga e fiamminga: sento parte integrante di me quella capacità di restituire un’anima alle cose. Provengo da una famiglia di artisti: i miei genitori e i miei nonni erano attori, mentre io fin da giovanissimo ho lavorato e prodotto per il cinema belga.

CDM: Che cosa significa per lei lavorare e vivere a Bergamo, così diversa da Anversa?

BR: Sono arrivato dieci anni fa, mia moglie è bergamasca. Ammetto che, quando mi sono trasferito qui, ho dovuto reinventarmi: in Italia il lavoro creativo è spesso più industriale, mentre in Belgio lo percepivo più legato all’arte pura. Per non smarrire quel legame, ho scelto di dedicare almeno un giorno alla settimana a nutrire il mio lato artistico. Così, tre anni fa, quasi per gioco, ho comprato un cavalletto. Da allora la pittura è diventata parte di me: un linguaggio nuovo che mi appartiene profondamente. Oggi guardo a quel gesto iniziale con gratitudine e con orgoglio.

CDM: Bergamo è diventata poi una cornice perfetta attraverso cui raccontare il suo vivere la città…

BR: Io adoro Bergamo, è una poesia fatta di colli e di colori. Da questo punto di vista è l’opposto del Belgio, con i suoi paesaggi che potremmo definire «piatti». Forse proprio per questo il mio sguardo è diverso da quello di chi qui è nato: nutro curiosità particolari, mi sorprendo di dettagli che a un bergamasco sembrano quasi invisibili. Per un certo periodo mi sono divertito a raccontare queste impressioni nella rubrica per Eppen, «Un belga a Bergamo», dove provavo a restituire ai lettori la meraviglia – e a volte lo smarrimento – di uno straniero che impara a fare i conti con la città. Quando poi ho preso un cavalletto e una tela, all’inizio mi sono chiesto cosa volessi davvero dipingere. I colli? Un tramonto sulle mura? Erano immagini belle, ma troppo ovvie. Poi un giorno, alla Marianna, sotto il loro iconico albero, mi sono imbattuto in una scena che mi ha colpito profondamente: una signora con un elegante abito rosso fumava una sigaretta con una vitalità contagiosa. Ho scattato una foto, e tornato a casa ho capito subito che quella figura sarebbe stata il soggetto perfetto.

CDM: Fino ad arrivare ai suoi «Incontri», titolo anche della mostra.

BR: Sono pronto a esporre cinquanta ritratti, che non vanno intesi come immagini statiche di persone in posa, ma come tentativi di catturare l’essenza di chi ha attraversato la mia quotidianità. Alcuni di questi volti appartengono a persone con cui ho condiviso legami più profondi; altri, invece, sono incontri fugaci, ma così intensi da lasciare un segno duraturo. Ho iniziato con timidezza, dipingendo su formati molto piccoli, appena 20 x 25 centimetri. Poi, con il tempo e con la fiducia, le tele sono cresciute, arrivando fino a 80 x 60. È stato un percorso naturale, quasi inevitabile. Dipingo in modo istintivo, senza una tecnica accademica o una formazione pittorica alle spalle. A volte mi sento come Leonard Cohen, che di fronte ai complimenti per la sua «Hallelujah» rispose: «Tutti mi dicono che è una bella canzone, ma io non so davvero da dove sia venuta». Così accade con i miei quadri: arrivano da un luogo che non so definire, ma che riconosco come profondamente mio. Il titolo della mostra, «Incontri», racchiude proprio questa doppia dimensione: da un lato il mio incontro con la pittura, dall’altro il mio appuntamento con la città di Bergamo, che ha reso possibili e preziosi tutti questi sguardi.

CDM: Nei suoi dipinti non ci sono pose studiate, ma frammenti di vita. Che cosa ricerca in un incontro, anche fugace, perché possa trasformarsi in un soggetto da dipingere?

BR: Vivo cercando immagini che sappiano parlare, che mi raccontino qualcosa oltre ciò che appare. Mi attraggono la semplicità e la tenerezza della vita quotidiana, quei gesti che sembrano insignificanti e invece rivelano mondi interi. Per questo spesso scelgo persone comuni: nei loro volti si legge la stanchezza, ma anche la fierezza, l’attesa, la resistenza. Penso, per esempio, al ritratto di Ezio Lorenzi. Per tutta la vita ha indossato la sua tuta blu e ha venduto articoli per la casa nella bottega di via Salvecchio, in Città Alta. Lo vedevo spesso, dietro il bancone: nei suoi occhi trasparivano saggezza, passione, devozione. Ha lavorato fino a novantasei anni, e in quell’ostinazione c’era qualcosa di profondamente poetico. Ma c’era anche l’amarezza di chi sa che, con la chiusura della sua bottega, finiva un pezzo importante della sua esistenza. Per me un soggetto deve emanare luce, deve raccontare una storia, deve avere un’anima. È il mio modo di guardare il mondo: non accontentarmi della superficie, ma cercare sempre la poesia nascosta nelle cose.

CDM: Henry James nel suo saggio «Partial Portraits» riflette sull’importante della «parte» - rispetto al tutto - nei ritratti. Che valore hanno nelle sue opere i dettagli e i piccoli frammenti di ciò che circonda i soggetti?

BR: Sono fondamentali. Non sono solo sfondi, ma indizi che permettono a chi osserva di ritrovare se stesso dentro il quadro. Se il volto non dice nulla a chi guarda, può essere un particolare a risvegliare la memoria: un’insegna, una sedia, un pavimento. È così nel ritratto del fotografo Gianni Limonta, colto mentre prende un caffè al Bar Pozzoli, nel quartiere di Santa Lucia. Forse non tutti riconosceranno lui, ma chi ha frequentato quel bar ritroverà le sedie, la conformazione del tavolino, la familiarità dell’ambiente. In quel momento il quadro non appartiene più solo a me o al soggetto: diventa anche del pubblico, che vi ritrova un pezzo della propria esperienza. Sono i dettagli, insomma, a rendere vivi i miei quadri: piccoli fili che intrecciano le storie personali con la memoria collettiva della città.

CDM: C’è un ritratto a cui è particolarmente affezionato?

BR: Sì, quello che ritrae una mia cara amica, Arlette Brunel, una signora di cent’anni. L’ho dipinta seduta nella chiesa della Beata Vergine del Giglio, in via Sant’Alessandro. Chi conosce quel luogo lo può intuire dalla pavimentazione, ma ho voluto che fosse lei, e non lo spazio intorno, a risaltare. A renderlo speciale, però, non è tanto il risultato pittorico, quanto il ricordo legato al momento in cui le ho mostrato il quadro. Mi disse che, vedersi rappresentata in quel modo, per la prima volta, le aveva permesso di accettare la sua età. È stata un’emozione intima e profondissima, per lei e per me: la prova che la pittura può rivelare qualcosa di inaspettato, persino a chi si ritrova dentro la tela.

CDM: Il quadro scelto come copertina della mostra, invece, chi rappresenta?

BR: Si intitola «The Eternal Child» ed è dedicato a mio figlio più piccolo, Riccardo. L’ho ritratto in un momento speciale: aveva uno sguardo serio, quasi interrogativo, che per me custodiva qualcosa di più grande della sua età. Era il tramonto, lui era sdraiato sul divano e, per gioco, si era messo in testa la coroncina di rose della sorella. In quell’attimo semplice e domestico ho percepito una forza mitica, un senso di gioia perfetta che ho voluto fermare sulla tela. Per questo il quadro è diventato la copertina della mostra: rappresenta non solo la vitalità di mio figlio, ma anche l’energia che provo io stesso nell’affacciarmi a questa nuova avventura. Inaugurare per la prima volta una mia esposizione ha lo stesso sapore di quel ricordo: un istante di intensità assoluta, in cui tutto sembra possibile.

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