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Dopo anni da sideman, Simone Sello sente il bisogno di raccontare la musica così come la vede lui

Intervista. Simone Sello, uno dei più importanti musicisti italiani attualmente in attività nel mercato internazionale, ci ha parlato dei suoi nuovi progetti e del rapporto che lo lega ad uno studio di produzione bergamasco

Lettura 4 min.
Simone Sello (penultimo da destra) con il team di lavoro di 1901 Factory

Spesso, pensando al mondo della musica, tendiamo a prendere in considerazione solo le superstar che, dal centro del palco, si esibiscono donando la propria musica al pubblico. Una parte importantissima del lavoro, sia sul palco sia in studio di registrazione, è svolto però dai musicisti esecutori, ovvero quei professionisti che affiancano l’autore del brano mettendo a disposizione la propria tecnica al fine di creare l’arrangiamento ideale o rendere possibile la riproduzione di un brano dal vivo. Per quanto riguarda i musicisti italiani della cosiddetta musica leggera, quando si parla di esecutori non si può non parlare di Simone Sello. Chitarrista classe ‘68 attualmente residente negli Stati Uniti, Sello ha collaborato con alcuni dei più grandi nomi della musica italiana - da Vasco Rossi a Renato Zero - e internazionale - Billy Sheehan, Aaron Carter, e molti altri, oltre ad importanti collaborazioni con la Disney -. Da qualche tempo, Sello ha avviato un progetto chiamato «The Storytellers Project», uno spettacolo in cui suggestioni uditive e visive si mescolano per creare un unico grande viaggio che, nella serata del 12 aprile, è stato proposto negli studi 1901 Factory di Alzano Lombardo, luogo a cui Sello è molto legato.

«The Storytellers Project» ad Alzano Lombardo

Lo show organizzato da 1901 Factory all’interno della sua area eventi, è stato pensato per sfruttare al meglio le possibilità del “limbo”, il cuore pulsante dello studio. Si tratta di una struttura con pareti e pavimentazione totalmente bianchi, ideale tanto per shooting e riprese video quanto per ospitare proiezioni e giochi di luce, di conseguenza particolarmente adatto per l’esprimere al meglio la doppia natura uditiva e visiva del «The Storytellers Project». Simone Sello non è stato però da solo sul palco. I suoi compagni in questo viaggio audiovisivo sono stati infatti Marco Torri alla batteria, Davide Perini al basso, Giancarlo Corcillo alla fisarmonica e Francesco James Dini alla chitarra e alla voce. Non si pensi però ad un percorso musicale dal tocco leggero e onirico. Durante le cinque tracce che compongono il progetto, a fare da cardine è sempre un forte dialogo tra rock e blues piacevolmente sporcato di tanto in tanto da momenti elettronici.

Voce narrante della serata e infiltrato speciale nella mente dell’artista per svelarne pensieri e ispirazioni è stato il produttore e chitarrista Giovanni Maggiore, in arte Giuvazza. Molti gli omaggi durante la serata, dal tributo al maestro Ennio Morricone - che presto prenderà forma anche a livello di registrazione - alla dedica al chitarrista e presentatore televisivo Richard Benson, con cui Sello ha sempre mantenuto negli anni un rapporto di collaborazione e amicizia.

Abbiamo intervistato Simone Sella per comprendere meglio le basi su cui poggia il suo nuovo progetto.

GT: Parliamo del tuo show «The Storytellers Project». Di cosa si tratta esattamente?

SS: «The Storytellers Project» è uno spettacolo composto da cinque brani per lo più strumentali, accompagnati da proiezioni video originali che ho realizzato io stesso. Sabato 12 Aprile l’ho portato negli Studi del 1901 Factory, dove lavora un team davvero speciale. Vorrei citarne alcuni, anche se non me li ricordo tutti: Francesco James Dini, la nostra rockstar preferita, Marco Torri – un batterista infernale – e poi Lucio Bianchetti, Oscar, Luca, che si occupano della parte audio e video. Lì c’è uno spazio unico chiamato «limbo», attrezzato per la registrazione e la creazione di contenuti video, musicali e non solo.

GT: Dopo lo show principale c’è stata anche una dedica a Ennio Morricone, vuoi parlarcene?

SS: Sì, più che una dedica, è un’ispirazione. Morricone è un patrimonio nazionale, una figura importantissima per tutti noi italiani, ancor di più per chi vive all’estero, come me. È una di quelle personalità che hanno superato i confini nazionali per diventare icone globali. La seconda parte dello spettacolo si ispira a quel mondo musicale legato allo spaghetti western, che Morricone ha contribuito a rendere leggendario, contaminato però con influenze elettroniche e moderne. Questa sezione include alcuni brani che saranno pubblicati a breve in un progetto dal titolo «Paparazzi, Izakayas and Cowboy».

GT: Nel corso degli anni hai collezionato collaborazioni importantissime come esecutore per grandi artisti internazionali. Cosa ti ha spinto ad uscire da quel mondo per creare «The Storytellers Project»?

SS: Suonare per gli altri è bellissimo. Mi sento fortunato ad aver potuto vivere di musica. Ma c’è anche un altro aspetto: io ho iniziato perché volevo esprimere me stesso, le mie idee. Dopo tanti anni da sideman, ho sentito il bisogno di raccontare la mia visione personale. Per farlo, sto sperimentando un formato che unisce musica e video, dove le immagini sono costruite sulla musica e non il contrario. Queste creano una sorta di diario visivo, con un montaggio che segue una logica più emotiva che narrativa, ispirata al flusso di coscienza. Chi vede lo spettacolo assiste a un racconto fatto di suggestioni, interpretabile in molti modi.

GT: Come sei arrivato ad Alzano Lombardo a collaborare con il «1901 Factory»?

SS: Tutto è cominciato tre anni fa con una telefonata da James, che all’epoca non conoscevo. Stavano lavorando a un progetto con un mio vecchio amico e collaboratore: Richard Benson. Richard era un personaggio unico, una figura della scena underground italiana, anche se era italo-inglese, e aveva avuto una carriera particolare. Negli anni ’80 era una sorta di youtuber ante litteram, con un programma di musica alternativa che si chiamava «L’ottava nota» che andava in onda in un’emittente televisiva romana e che tutti seguivamo. Negli anni 2000 è diventato un’icona del trash, forse anche per colpa della sua personalità forte e contraddittoria. Ma era un musicista vero, con un grande potenziale inespresso. Nel 2022 abbiamo iniziato a lavorare alla sua musica. Mi hanno chiamato come collaboratore esterno e ho accettato volentieri. Stavamo producendo un brano intitolato «Processione», ma purtroppo Richard si è ammalato prima che potessimo portare avanti il progetto. Alla fine, insieme a James e Marco, abbiamo deciso di terminarlo comunque, in suo onore.

GT: Qual è stato il tuo rapporto con Richard Benson?

SS: Richard mi ha fatto iniziare la carriera. La mia prima sessione di chitarra pagata fu per un film intitolato «L’Inceneritore», un film quasi fantasma ma molto interessante, con una colonna sonora composta da lui. E poi, grazie al suo programma televisivo, negli anni ’80, molti giovani musicisti come me scoprivano musica che non si trovava da nessun’altra parte. Oggi abbiamo YouTube e Spotify, ma allora no. L’informazione musicale era un tesoro raro, e Richard ne era uno dei pochi custodi.

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