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Quattro film per capire il presente tra visioni, ferite e memoria

Articolo. Quattro sguardi d’autore radicalmente diversi, ma legati da un solo filo rosso: quello che unisce il cinema alla realtà

Lettura 5 min.
Una battaglia dopo l’altra

Dalla potenza visionaria di Paul Thomas Anderson alle sorprese del nuovo cinema italiano, fino alla testimonianza dolorosa sulla strage di Gaza: oggi analizziamo quattro film diversi ma necessari, che mettono in scena storie, paesaggi e ferite del presente.

«Una battaglia dopo l’altra» di Paul Thomas Anderson

Uno dei film più attesi dell’anno, firmato dal regista più grande della sua generazione e del cinema americano contemporaneo. Paul Thomas Anderson, che non fa mai un film uguale all’altro, adatta per la seconda volta un’opera di Thomas Pynchon: il fluviale romanzo «Vineland» (la prima volta era stato «Vizio di forma», portato sullo schermo nel 2014), ribaltandolo completamente. La storia è quella del rivoluzionario Bob Ferguson, alias Ghetto Pat/Rocket Man (Leonardo DiCaprio), affiliato al gruppo eversivo French 75 come specialista bombarolo, che dopo i primi anni di attivismo – e una relazione con la compagna Perfidia Beverly Hills da cui nasce anche una figlia – sceglie la clandestinità. Si separa da Perfidia e cresce da solo la piccola Willa, lontano da tutto.

Sedici anni dopo l’FBI, e soprattutto il colonnello Lockjaw (Sean Penn), non ha smesso di cercarlo. Così Bob e la figlia adolescente sono costretti a fuggire e a fare i conti con un passato che non smette mai di tornare. Il film più costoso di Anderson (130 milioni di dollari, di cui 25 solo per il cachet di DiCaprio) è anche un’opera ironica, stralunata e disordinata come nessun’altra del regista californiano. Un film che ricalca lo stile «pynchoniano», ma che al tempo stesso si nutre di richiami al presente e al passato dell’America: quella trumpiana, che affiora in filigrana; quella della tradizione, con l’esercito e i suoi apparati coercitivi, le organizzazioni suprematiste e razziste del Sud da una parte e dall’altra l’attivismo per i diritti civili e la società multietnica. Tutto si mescola fino a diventare allo stesso tempo un affresco e un’astrazione del contemporaneo, anche se «Una battaglia dopo l’altra» è soprattutto un film dal ritmo infuocato, un viaggio nel cinema più autentico e ostinato, girato ancora rigorosamente in pellicola, che dura quasi tre ore senza annoiare nemmeno per un secondo. Pochissimi registi credono ancora che il cinema sia il luogo in cui germinano e resistono le storie. Anderson è uno di loro e quasi nessuno oggi sa raccontare queste storie come lui. Imperdibile.

Durata: 2h24
In programmazione: Conca Verde, Uci Orio e Curno, Arcadia Stezzano, Anteo Treviglio e Starplex Romano

«Le città di pianura» di Francesco Sossai

Presentato al Festival di Cannes lo scorso maggio, «Le città di pianura» è una delle sorprese più interessanti del cinema italiano contemporaneo. Trentaseienne, originario delle Dolomiti bellunesi, Sossai firma il suo secondo lungometraggio e racconta la storia di due impenitenti beoni sulla cinquantina, Carlo (detto Carlobianchi) e Doriano, che passano le notti girando per i localacci del basso Veneto a bere “l’ultimo” bicchiere. Durante uno dei loro giri notturni, a Venezia, i due si imbattono in Giulio, giovane studente di architettura fuori sede, che, un po’ per caso e un po’ per scherzo – e decisamente controvoglia – decide di unirsi al duo e al loro peregrinare senza meta per un’intera giornata. Fra situazioni paradossali, incontri bizzarri e scenette improvvisate, l’improbabile trio finirà per creare un legame sorprendente e inatteso, trovando anche un’insospettabile intesa.

La trama, che richiama vagamente «Il sorpasso» di Risi, è nella sua semplicità uno dei punti di forza del film: racconta personaggi ordinari che cercano lo straordinario in un mondo che non riserva sorprese né misteri. Come suggerisce il titolo però, il film è soprattutto una riflessione sul Veneto, sulla sua geografia, i suoi spazi e il suo carattere cangiante. La pianura padana orientale – evocata, per esempio, nell’episodio con il Conte che rischia di vedere espropriata la propria villa a causa della costruzione di un’autostrada – è destinata a cambiare profondamente: presto non resterà più nulla, solo un’infrastruttura enorme e impersonale. Quello che sembra un film piccolo diventa così una meditazione sul territorio del nostro Paese, soprattutto del Nord, e sull’uso che ne facciamo. Nessuna retorica, nessuna tirata ecologica, solo la presa di coscienza di un mondo che non è più capace di guardarsi. Lo stupore che Carlobianchi e Doriano provano nel finale davanti alla Tomba Brion di Carlo Scarpa è forse il segno di questo stupore perduto: un’emozione che tutti hanno smarrito, ma che, a volte, riesce ancora ad affiorare.

Durata: 1h38
In programmazione: Conca Verde

«Testa o croce?» di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis

Nella sezione del Festival di Cannes denominata «Un Certain Regard», in cui era presente «Le città di pianura», i film italiani erano due, e l’altro era «Testa o croce?» di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, coppia di registi con formazione internazionale (il primo è nato negli Stati Uniti e entrambi hanno studiato regia a New York) e artisticamente insieme dal 2013. L’opera è sorprendente e intelligentissima, capace di ribaltare e mettere in discussione la tradizione del western all’italiana. Il film, ambientato nei primi del Novecento a Roma e dintorni, racconta la storia del buttero Santino (Alessandro Borghi), che sfida i cowboy americani del circo itinerante di Buffalo Bill, giunto in Italia. Tuttavia, un ufficiale dell’esercito italiano gli aveva ordinato di perdere e la sua disobbedienza lo costringe a una fuga disperata insieme a Rosa (Nadia Tereszkiewicz), moglie dell’ufficiale, che nel frattempo si è innamorata di lui. Le vicende lo porteranno a unirsi a un gruppo di anarchici sabotatori che lo eleggeranno loro eroe rivoluzionario, mentre Buffalo Bill, assoldato dal padre dell’ufficiale ucciso, darà loro la caccia.

I due registi offrono una rielaborazione estremamente raffinata del genere western. Partendo da un aneddoto storico – forse un po’ romanzato, ma ormai diventato leggenda – quello dei butteri tosco-laziali che sconfissero i cowboy americani, costruiscono, o meglio de-costruiscono, il mito della frontiera. Raccontano un vero e proprio “colonialismo di ritorno” perché le storie che ci raccontiamo prima o poi ci ritornano indietro, ma in forma culturale. Qui non ci sono i deserti o gli scenari che imitano la Monument Valley degli spaghetti western, ma un paesaggio italiano che ospita storie altrettanto complesse: un paese giovane, spaccato e classista, in cui ribollono sentimenti di ribellione. Il racconto mescola elementi da romanzo di appendice, magie allucinatorie da «Mille e una notte», riferimenti al «Decameron» e tratti collodiani, riferimenti narrativi profondamente italiani e legati alla nostra tradizione. Insomma, «Testa o croce?» è un film che coinvolge, intrattiene e al contempo permette di riflettere su un genere che, forse per la prima volta, dimostra di poter raccontare autenticamente anche la nostra di storia.

Durata: (1h57)
In programmazione: Capitol e Arcadia Stezzano

«La voce di Hind Rajab» di Kawthar ibn Haniyya

Il film che ha sconvolto la Mostra del Cinema di Venezia lo scorso mese racconta la storia vera della morte di Hanood Rajab, detta Hind, una bambina di 5 anni uccisa dall’esercito israeliano insieme agli zii, a tre cugini e a due soccorritori della Mezzaluna Rossa durante l’occupazione di Gaza, il 24 gennaio 2024, nel nord della Striscia. La piccola Hind si trovava in auto con la famiglia degli zii nel tentativo di lasciare il quartiere Tel Hawa, occupato dalle forze armate israeliane, quando un carro armato ha aperto il fuoco sull’auto, uccidendo tutti tranne lei. La bambina ha immediatamente contattato i genitori i quali, successivamente, hanno coinvolto il quartier generale della Mezzaluna Rossa, che per ore ha cercato di salvarla. Tuttavia, senza il via libera dell’esercito israeliano, nessuna ambulanza poteva entrare nel quartiere senza rischiare di essere colpita. In assenza di questo permesso, le conversazioni tra gli operatori del soccorso e la piccola Hind sono durate ore interminabili, durante le quali la bambina è rimasta in auto circondata dai cadaveri dei familiari. Quando finalmente il via libera è arrivato e l’ambulanza, distante solo otto minuti, ha potuto raggiungerla, un carro armato israeliano ha nuovamente aperto il fuoco sull’ambulanza, uccidendo i due paramedici e, poco dopo, anche la piccola Hind.

Ci scuseranno coloro che non hanno ancora visto il film per aver rivelato la trama per intero (cosa che normalmente evitiamo), ma in questo caso non ci sono misteri o spoiler da nascondere. La vicenda di Hind, purtroppo, è già nota ed è uno dei punti chiave della strage in atto a Gaza. Essa ha rivelato al mondo ciò che l’esercito israeliano sta facendo in Palestina senza alcuna impunità o scrupolo morale: uccidere indiscriminatamente civili e bambini, sparare su ospedali, ambulanze, soccorritori e, come testimoniato, anche giornalisti. La regista tunisina Kawthar ibn Haniyya ha utilizzato le registrazioni originali, e per tutto il film ascoltiamo la vera voce di Hind, al telefono con i soccorritori che, disperati e impotenti, cercano di rassicurarla promettendo che presto interverranno per salvarla. È una visione dolorosa, francamente straziante, quella de «La voce di Hind Rajab», capace di spezzare il cuore e strappare lacrime. La scelta di rimettere in scena la vicenda può sembrare eccessiva al limite della forzatura, ma costituisce un atto di verità che squarcia il velo dell’ipocrisia e della narrazione dominante su Gaza in questi mesi, forse necessario. A volte il cinema, pur con tutte le sue imperfezioni, serve anche a questo. Questo film è una testimonianza irrinunciabile e imperdibile, qualunque sia il modo in cui la si pensi.

Durata: 1h29
In programmazione: Conca Verde, Uci Orio e Curno, Arcadia Stezzano, Anteo Treviglio e Starplex Romano

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