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In Iran tutta la società è costruita sulla poesia

Articolo. La poesia in Iran è un patrimonio immateriale molto ricco, un retaggio di cui gli abitanti sono consapevoli fin dall’infanzia. La poesia è un modo di esistere, un modo di relazionarsi e concepire il mondo, ma anche un atto politico

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Il mausoleo di Hafez

Non esiste amore per la poesia più grande di quello professato dall’Iran. Non è necessario conoscere a fondo la poesia persiana per capirlo. Chiunque va in Iran lo sa: i mausolei dei poeti, aperti dalle 8 del mattino alle 11 della sera, sono pieni. Umar Khayyām e Farid al-Din ‘Attar a Nishapur, Firdusi a Tus, Saadi e Hafez a Shiraz. Gli iraniani da tutte le parti del Paese vi si recano per recitare i versi dei poeti, per ricordarli con la musica, ma anche per mangiare e bere, cantare, vedere la luna e riflettere sulla vita e sulla morte. All’età di tre anni, i bambini iniziano a giocare con la poesia. Un adulto dice una parola e, utilizzando la sua ultima lettera, il bambino inizia il verso di una poesia; poi un altro usa l’ultima lettera e recita un altro verso, e così via all’infinito. A volte si usano parole isolate. Una volta a scuola, per far giocare i bambini, ho scelto la parola «rend», cioè «bohémien»: più di dieci bambini hanno recitato poesie di diversi poeti iraniani usando questo termine.

Le ragioni di questo rapporto con la poesia sono varie: innanzitutto, la poesia è un modo di esistere. È il linguaggio delle rivoluzioni e delle rivelazioni grazie al suo principio sociale e rivoluzionario, è un’azione politica, un atto di ribellione e una forma di potere. Molte religioni credono che il mondo sia stato creato dalle parole: le cose sono parole, una montagna è una parola, un fiume è un’altra, un paesaggio è una frase. Se la poesia è stata il primo linguaggio degli uomini, e se il linguaggio è nella sua essenza un’operazione poetica che vede il mondo come una rete di simboli e di relazioni, allora la società è costruita sulla poesia.

La coerenza della poesia non può essere compresa attraverso argomenti, ragioni o logica. La sua spiegazione principale viene dal ritmo. Poeta, lettore e ascoltatore prestano attenzione alla poesia perché ascoltano un ritmo, una vibrazione. Ricevono qualcosa ascoltando e lo trasmettono. Per ascoltare bisogna rilassarsi, prestare attenzione al flusso delle parole, alle intensità sonore. Gli intervalli, i silenzi e le ripetizioni non rendono la poesia incompleta ma parlano piuttosto dell’incompleto.

È difficile parlare di ciò che non sappiamo. Per questo, fin dall’origine del linguaggio, la poesia è stata più vicina al mistero e all’enigma. La poesia suggerisce, evoca sentimenti dormienti e trasmette qualcosa di universale, proprio come la filosofia. Di più: la poesia è intimamente legata alla memoria. Per secoli è sopravvissuta grazie alla trasmissione orale. Rima, ritmo, ripetizioni, ritornelli, cadenze, sono alcune delle formule melodiche che ne hanno aiutato la trasmissione.

Inoltre, la memoria agisce attraverso le immagini. Non ricordiamo solo perché ascoltiamo, ma anche perché vediamo. Il divieto imposto dall’Islam di ritrarre la figura umana ha invitato a fare maggiore attenzione alle parole. Gli iraniani hanno imparato a creare il loro immaginario visivo e a costruire la realtà grazie alle parole, alla poesia. Quanto maggiori sono le mancanze, tanto più devi immaginare, e quanto più immagini, tanto più intensa diventa la percezione e, con essa, la memoria e la potenza. Ad esempio, un fiore negli aridi paesaggi dell’Iran è così raro che bisogna immaginarlo. Quando è immaginato, viene ancora più amato.

Hafez: un poeta iraniano da conoscere

Hafez (1320-1389) è il poeta iraniano per eccellenza, perché abbraccia fino all’estremo questa tradizione visiva. Il suo lavoro con la parola è unico, perché sfrutta al massimo tutte le possibilità delle figure retoriche. Ogni parola diventa così capace di racchiudere tanti mondi intrecciati: c’è una tale potenza simbolica, un’evocazione e una suggestione tali da lasciare il lettore e l’ascoltatore senza fiato. Si dice che quando apri a caso il suo libro, il «Divān», la poesia che ne emerge predice il tuo destino. Non potrebbe essere diversamente, poiché le parole sono così misteriose che ognuna di esse nasconde almeno due significati.

Si sa molto poco del poeta di Shiraz. Non ci sono prove che fosse un copista, un insegnante o un recitatore; sappiamo solo che rimase vicino alla corte e all’ambiente sufi e che era un cittadino colto formato in teologia, diritto e spiritualità. Queste affermazioni sono estratte e dedotte da un’attenta lettura del suo Divān. Hafez è il maestro indiscutibile del ghazal: con questa forma strofica canta l’amore, il vino, la natura e l’enigma del destino. Fino ad allora il ghazal si era occupato di un solo tema, ma Hafez lo ampliò e fece spazio alla sua grande fantasia poetica, introducendo più temi e idealizzando i precedenti.

È impossibile sapere esattamente se la sua ispirazione sia mistica o profana. Questa incertezza, l’estrema musicalità e armonia del suo linguaggio e del suo stile ‒ che deriva dall’origine del ghazal, concepito per essere cantato ‒ e la sua sottigliezza spirituale sono il grande segreto della sua poesia, così come l’estrema difficoltà, quasi impossibilità, di una traduzione precisa, data la complessità simbolica e la pluralità di significati delle parole.

Gli iraniani imparano il suo grande «Divān» (500 ghazal) fin dall’infanzia. Il vino, l’amore, le rose, l’ebbrezza, il giardino sono temi che si ripetono e modi per godere dell’effimero e della fugacità della vita. Ma sono anche elementi che nascondono, grazie alla pluralità di significati delle parole e alle figure retoriche, una critica nascosta alla società. Nella tomba di Hafez non c’è visitatore che non reciti a memoria i suoi versi; a Shiraz, in Iran, nessuno dimentica la sua poesia. Attraverso il ricordo delle sue poesie e il loro costante aggiornamento, risulta chiaro come la cultura persiana sia una cultura della memoria. L’armonia tesa della poesia di Hafez è l’immagine delle dualità e delle bipolarità che da secoli convivono nella quotidianità degli iraniani.

«Vediamo, può darsi che, nella sua cintura, una mano che si può aggiustare / Seduti nel sangue del cuore, come il rosso rubino, siamo», «All’alba entravo nel giardino per prendere un soffio di rose / Per rinfrescarmi un po’ la testa, come l’usignolo malato di Amore». In tutti gli oggetti emerge la traccia e la bellezza del supremo. «Dov’è l’iniziato che comprende il linguaggio delle iridi / che può chiedere perché se n’è andato e perché è tornato?», «La brezza del ricciolo dell’amato ci illumina gli occhi / affinché, o Dio, questo incontro non soccomba a un vento impetuoso». Sebbene Hafez conosca il Corano a memoria, sarà l’amore a venirgli in aiuto e a fare di lui un poeta.

Il neoplatonismo si basa sugli insegnamenti spirituali e cosmologici di Platone e dei primi platonici, come Plotino, che beve dalla fontana degli insegnamenti della filosofia greca, persiana, indiana ed egiziana. Nel Medioevo, il neoplatonismo fu ripreso e difeso da al-Gazali, Avicenna, al-Kindi, al-Farabi e Maimonide, tra gli altri. Nel Rinascimento riprese vita con l’acquisizione, la traduzione e la diffusione dei testi neoplatonici greci e arabi. Il linguaggio neoplatonico è quello dell’allegoria, che cerca di fornire un’immagine a ciò che ne manca, di rendere visibile ciò che è concettuale. Insomma, trovare negli oggetti e nelle esperienze umane un segno di ciò che Plotino chiama l’essere o l’Uno.

Secondo l’autore francese Charles Henri de Fouchécour l’influenza di Plotino sulla poesia e sulla filosofia iraniana è fondamentale. La sua idea di processione e ascensione verso l’Uno fu ripresa da Avicenna, come emanazione di un influsso o potere luminoso: la luce e l’oscurità sono emanazioni divine. Sono immagini che evocano, che suggeriscono e che “illuminano” la nostra mente. Oggi come nei secoli scorsi.

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