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«Indiana Jones», «Barbie», «Mission Impossible» e «Oppenheimer»: l’estate atomica del cinema hollywoodiano

Articolo. Mai come quest’estate i film americani hanno spopolato nella stagione tradizionalmente più fiacca per le sale cinematografiche italiane. Un successo inaspettato e che fa ben sperare in vista della stagione invernale

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C ’era una volta un tempo (nemmeno troppi anni fa) in cui i cinema (quasi tutti) chiudevano per la pausa estiva e grossomodo da giugno a settembre le nuove uscite venivano sostanzialmente sospese (fatta eccezione per qualche titolo minore, che andava incontro a incassi miserrimi). Il massimo in cui si poteva sperare era di recuperare nelle arene estive quello che ci si era perso durante la stagione precedente e bisognava aspettare l’autunno – e che terminasse la «Mostra del Cinema» di Venezia – perché tutto ricominciasse. Insomma un po’ come per la scuola o i palinsesti tv anche il cinema se ne andava in vacanza. Un’anomalia, bisogna dire, quasi esclusivamente italiana – negli Usa per esempio l’estate è da molto tempo una delle stagioni calde delle uscite – che lentamente ha cominciato a venire meno grazie ad alcune politiche mirate a incentivare la frequentazione dei cinema anche in estate e a un generale cambio di abitudini degli spettatori.

Tuttavia quest’anno si è assistito a una vera e propria rivoluzione e per la prima volta ben quattro grand produzioni hollywoodiane, fra le più attese dell’anno e su cui si è concentrata l’attenzione di pubblico e critica, sono uscite proprio durante i mesi estivi. Come se all’improvviso i distributori italiani si fossero accorti che il mondo è cambiato. E che oggi – soprattutto dopo gli anni della pandemia – con la crescita esponenziale dello streaming, i tempi di tenitura dei film nelle sale che si accorciano sempre di più, il battage mediatico che accompagna alcuni film (pensiamo alla campagna pubblicitaria di «Barbie») e le forme di pirateria che vanno moltiplicandosi, tenere fermo un film che è già uscito in tutto il resto del mondo è una pratica non solo controproducente, ma addirittura suicida. Non c’è estate che tenga.

E allora, per chi se li fosse persi – perché certe abitudini sono dure a morire e d’estate al cinema non ci mette piede – o magari nonostante li abbia già visti tutti vuole tornarci su, ecco i magnifici quattro dell’estate 2023. Tutti ancora disponibili nelle sale di città e provincia:

«Indiana Jones e il quadrante del destino» di James Mangold

Quindici anni dopo il precedente capitolo e con un nuovo regista dietro la macchina da presa (Spielberg resta insieme a George Lucas come produttore esecutivo), il settantenne Indiana Jones – in realtà Harrison Ford ha già superato gli ottanta, ma nella finzione il personaggio è leggermente più giovane – appena andato in pensione, solo, triste e inacidito dall’età e dalla vita si imbarca in una nuova roboante avventura alla ricerca di un antichissimo cimelio dai poteri sovrannaturali che già una volta, durante la guerra, si era conteso con i nazisti. Non molto di nuovo a ben guardare.

La storia è sempre un po’ la stessa, così come i personaggi di contorno: la partner femminile, qui impersonata da Phoebe Waller-Bridge di «Fleabag», con cui Indie instaura un rapporto affettuoso ma conflittuale, o il ragazzino scaltro e coraggioso che accompagna la coppia nelle sue avventure. E poi i nemici di sempre: i nazisti, nonostante il film sia ambientato sul finire degli anni Sessanta, più precisamente nell’estate 1969, quando la febbre dell’allunaggio stava contagiando il mondo intero.

E Mangold spinge proprio su questo conflitto, evidente, fra l’archeologia – scienza antica, polverosa e scarsamente praticata – e le nuove frontiere dell’astronomia che appassionano e trasformano radicalmente anche l’idea della caccia al tesoro. Il risultato è un Indiana Jones fuori dal tempo (e dallo spazio) che però non si dà per vinto: corre, salta, fa a cazzotti, si lancia in un estenuante e infinito inseguimento di due ore e mezza e alla fine ottiene più di quello che vuole – recuperando gli affetti smarriti e la voglia di vivere – e arriva perfino a sperimentare un salto nel soprannaturale ancora più sorprendente di quelli vissuti nel passato.

E forse, se proprio c’è qualcosa che non va in questo ennesimo (forse ultimo) adattamento delle avventure jonesiane è proprio quel (pre)finale esagerato e sproporzionato, un po’ troppo audace anche per uno come Indie. Probabilmente il “salto dello squalo” definitivo, senz’altro un congedo che – dopo 42 anni di mirabolanti avventure – è quantomai meritato (e necessario).

«Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte uno» di Christopher McQuarrie

È difficile valutare la buona riuscita di un film vedendone soltanto metà. Ma del resto la dimensione dei blockbuster di oggi, sempre più lunghi, densi e sovrabbondanti inizia ad avere bisogno di almeno due capitoli per poter far stare tutto dentro il medesimo contenitore (si veda la recente esperienza di «Dune»). Tuttavia questa prima parte di quello che dovrebbe essere l’atto finale di una saga amata e fortunatissima come quella «M:I» – pur non essendo un film compiuto e risolto – è un tentativo riuscitissimo di mettere insieme l’action puro contemporaneo con la tradizione di un format ormai trentennale.

Abbandonata da tempo la dimensione autoriale (i primi tre capitoli erano firmati da De Palma, John Woo e J. J. Abrams) e affidatasi alla regia solida di McQuarrie, «Mission Impossible» è da tempo diventata un’emanazione dello spirito e della personalità di Tom Cruise, il quale ormai fuso in maniera totale con il protagonista Ethan Hunt, oltre che interprete (e stuntman) è anche diventato produttore e di fatto è colui che tiene le redini del progetto, con un potere decisionale (a partire proprio dalla nomina del regista) sostanzialmente illimitato.

Non stupisce quindi che il fulcro totale dell’azione sia sempre e solo Hunt, figura tanto muscolare e astuta quanto tormentata dai ricordi e dagli errori del passato. Passato che qui ripiomba sulla vita del protagonista in maniera inaspettata, riportando in vita vecchi fantasmi, antichi nemici e persino un personaggio che non si vedeva dai tempi del primo «M:I»: l’allora capo dell’IMF – e ora della Cia – Eugene Kittridge. Ma la cosa più stupefacente è che a dispetto delle trame e gli intrighi più arzigogolati che hanno caratterizzato la saga nel passato, qui la missione (impossibile) sia semplice e lineare: recuperare una chiave (che peraltro ha la forma e le dimensioni più o meno classiche di una chiave). Una chiave analogica in un mondo minacciato dall’IA – e che quindi costringe tutti a tornare agli oggetti e alle soluzioni pre-digitali – e in grado di distruggere il mondo certo. Ma pur sempre una piccola e semplice chiave. Less is more

«Barbie» di Greta Gerwig

Forse non tutti ne avevano consapevolezza prima di andare in sala e in tanti probabilmente – soprattutto i più piccoli – non se ne sono resi conto nemmeno durante la visione, persi fra i colori squillanti e la ricostruzione del mondo plasticato della Mattel, ma «Barbie» è un film d’autore.

La sua autrice, Greta Gerwig è un’attrice e regista fra le più apprezzate del cinema contemporaneo e insieme al compagno, il regista Noah Baumbach – qui co-autore della sceneggiatura – forma una delle coppie artistiche di maggior rilievo sia dentro che fuori Hollywood.

Con «Barbie», il suo terzo film da regista, Gerwig prova qualcosa di mai fatto prima, cioè un film dichiaratamente commerciale su un’icona pop universalmente riconosciuta che però abbia dei contenuti politici forti e attraverso il quale sia possibile dare spazio e voce alle istanze femministe più attuali e dibattute. E allora il film diventa una specie di saggio in forma cinematografica che tenta di ripensare la realtà, mediando fra il mondo di plastica in cui Barbie vive – che sembra una sorta di utopia femminista radicale, dove le donne sono al potere e gli uomini (i Ken) sono dei debosciati senza alcuna voce in capitolo e in cui non esistono discriminazione e intolleranza – e quello vero, dove a dominare è un’unica ed enorme minaccia a qualsiasi forma di emancipazione: il patriarcato.

La Barbie immaginata da Gerwig si presenta dunque come un’eroina carica di femminilità, fascino e sicurezza in se stessa che però non conosce le insidie della vita, non ha percezione degli ostacoli del mondo reale e non capisce cosa siano la tristezza, le lacrime, il dolore, la vecchiaia, la morte, il cinismo, l’ipocrisia e tutte le cose brutte e meschine che provano e vivono gli esseri umani. Alla fine ovviamente troverà il proprio posto nel mondo, si riapproprierà della sessualità (che in quanto bambola della Mattel non possiede) e accetterà le proprie imperfezioni come tutte le bambine, le adolescenti e le donne del mondo. Tutto qui? Si chiederà qualcuno. Ebbene sì, il messaggio è quello che è, ma scritto in rosa Barbie – o per essere corretti in Millenial Pink – fa molto più effetto.

«Oppenheimer» di Christopher Nolan

Quello di Nolan è un cinema autoriale puro, che non somiglia a nient’altro che a se stesso e sembra venire da un passato lontano . Un cinema fatto di suggestioni e narrazioni che si intersecano e sovrappongono in maniera apparentemente confusa, ma che sono invece sorprendentemente lineari e descrivono riflessioni e pensieri per nulla complessi o indecifrabili.

In «Oppenheimer» si ripercorre la vicenda umana dell’uomo a capo del team che creò la bomba atomica: J. Robert Oppenheimer, adattando la biografia dello scienziato firmata da Kai Bird e Martin J. Sherwin. In realtà più che un biopic in senso stretto, quella del regista britannico è un’opera immersiva che in termini di racconto confonde le dimensioni narrative e le linee temporali con continui andirivieni fra passato e futuro. Sul piano estetico e sensoriale mischia colore e bianco e nero, usa una musica pervasiva e invadente, frammenta insistentemente il montaggio e schiaccia la macchina sulla faccia dei personaggi. Ne viene fuori un film difficile da scrollarsi di dosso, che dura tre ore precise e, per tutta la prima metà, sembra una lunghissima introduzione mentre nella seconda un altrettanto infinito finale.

Il non-stile di Nolan costringe a restare attaccati alle immagini e al ritmo complesso e ingarbugliato che viene affidato loro, anche se poi, all’improvviso, il piano diventa chiaro, i temi che vengono tirati in ballo altrettanto e tutti i significati sono lì da cogliere. Non solo il conflitto etico e i dissidi morali del protagonista – peraltro dichiarati apertamente dallo stesso – ma anche la metafora esplicitata dalla didascalia iniziale che vuole Oppenheimer come un novello Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini decretando la loro distruzione. O quella di un uomo che consegna la mela avvelenata all’umanità rendendosi conto troppo tardi dell’errore.

Rispetto ad alcuni film precedenti del regista che si strutturavano sull’insondabilità e il mistero della natura umana e dell’arte, qui è proprio la cristallina chiarezza e trasparenza della scienza – che nemmeno l’arte, la letteratura e la musica che il protagonista sperimenta riescono a redimere – a rappresentarne il senso ultimo. Ovvero quello di una morte che si nasconde dietro ogni gesto, parola, intenzione (anche innocente) del protagonista e di tutti quelli che gli stanno intorno e che il film evoca sin dalla prima immagine. Forse l’unico elemento davvero insondabile e inconoscibile che abita «Oppenheimer», di certo il più mostruoso di tutti.

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