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A volte ritornano (e meno male). Il nuovo lavoro dei Lowinsky

Intervista. A tre anni dall’ultimo disco, torna il progetto collettivo di Carlo Pinchetti. «Triste Sbaglio Sempre Lontani» uscirà il prossimo 27 dicembre con release party all’Ink Club il 29. Tra Dino Buzzati, i Velvet Underground e tante altre cose

Lettura 5 min.

Sembrava tutto finito per i Lowinsky dopo l’ottimo « Oggetti Smarriti » del 2020, con una stand-by apparentemente definitiva. E invece rieccoci qua, con un Carlo Pinchetti (ri)colmo di entusiasmo e di tanti nuovi pezzi che riprende in mano il suo progetto, più un collettivo fluido che una vera e propria band. Il 25 settembre è arrivato uno split con Helsinki, progetto di Drew McConnell (bassista di Babyshambles e Liam Gallagher): «Doppio Gioco» il singolo dei Lowinsky, «Homo Nymph» il corrispettivo del musicista irlandese.

Giusto l’antipasto a un vero e proprio album, intitolato «Triste Sbaglio Sempre Lontani», che uscirà il prossimo 27 dicembre con release party all’Ink Club il 29. Sei pezzi per 24 minuti di durata che spaziano tra il consueto indie (nel senso primigenio del termine) a base di intimità cantautorali ma anche qualche raspata rock in più. Abbiamo raggiunto Carlo per una chiacchierata su questa graditissima resurrezione.

LR: Raccontaci il percorso che da «Oggetti Smarriti» del 2020 ti e vi ha portati a questo nuovo album…

CP: È un percorso un po’ strano… «Oggetti Smarriti» è uscito a febbraio 2020, quindi siamo riusciti giusto a farne la presentazione prima che il mondo si fermasse. Da lì sono successe un sacco di cose: provare con una band è diventato praticamente impossibile, così io mi sono messo a fare le mie cose soliste chitarra e voce. Poi a un certo punto sembrava che si fosse perso un po’ l’interesse a suonare come band, così avevamo decretato pubblicamente la fine dei Lowinsky. Poi io ho riflettuto, avevo delle canzoni nuove che avevo iniziato a registrare, e mi sono accorto che volevo fossero delle canzoni “da band”. Uscire a mio nome con una band per qualche ragione strana, probabilmente paturnie mie, non mi convinceva del tutto, così ho consultato un po’ di amici chiedendo un parere. Tutti mi hanno detto che in fin dei conti Lowinsky è un nome che ho inventato io, fondamentalmente sono io con delle altre persone e amici che in quel momento suonano con me. Questo mi ha un po’ rasserenato. Quindi di quella formazione del 2020 siamo solo io e Tasso, che non aveva registrato niente di «Oggetti Smarriti» e non ha registrato niente nemmeno di questo disco (ride, ndr), quindi è proprio tutto molto fluido. Ho la fortuna di avere intorno un sacco di gente che suona, e che volentieri suona con me. Così ho coinvolto una quindicina circa di persone tra quelle che hanno fatto il disco e quelle che lo suoneranno. Diciamo che si tratta di un collettivo che mi gira intorno.

LR: Sei diventato tipo i Cure…

CP: Sì, quella roba lì. Oppure gli Shins, o i Lemonheads. Alla fine è una persona con le sue canzoni che ha degli amici che suonano con lei. Io ho questa fortuna qua, quando le persone si stuferanno di suonare con me dovrò decidere se continuare da solo o piantarla lì.

LR: Musicalmente rispetto a «Oggetti Smarriti» c’è stato qualche cambiamento, qualche evoluzione?

CP: Sicuramente «Oggetti Smarriti» era un po’ più classico, sia nella lunghezza che nei suoni: era un classico disco indie-rock, registrato secondo me molto bene. Questo invece è registrato altrettanto bene ma in modalità completamente diversa, nel senso che io ho fatto prima delle parti di voce e chitarra, poi sono arrivati altri che ci hanno aggiunto sopra cose, insomma è un disco molto stratificato, anche se a sentirlo magari non sembrerebbe. A livello compositivo risente abbastanza della mia esperienza solista degli ultimi anni: è un po’ un mash-up tra «Oggetti Smarriti» e un disco mio da solista. Secondo me pur essendo più breve dell’altro è più completo, musicalmente.

LR: È sicuramente un formato insolito: mini-album, EP, cos’è?

CP: Da una parte è una sorta di “concept”, tra virgolette: non nel senso di «Tommy» degli Who, però è molto legato ai temi di Dino Buzzati nel «Deserto dei Tartari», quindi la difficoltà nel comunicare col prossimo, la difficoltà nel concepire che non serve necessariamente preoccuparsi troppo dell’obiettivo della propria vita perché poi alla fine la vita è breve, eccetera. In queste tematiche è racchiuso il senso delle canzoni del disco. A un certo punto avevo queste canzoni e mi sono chiesto se fosse giusto andare avanti oppure no. Andare avanti mi sembrava un po’ una forzatura che non ci stava, per me era già completo così.

LR: Nonostante questa brevità, come dicevi, è probabilmente più completo perché contiene pezzi anche molto diversi tra loro: quello un po’ più rock, quello un po’ più pop, eccetera. Se dovessi sceglierne uno, su quale andresti?

CP: Probabilmente «Doppio Gioco», che è uscito come primo singolo. Secondo me è un gran bel pezzo ed è uscito in maniera molto naturale e spontanea. Su questo sono molto felice di aver coinvolto Linda in maniera decisiva, visto che la voce “portante” è la sua e con quel pezzo si sposa benissimo. Io ho passato un sacco di anni ultimamente ad ascoltare il disco dei Better Oblivion Community Center, il disco che Conor Oberst ha fatto con Phoebe Bridges, secondo me un album bellissimo, tra i più belli degli ultimi anni, e ho voluto un po’ provare a riprodurre quelle atmosfere lì, cosa che credo sia venuta abbastanza bene senza ovviamente voler fare una copia esatta.

LR: Altre ispirazioni che ti hanno guidato?

CP: In tutto quello che scrivo ci sono sempre i Replacements di fondo, che sono la mia passione. Poi sicuramente i Velvet Underground, che mi sono messo a riascoltare parecchio in quest’ultimo periodo. Un gruppo che conosciamo tutti, ne facevamo una cover («Who Loves the Sun») con i Finisterre, li ho ripresi in mano e con i pezzi più lenti è stato un po’ come riascoltarli per la prima volta. E poi un disco tanto clamoroso quanto poco conosciuto che è quello di Rogér Fakhr, un musicista libanese che ha fatto questo disco credo negli anni Settanta quando in Libano c’era tutto il casino che sappiamo. È un disco praticamente acustico, chitarra e voce, che aveva pubblicato da solo come audiocassetta, poi sparito. Due anni fa un’etichetta attenta ai suoni mediorientali e africani l’ha trovato e ha detto “dobbiamo assolutamente stamparlo” e così l’hanno ri-masterizzato, credo, e pubblicato. Secondo me è una roba incredibile, un po’ Nick Drake, ma molto particolare. C’è un pezzo che si chiama «Lady Rain» che è uno dei pezzi più belli che abbia mai sentito.

LR: C’è anche qualche influenza musicale di area non indie-cantautorale?

CP: Non da parte mia, però nel disco c’è il tocco molto importante di Claudio Turco, che è il cantante dei Soviet Malpensa, a cui di fatto ho affidato le canzoni nel senso che ho registrato e fatto registrare un po’ di cose, e poi gliele ho mandate dicendogli “fanne quello che vuoi”. Quindi tutti gli inserti di synth, tastiere e suoni “non convenzionali” per il genere è tutta farina del suo sacco. Quindi qualcosa c’è, anche se purtroppo non è roba mia perché i miei ascolti afferiscono sempre a quell’area, anche perché esce talmente tanto roba bella che non riesco a mettermi ad ascoltare altro. Però lui è più eclettico di me ed è riuscito a inserire un po’ di suoni nuovi rispetto alle mie solite produzioni.

LR: Compositivamente hai scritto i pezzi chitarra e voce o li hai pensati già in nuce con tutti gli altri strumenti?

CP: Chitarra e voce: melodie, accordi e testi. Poi ho più o meno guidato le persone che hanno collaborato nello spiegare quello che avevo in mente. Però cerco sempre di lasciare molta libertà alla gente che collabora con me, perché comunque mi fa piacere che uno si senta coinvolto nell’operazione. Si parla di suonare per passione, per quanto lo facciamo come dei professionisti. Pertanto non voglio trattare chi suona con me come un “semplice” turnista dicendogli esattamente cosa fare. Un po’ per rispetto verso chi suona con me, un po’ perché sono convinto che poi quando lasci uno libero, se è una persona di cui ti fidi, finisce col saltar fuori qualcosa di bello, come poi è effettivamente stato.

LR: Chi ha realizzato la grafica?

CP: Giorgia Barbieri, che è un’amica, grafica e illustratrice che collabora molto con Moquette Records. Io le ho mandato le canzoni, le ho detto che l’ispirazione era l’atmosfera del «Deserto dei Tartari», e se ne è uscita con due proposte: una è quella che è effettivamente diventata quella definitiva, mentre l’altra l’aveva realizzata con l’intelligenza artificiale, ovviamente sotto la sua guida. Me le ha sottoposte entrambe senza dirmi quale delle due avesse fatto lei. Io ho comunque scelto subito quella “umana”. A me piace moltissimo collaborare con illustratori di livello, anche per il primo singolo Holdenaccio ha fatto un’illustrazione bellissima. Alla fine se stampi cose fisiche nel 2023 dev’essere qualcosa di rilevante a livello artistico, non solo un contenitore di musica.

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