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Tra cantautorato e psych, le infinite vite di Claudio Rocchi

Intervista. Venerdì 19 gennaio alla Libreria Spazio Terzo Mondo di Seriate si svolgerà una serata organizzata dal collettivo T¥RSO dedicata a Claudio Rocchi. La serata si aprirà con la presentazione del libro «Essenza. Vite di Claudio Rocchi» di Walter Gatti, che dialogherà con Andrea Zampieri. A seguire Montmasson (chitarra e voce) e Luca Olivieri (pianoforte ed elettronica) eseguiranno, singolarmente e insieme, alcune canzoni di Claudio Rocchi. L’ingresso è libero

Lettura 4 min.
Claudio Rocchi

Il titolo plurale del libro di Walter Gatti, «Vite», non è una casualità: cantautore e musicista, ma anche cineasta, attore, conduttore radiofonico, priore e agitatore culturale. Sembrano infinite le vesti in cui l’incessante ricerca di Claudio Rocchi si è di volta in volta declinata. Nato a Milano, emigrato a Katmandu (dove ha aperto la prima radio libera del Nepal) e tornato in Italia, a Roma, prima della sua prematura scomparsa nel 2013, musicalmente di lui si ricordano quasi sempre l’esordio « Viaggio », di disarmante e ingenua maturità, e il capolavoro « Volo Magico N. 1 ». Per chi non lo conoscesse, si potrebbe pensare al Battiato più primigenio e pazzerello, quello di «Fetus», ma screziato di spezie più orientaleggianti.

In lui c’è il cantautorato più nobile, ma anche una psichedelia che tutto imbeve; si va da ballate panteiste piano e voce come « La realtà non esiste » a ossessive e grandiose suite che più che ai cantautori nostrani rimandano agli Ash Ra Tempel e al kraut più misticheggiante, come la programmatica «Volo Magico». Che già lo conosciate oppure che sia l’occasione buona per scoprirlo, sarà la serata giusta per (ri)approcciare un autore spesso ingiustamente dimenticato, un culto appannaggio di pochi iniziati.

Noi per prepararci al meglio abbiamo riascoltato tutti i suoi dischi e fatto due chiacchiere proprio con Walter Gatti, che con il suo «Essenza» ha firmato l’opera più completa per approfondire al massimo la galassia rocchiana.

LR: Nella tua produzione ti sei spesso occupato di rock: come mai ora hai scelto di dedicarti proprio alla figura di Claudio Rocchi?

WG: Anzitutto è una figura a cui sono legato personalmente, per i miei ascolti musicali da adolescente negli anni Settanta. Poi a dieci anni dalla sua scomparsa, secondo me, c’era da colmare una lacuna. È una storia completa: l’insieme delle cose che lui ha prodotto e fatto, non solo le canzoni degli anni Settanta ma tutto il resto, non era mai stato racchiuso in una biografia completa. Quindi mi ci sono messo, e quello che è uscito è prima di tutto il libro che avrei voluto io leggere, ma ancora non c’era.

LR: Quanto risalto dai alla figura di Rocchi “cantautore” e quanto invece alle altre figure, tante, che ha incarnato?

WG: Il Rocchi musicista è chiaramente il filo conduttore, perché è evidente che tutto si dipana da questa sua dimensione. Però non si può capire la dimensione del Rocchi-musicista se non si comprende anche il suo interesse umano, culturale e spirituale. Il tentativo del mio libro è mettere insieme tutti questi aspetti per ridonare la figura di Rocchi nella sua completezza. Tenendo conto che se si pensa solo alla figura del Claudio Rocchi musicista, i quindici anni in cui è stato priore di una comunità religiosa in qualche modo si perdono, perché è vero che ha inciso due dischi e ne ha curarti altri due, ma la sua vita è stata una vita di preghiera e immersione spirituale. Queste cose vanno raccontate strettamente a braccetto, connesse le une con le altre.

LR: Nel panorama musicale degli anni Settanta lui è stato una sorta di outsider: ai tempi andava per la maggiore la classica e stereotipata dicotomia tra impegno politico e canzone più tradizionale. Lui invece ha scelto di percorrere una “terza via” tutta sua…

WG: Lui diceva che da sinistra gli davano dell’uomo di destra, da destra gli davano dell’uomo di sinistra, ma lui invece rispondeva: «io mi situo in alto». In qualche modo lui ha sempre legato sé stesso e la sua ricerca a una posizione alta e altra. Le risposte che lui cercava non facevano parte dell’agone politico degli anni Settanta. Anziché cercare di capire chi fosse il più forte tra potere politico, militare e rivoluzionario, lui cercava di approdare a una nuova dimensione spirituale e religiosa, che in quegli anni c’era ma era nascosta e non dominante.

LR: Una dimensione più religiosa o mistica?

WG: Entrambe le cose, nel senso che era spirituale e mistica pur non essendo vincolata a nessuna forma precostituita. La sua era una ricerca dell’essenza profonda dell’Essere delle cose. Il titolo di uno dei suoi dischi, e anche del mio libro, non a caso è «Essenza». Quel disco è uno dei manifesti più grandi della psichedelica mistica di quegli anni.

LR: Rocchi è oggi uno strano oggetto di culto per pochi eletti: non è il Battiato o il Battisti della situazione… Come mai?

WG: Sicuramente lui è di culto… Tra lui e Battiato tra l’altro ci fu un’intensità di rapporto non banale. La differenza è che Battiato è riuscito a trasformare la sua musica e il suo messaggio in qualcosa di fruibile da tutti, mentre invece Rocchi è rimasto cocciutamente della sua idea senza mai scendere a patti con niente e con nessuno. Ha scritto canzoni indimenticabili, pensiamo a «La tua prima Luna», «La realtà non esiste», ma anche cose successive come nel ’94 quando torna e incide pezzi come «L’umana nostalgia» che Battiato portò a sua volta dal vivo. Non ha mai smesso di scrivere grandi pezzi, fino all’ultimo disco fatto con Maroccolo. Però il successo che ha avuto tra il ’69 e il ’74 non l’ha più ripetuto; un po’ perché è cambiato il mondo e un po’ perché lui è sempre stato uno sperimentatore e non ha mai voluto produrre qualcosa che fosse “lì per tutti”.

LR: Una sorta di rifiuto ostinato del pop, laddove invece Battiato lo abbracciò…

WG: Credo che Battiato abbia a un certo punto utilizzato gli stili della canzone leggera per proseguire un percorso artistico suo. Rocchi invece è sempre rimasto ancorato a una sua visione della vita, prima ancora che della musica.

LR: Quando lo definiresti prog, visto che spesso viene infilato in quel discorso?

WG: Per niente, tant’è che lui stesso ha sempre rifiutato quell’etichetta non ritenendosi assolutamente parte del mondo prog. Poi chiaro che uno vede «Volo Magico N.1» con una suite da 18 minuti e diventa semplice inserirlo là. Però quella suite è un mantra, è un giro che si ripete all’infinito e prosegue solamente per sovrapposizioni di nuovi strumenti. Il prog invece era complesso, partiva da un giro melodico e armonica e ci costruiva, ci metteva i 7/8 e i tempi dispari, insomma era una costruzione completamente diversa. Lui è più da posizionare in quel mondo psichedelico di Donovan, dei Gong, di David Crosby, eccetera. Poi è chiaro che i Gong possono essere definiti un po’ prog a loro volta.

LR: Pensi che possa esserci un elemento biografico da cui scaturisca questa ricerca incessante di risposte da parte sua?

WG: Penso che soprattutto ci sia la sua capacità di continuare a farsi la domanda: «perché siamo qua?». Il mio libro si apre con una citazione da una sua canzone che si chiama «La rana». Questo pezzo si apre dicendo «io di mestiere nella vita voglio fare l’uomo». Credo che questo sia il vero fil rouge anzitutto dell’esistenza di Claudio Rocchi, e poi anche della sua musica. Che cosa siamo qui a fare? Le cose che abbiamo davanti ci sono sufficienti o possiamo cercare qualcosa di immensamente altro?

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