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«L’angelo sterminatore». Il sogno senza tempo di Luis Buñuel apre il «Bergamo Film Meeting»

Articolo. Sarà il capolavoro di Luis Buñuel, sonorizzato dal vivo dal chitarrista e compositore statunitense Gary Lucas, a dare il via al quarantaduesimo «Bergamo film Meeting». Un film straordinario, vecchio di sessant’anni ma che sembra parlare ancora al presente

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Luis Buñuel, «L’angelo sterminatore» (1962)

In questo 2024 ricorrono i cento anni dalla pubblicazione del manifesto surrealista. Non c’è quindi momento più indicato per celebrare – o anche solo ricordare – una delle avanguardie più note e influenti di tutto il Novecento.

Non a caso il « Bergamo Film Meeting », il prossimo 8 marzo alle 21, aprirà la sua 42esima edizione con uno dei capolavori di Luis Buñuel: « L’angelo sterminatore » (1962). In una versione speciale, sonorizzata dal vivo dal chitarrista e compositore statunitense Gary Lucas e proiettata nel suggestivo scenario della ex-Chiesa di Sant’Agostino in Città Alta.

Nessun nome più di quello di Buñuel fa rima con surrealismo quando si parla di cinema. Non che il regista spagnolo sia stato l’unico a scrivere, produrre e dirigere film durante i primi anni dell’esperienza surrealista: Man Ray, Duchamp, Cocteau e anche Artaud (in qualità di sceneggiatore) realizzarono film e cortometraggi ispirati dalle tematiche e dalla poetica dell’avanguardia. Soltanto Buñuel, tuttavia, divenne un vero e riconosciuto autore cinematografico, oltre che il creatore di quello che è universalmente riconosciuto come il film-manifesto del cinema surrealista: «Un chien andalou» (1929), scritto insieme a Salvador Dalì e vero esempio di uso politico e provocatorio dell’immagine cinematografica e del montaggio (celeberrima la scena in cui un uomo, interpretato da Buñuel stesso, taglia l’occhio di una donna con un rasoio da barbiere).

Il regista spagnolo non abbracciò l’esperienza surrealista soltanto negli anni ruggenti dell’avanguardia, ma per tutta la vita continuò a scrivere e dirigere opere fondate sui concetti e le idee surrealiste. E cioè film caratterizzati da una narrazione nonsense e svagata, dove ogni concatenazione logica e dimensione del reale vengono abbandonate e le atmosfere dell’inconscio e del sogno prendono il sopravvento sulla realtà sensibile. Una serie di concetti ed elementi con cui tutti abbiamo confidenza e che nel corso degli anni – e della storia del cinema – sono usciti dai confini dell’avanguardia per strutturarsi in un vero e proprio stile.

È qualcosa che trascende l’audacia, l’estremismo e l’innovazione legate alle spinte avanguardistiche della prima ora e che nel tempo ha trovato il modo di affermarsi come un genere cinematografico consolidato. Tanto che nel corso del Novecento – e ancora oggi – tantissimi registi hanno usato e continuano a usare inserti surrealisti nei loro film (da Hitchcock a Fellini e Jacques Tati, fino a Polanski, Cronenberg, Lynch) o confezionano opere completamente surrealiste, come Alejandro Jodorowsky o, in tempi più recenti, il filmmaker francese Quentin Dupieux (che, noto anche con lo pseudonimo di Mr. Oizo, è stato autore di brani electro house molto celebri negli anni Novanta).

Insomma, l’estetica e lo stile narrativo del surrealismo hanno avuto una fortuna unica, non paragonabile a quella delle altre avanguardie storiche, e si sono fissate nell’immaginario degli spettatori in maniera indelebile. La popolarità di questo genere è forse dovuta alla sua capacità di rimanere sempre attuale, di mantenere intatta la propria forza dirompente e impetuosa e di lanciare messaggi potenti. Ma anche di non aver mai smarrito la dimensione politica che lo ha caratterizzato fin dalle origini.

È infatti il concetto di scardinamento delle regole comunemente accettate e legate al conformismo borghese e aristocratico a essere alla base delle teorie surrealiste. L’idea è quella che a un’infrazione – e conseguente destrutturazione – delle norme del racconto tradizionale che il surrealismo opera sistematicamente, corrisponda uno sconvolgimento dei rituali e delle consuetudini ideologiche, politiche e anche religiose delle classi sociali più conservatrici.

Per questo motivo, soprattutto nei film di Buñuel, a essere messi al centro del racconto sono quasi sempre esponenti dell’alta borghesia e delle istituzioni civili, militari e religiose. Proprio come ne «L’angelo sterminatore», una delle vette assolute del cinema del regista spagnolo. Il film – ambientato in Messico, dove Buñuel visse in esilio per tutta la seconda metà della propria vita – racconta appunto di un gruppo di persone dell’alta società che dopo una serata a teatro si reca a una cena di gala nell’elegante villa di proprietà di una ricca famiglia. Senza alcun motivo logico, la servitù abbandona il luogo. Gli invitati, che assistono a una serie di fatti insoliti come l’apparire di un gregge di pecore, si trattengono più del dovuto e quando la mattina seguente decidono di andarsene si accorgono di non essere in grado di farlo. Nonostante la porta sia aperta, infatti, nessuno riesce ad attraversarla.

Il passare dei giorni, il conseguente nervosismo, la stanchezza e l’atmosfera conflittuale che si generano, rendono la convivenza sempre più tesa, finché uno degli ospiti viene trovato morto. Alla fine, il modo per uscire dall’abitazione si trova, ma è una liberazione del tutto illusoria. Trovatisi di nuovo tutti insieme nella vicina chiesa del paese, i protagonisti, insieme ad altri cittadini, dopo aver assistito alla messa non riescono a varcare il portone per uscire dall’edificio. Il tutto mentre per le strade la polizia reprime nel sangue una manifestazione e un altro gregge di pecore attraversa il cortile antistante la chiesa.

Cinico e spietato, ma anche lucido come mai, Buñuel con questo film dipinge un ritratto brutale del mondo alto borghese. Nel momento in cui la sorta di incantesimo che tiene tutti imprigionati nella grande stanza dei ricevimenti fa effetto, gli invitati si rivelano per quello che sono: meschini, invidiosi, opportunisti. Il paradosso e l’assurdo consentono al regista di esplorare l’animo umano nel profondo e, attraverso un simbolismo estremamente accentuato, mettere in risalto tutta la vacuità e lo squallore della classe padrona. Una classe che è metafora di un mondo ammuffito e succube dei suoi stessi rituali e della propria apparenza. Un archetipo tratteggiato in modo talmente sottile e preciso che sembra poter essere esportato fuori dal Messico degli anni Sessanta e diventare vero in ogni luogo e in ogni tempo. Perché la forza più grande di un film come «L’angelo sterminatore» è proprio quella di essere attuale anche ad anni di distanza.

Visto oggi, il film di Buñuel è un’opera di eccezionale freschezza e coerenza narrativa, che trasmette un senso di smarrimento e un gusto decadente incredibilmente potenti. Ma è capace anche di tenere un ritmo incalzante che non si esaurisce e non stanca, nonostante la difficoltà da parte degli autori nel dover gestire un racconto ambientato nella stessa stanza per quasi un’ora e mezza.

È, in definitiva, la potenza mistificatoria di un’arte tanto ricca di soluzioni visive eccentriche, trucchi e possibilità di finzione a creare il senso di imprigionamento e soffocamento che domina la messinscena, dando al film le sembianze di un vero e proprio horror. Novanta minuti di puro cinema in cui, come evoca il titolo, la morte – che Buñuel richiama in senso biblico, ma descrive e filma in maniera totalmente laica e persino canzonatoria, mostrandone la beffarda ineluttabilità – sembra essere l’unico evento reale, tangibile e concreto. Mentre tutto il resto evapora come in un lungo e interminabile sogno.

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