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Stefano «Cisco» Bellotti, il tour per i 30 anni di «Riportando tutto a casa» arriva a Bergamo

Intervista. Domenica 31 agosto, l’ex frontman dei Modena City Ramblers si esibirà in piazzale degli alpini per i trent’anni del disco d’esordio del gruppo pubblicato nel 1994

Lettura 5 min.
Stefano Cisco Bellotti

Il primo che ascoltai fu proprio «Riportando tutto a casa». Scovai quell’album per caso, nella camera di mio fratello, in uno dei tanti pomeriggi della mia adolescenza. Incuriosito dalla copertina, lo portai subito nella mia stanza, per potermelo godere in santa pace, dopo cena. All’epoca, non avevo nemmeno sedici anni ed ero perdutamente innamorato di una mia compagna di classe. Quella sera, la malinconia di quell’amore non corrisposto prese forma nelle parole toccanti di «Ninnananna», che di quel disco era l’ultimo brano.

Da lì, non smisi più di ascoltare i Modena City Ramblers, le cui canzoni, spesso colonna sonora di amicizie e profondi ideali, si sono poi trasformate in trampolino di lancio verso quella personale (quanto viscerale) passione per l’Irlanda. Per questo, sono molto felice di aver intervistato Stefano «Cisco» Bellotti, che dei Modena, per più di un decennio, è stato il cantante (e il carismatico frontman) e che, alle ore 21 di domenica 31 agosto, in piazzale degli alpini, sarà ospite di NXT Bergamo con il tour «Riportando tutto a casa. Trent’anni dopo», che celebra l’anniversario di pubblicazione dell’immortale album uscito nel 1994.

FR: Cosa significa, per lei, «riportare tutto a casa»?

SCB: In una forma verbale diversa, è il titolo dell’album d’esordio mio e dei Modena City Ramblers (che cita «Bringing It All Back Home» di Bob Dylan, ndr), ma anche di una canzone, composta da me durante la pandemia di Covid-19. E se per quanto concerne l’album, pubblicato nel 1994, c’era la volontà di definirci come gruppo e di presentarci al grande pubblico, per quanto riguarda la canzone, invece, ho sentito l’esigenza di mettere a fuoco (e di omaggiare) la mia storia e quella della mia vecchia band, perché, a mio avviso, si stava un po’ sbiadendo. Ho quindi ravvivato i rapporti con alcuni ex componenti dei Modena e, l’anno scorso, a trent’anni dall’uscita del nostro primo disco, ho dato il via al tour che, a causa del grande successo riscosso, prosegue tutt’ora. «Riportando tutto a casa» è un inno di battaglia identitario, pieno di senso, che pone ogni cosa al proprio posto e dichiara chi sono.

FR: Da «In un giorno di pioggia» a «Il bicchiere dell’addio», passando per «Morte di un poeta»: l’Irlanda, con le sue atmosfere, il suo cantautorato e le sue danze popolari (jig e reel), che ruolo ha avuto per la sua poetica e per la sua musica?

SCB: L’Irlanda (con la sua cultura) fu la chiave di volta che rese possibile la mia entrata nei Modena City Ramblers. All’epoca, era un gruppo aperto, se così si può dire, formato da persone che desideravano divertirsi imitando i The Pogues. Una sera si esibirono a Carpi, città in cui vivevo: salii sul palco un po’ brillo e mi misi a cantare con loro alcune canzoni irlandesi. Insomma, mi unii alla band quasi per caso, ma senza l’Irlanda a far da catalizzatore, forse, oggi, racconterei una storia differente.

FR: Un immaginario, quello irlandese, che, nei suoi brani, si fonde con un altro immaginario, quello latino-americano. Come non dimenticare, per esempio, la canzone «Il ritorno di Paddy Garcia»?

SCB: Prendemmo spunto da una canzone dei The Pogues. Ci piaceva, inoltre, quella fusione fra il soprannome con cui gli inglesi, con disprezzo, chiamano gli irlandesi e il più celebre cognome messicano: un pistolero mezzo europeo, mezzo americano, che agiva nel nome della giustizia. A far da cornice, il realismo magico di alcuni dei nostri scrittori preferiti: Paco Ignacio Taibo II, Daniel Chavarría, Gabriel García Márquez.

FR: «Servono gambe salde in questi tempi/ Gambe forti per tempi incerti/ Servono testa dura e punti fermi/ Quando il mondo tutto intorno crolla», si dice ne «Il mulo». Quanto c’è di lei e quanto della gente d’Emilia in questo vademecum di sopravvivenza?

SCB: C’è tutto me stesso: il mio essere caparbio e cocciuto; il mio procedere a testa bassa, facendo quel che è giusto fare e trasformando i difetti in pregi. Una caratteristica che appartiene a diversi popoli, in Italia e nel mondo. Una volta uscito dai Modena City Ramblers, mi sono accorto che per qualcuno non ero più quello di prima. Non è stato facile. Ma eccomi qui: oggi sono in una tournée che, in pratica, dura da più di un anno, circondato da un sacco di gente, fra musicisti, amici e fan.

FR: Durante la pandemia, ha avviato sui social un appuntamento fisso con i suoi follower, in cui si esibiva in diretta dalla soffitta di casa sua. Da quell’esperienza, è nata l’idea di un nuovo album («Canzoni dalla soffitta», uscito poi nel 2021) e di una campagna di crowdfunding per supportarlo. La musica è ancora in grado di creare comunità?

SCB: Vorrei poter dire di sì, ma poi mi capita di ascoltare la musica che ascoltano i miei figli e, preoccupato più come padre che come musicista, mi viene da rispondere di no: i testi, sovente spesso di violenza, esaltano l’apparire e il possedere. Io credo che la musica dovrebbe smuovere le coscienze, ma noto che questo, oggi, non accade più. Sono le case discografiche che decidono e chi ha qualcosa di interessate da comunicare (penso, per esempio, a Ghali e alle sue bellissime canzoni di protesta), spesso viene isolato, perché dà fastidio. Chi decanta droga e bella vita, invece, fa carriera. È umiliante. Mi auguro possa ritornare presto una scuola cantautorale italiana.

FR: Nella commovente «Piccola figlia di Reggio» si parla di Genoeffa Cocconi, mamma dei sette fratelli Cervi e simbolo dell’impegno femminile negli anni della Resistenza. Ci può essere libertà senza memoria?

SCB: No, assolutamente no. Citando Carlo Lucarelli, «la memoria è come un muscolo: va allenata». In caso contrario, la storia si approfitterà di noi.

FR: Più di trent’anni fa, in «Quarant’anni», lei cantava i tanti problemi dell’Italia della prima e della seconda Repubblica. È cambiato qualcosa rispetto allora o, citando una sua canzone, siamo ancora nella «lunga notte»?

SCB: Tutto è peggiorato. C’era speranza e desiderio di cambiamento, all’epoca. Oggi, quasi più nessuno ha voglia di mettersi in gioco e di darsi da fare. I diritti sociali e i diritti civili sono spesso sotto attacco e la compassione verso i più deboli lentamente scema. Si respira rassegnazione e tanta mediocrità.

FR: Qual è, per lei, la canzone più significativa che ha composto?

SCB: Ce ne sono un paio: «I cento passi» e «Ebano». La prima, che è pure citata in alcuni testi scolastici, è forse la mia canzone più famosa. Spesso, ai concerti, anche coloro che non sono miei fan sfegatati si mettono a cantarla assieme a me. La seconda, la eseguo sempre ogni volta che suono: è un brano speciale per me, che, a causa della storia che narra, sempre mi emoziona.

FR: Lei ha viaggiato molto. Qual è stata l’avventura più assurda che le è capitata?

SCB: Ho viaggiato tanto, come musicista: un’esperienza, a livello umano, estremamente arricchente. Diversi sono i paesaggi che conservo nel cuore: quelli africani, dove ho incontrato Ebano (che mi ha raccontato la sua tragica storia) e il popolo sahrawi che, da cinquant’anni, vive in un campo profughi, ma anche quelli della Bolivia dove, con i Modena City Ramblers, sono andato a suonare per i trent’anni dalla morte di Che Guevara. Ricordo quella volta che noleggiammo un furgone perché, dal Guatemala, dovevamo dirigerci in Messico per un concerto. Non sapevamo, però, che i furgoni noleggiati non potevano oltrepassare il confine. Fummo costretti ad abbandonare il mezzo e a dirigerci a piedi in Messico, trasportando a mano quel che potevamo. Fu folle, ma anche molto bello.

FR: Cosa raffigura il tatuaggio che ha sul braccio destro?

SCB: È da tempo che ce l’ho: è il simbolo della Mano Negra (una mano posta davanti a una stella, ndr), la vecchia band di Manu Chao, avvolto da un fiore rosso. In realtà, non amo molto i tatuaggi, soprattutto da quando sono diventati di moda, ma ammetto che, anni fa, avevo pensato di farmene pure un altro, sul braccio sinistro. Mi sarebbe piaciuto tatuarmi: «Scritto e diretto da Woody Allen», in inglese. Nutro infatti un’immensa passione per le opere di Allen e la celebre dicitura, che inaugura l’inizio dei suoi film, mi ha sempre divertito.

FR: È grato alla vita?

SCB: Ogni giorno dico grazie alla vita, perché sono un inguaribile ottimista ma anche perché, fondamentalmente, sono un umanista: credo nelle persone. Le persone hanno la possibilità di migliorare la propria condizione e di cambiare la società, ma spesso non lo sanno. E quando vedo uomini e donne sprecare le proprie giornate al bar o perdersi nelle piaghe dell’alcol, della droga o del gioco mi dispiace. Per me, l’esistenza è infatti relazione, scoperta, curiosità; una curiosità che mi ha sempre spinto a immergermi a capofitto nelle varie culture del mondo, dato che del mondo io mi sento cittadino a tutti gli effetti. Da ogni incontro, cerco ogni volta di imparare qualcosa, poiché credo che tutti abbiano qualcosa da insegnarmi, anche coloro che, apparentemente, sanno meno di me.

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