93FE310D-CB37-4670-9E7A-E60EDBE81DAD Created with sketchtool.
< Home

Luca Perri, l’astrofisico cresciuto con «BergamoScienza» che ci spiega il perché dobbiamo avere fiducia nella scienza

Intervista. Perri sarà protagonista venerdì 26 settembre della «Notte Europea delle Ricercatrici e dei Ricercatori», in programma al Kilometro Rosso con l’obiettivo di creare un dialogo diretto tra ricercatori e cittadini

Lettura 6 min.
Luca Perri ospite a BergamoScienza (Foto Laura Pietra)

Venerdì 26 settembre, dalle 18 alle 24, Bergamo si trasformerà in un grande laboratorio a cielo aperto con la «Notte europea delle ricercatrici e dei ricercatori 2025» al parco scientifico e tecnologico Kilometro Rosso, offrendo al pubblico l’occasione di scoprire il lato umano e sorprendente della ricerca.

L’evento, promosso da Fondazione BergamoScienza, insieme a Università degli Studi di Bergamo e Università Vita-Salute San Raffaele, nasce nell’ambito dell’iniziativa internazionale istituita dalla Commissione Europea. L’obiettivo? Avvicinare grandi e piccoli al mondo della scienza, creando un dialogo diretto tra ricercatori, istituzioni e cittadini.

Il programma della «Notte» sarà ricco e variegato: dai talk dei docenti dell’Università di Bergamo formati da TEDxBergamo, dedicati all’arte di comunicare la ricerca, ai viaggi nella fisica dello sport guidati da Massimo Temporelli; dalle riflessioni di Sigrid Adriaenssens, docente di Princeton, sul futuro dell’architettura ai tempi dei cambiamenti climatici, fino ai dibattiti sull’impatto dell’intelligenza artificiale tra fotografia, immagini e guida autonoma. A concludere il filo rosso della serata ci sarà il divulgatore e astrofisico Luca Perri, che dialogherà con giovani ricercatrici e ricercatori nel format «Oggetti di SC(i)EN(z)A». Abbiamo colto l’occasione per intervistarlo per parlare non solo della «Notte europea delle ricercatrici e dei ricercatori», ma anche del valore della divulgazione, dei cambiamenti nel mondo della ricerca e delle sfide future.

AL: Perché è importante creare occasioni che portano la scienza fuori dai laboratori e in mezzo alle persone?

LP: Spesso si parla di ricerca senza sapere davvero cosa facciano i ricercatori. In parte è colpa della comunità scientifica, che ogni tanto tende ad auto-isolarsi, dimenticando che fa comunque parte della società. Occasioni come questa «Notte» servono a costruire un ponte con i cittadini, che finanziano la ricerca e hanno diritto di conoscerla. È anche un modo per mostrare che esistono ricerche applicate e di base: quest’ultima, apparentemente “inutile”, è invece ciò che ci fa evolvere, come la musica o la poesia, perché è quella che nasce dalla curiosità pura e da cui derivano gran parte delle innovazioni.

AL: Nel 2025, quali sono i segnali più forti che arrivano dal mondo della ricerca?

LP: Il paradigma sta cambiando: sempre meno fondi pubblici e sempre più risorse private. Questo accelera lo sviluppo, ma concentra l’attenzione solo sulla ricerca applicata. Se i privati dovessero cambiare interesse, interi settori resterebbero scoperti. Lo vediamo nello spazio, nella medicina, nell’IA. I privati aprono nuove strade, ma l’accessibilità rimane un problema: dipende da chi ha i mezzi e le risorse.

AL: Perché è fondamentale coinvolgere i più giovani in questi eventi? Queste iniziative hanno avuto un ruolo anche nella tua vita?

LP: Perché la scienza è parte della società e serve per affrontare le sfide future. Io stesso, da ragazzo, sono cresciuto con «BergamoScienza», da figlio di un’insegnante di fisica, e questo ha alimentato la mia passione. Oggi siamo il primo e uno dei più grandi eventi scientifici in Italia, e questo mi ha dato subito la prospettiva di parlare al pubblico del mio lavoro, scoprendo quanto mi piacesse, abbattendo il pregiudizio, diffuso tra i ricercatori, che la divulgazione non sia importante. Coinvolgere i giovani è fondamentale ma non significa spingerli tutti a diventare scienziati, ma a crescere come cittadini consapevoli e liberi da pregiudizi: senza metodo scientifico rischiamo di affrontare le sfide future senza gli strumenti adeguati, invece così forniamo a chi è più libero da preconcetti delle nuove prospettive.

AL: Quale consiglio daresti a chi si sta avvicinando ora alla scienza?

LP: Non abbiate paura di cambiare strada e di seguire ciò che vi appassiona di più in ogni momento: la multidisciplinarità è una risorsa, non un limite, come ci hanno insegnato i grandi scienziati del passato, e ci permette di costruire ponti tra le iper-specializzazioni delle discipline STEM. Molti scienziati hanno spostato il loro percorso con successo, io stesso sono partito dall’astrofisica ma ho un dottorato sullo studio dei vulcani attraverso le particelle che li attraversano. L’importante è seguire ciò che appassiona, senza rigidità, perché solo così si resiste alle difficoltà.

AL: La scienza può essere raccontata anche attraverso riferimenti pop, ma sempre accompagnata da un certo rigore. Qual è il giusto equilibrio?

LP: Scienza e divulgazione hanno regole diverse ma complementari, e non ci sono contraddizioni tra gioco e regole. La divulgazione deve essere rigorosa, ma può essere anche giocosa. Io stesso mi sono appassionato grazie a riferimenti pop come «Star Wars». Per me lo spazio è come un videogioco infinito, che non finirà mai, e questo mi diverte, come tutto ciò da cui parto per parlare con il pubblico. L’equilibrio sta nel semplificare senza banalizzare: la divulgazione è un “gioco serio” che deve stimolare pensiero critico senza tradire la complessità. Una sfida della divulgazione, per esempio, consiste nel combattere le fake news. Una bufala può nascere in pochi secondi, ma per smontarla servono articoli, studi e tempo: è la cosiddetta «legge di Brandolini». Chi diffonde bufale sfrutta i bias cognitivi, i pregiudizi mentali con cui analizziamo le informazioni. Noi scienziati invece abbiamo vincoli etici: non dobbiamo manipolare, ma stimolare il pensiero critico.

AL: Quale momento ha rappresentato una svolta nel tuo percorso?

LP: Intorno ai miei dieci anni si sono sommate alcune esperienze decisive: ho visto «Star Wars» per la prima volta, ho scoperto «Stargate» e ho letto «Viaggio nel cosmo» di Piero e Alberto Angela, con cui poi ho avuto la fortuna di lavorare. In un certo senso, è “colpa di Piero” se ho intrapreso la strada della divulgazione scientifica.

AL: La tua attività divulgazione è molto ampia e variegata. Cosa ti guida e quali missioni hai?

LP: La passione e il divertimento. Non credo nei limiti prefissati dalle regole non scritte, come «le conferenze devono durare al massimo 40 minuti», ma credo nella curiosità e nelle capacità delle persone. Non devo semplificare un concetto complesso in cinque minuti: posso costruire un percorso con il pubblico, concedendogli fiducia, e impiegare anche 30 minuti ma insieme a loro. Divulgo attraverso libri, podcast, documentari, video: non tanto per trasmettere solo nozioni, ma per accendere interesse e curiosità in chi mi ascolta. Sono tutte sfide per me, che vivo come un gioco, e mi permettono di essere costantemente stimolato da progetti diversi.

AL: Qual è stata la domanda più difficile che ti hanno posto?

LP: Un bambino mi chiese: «Come faccio a sapere che la gravità esiste?». È difficile perché il «perché vedi il sasso cadere» porta a chiedere «ma perché il sasso cade?», per cui la risposta riporta alla prima domanda. Mi piace anche dire «non lo so» in alcuni casi: ammettere i limiti crea fiducia, non mina la credibilità, dopotutto la scienza si basa anche sugli errori. Poi ci sono domande bizzarre, tipo chi mi ha chiesto se la Luna fosse un ologramma o un’astronave aliena.

AL: Qual è la bufala astronomica che più ti diverte smontare?

LP: La bufala che più mi diverte smontare è quella della “penna spaziale” che potesse scrivere in assenza di gravità (che, in realtà, sarebbe assenza di peso): si dice che gli americani abbiano speso milioni per svilupparla, mentre i russi hanno risolto usando le matite. La penna c’è davvero ma la storia è falsa, sebbene insegni una cosa vera: spesso creiamo problemi che non esistono e ci complichiamo la vita, mentre la soluzione più semplice è quella migliore. In realtà matite e grafite erano infiammabili, quindi non potevano essere portate nello spazio. I sovietici adottarono i pastelli a cera, ma poi provarono a usare penne normali. È vero che funzionavano meno bene in assenza di peso, ma funzionavano abbastanza e costavano molto meno della penna USA. Solo che non lo dissero agli americani.

AL: Quale sogno astrofisico vorresti realizzare?

LP: Mi piacerebbe che venisse risolta la questione della materia e dell’energia oscura, che ipotizziamo comporre il 95% dell’universo, quello che non emette né riflette luce. Anche se la risposta fosse che non esistono, sarebbe una scoperta rivoluzionaria, perché dovremmo rivedere completamente le nostre teorie che abbiamo sin dal 1933. Al tempo stesso, non vorrei che fosse troppo facile: la scienza è fatta anche di fatica e collaborazione. Pensiamo a cattedrali come Notre Dame: chi la progettò non poté vedere l’opera finita, a cui si giunse aggiungendo un mattoncino alla volta. Così è la ricerca: ognuno scolpisce un dettaglio, e insieme emerge qualcosa di grandioso.

AL: Oggi siamo sommersi da informazioni e fake news. Come si costruisce fiducia nel racconto scientifico?

LP: Con onestà intellettuale: dire ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. Non si convince chi è totalmente ostile, ma si può dialogare con chi ha dubbi sinceri, soprattutto se nascono dalla mancanza di strumenti e da paura. L’obiettivo è togliere barriere, non crearne. Durante il Covid, ad esempio, io da astrofisico ho vissuto la situazione molto meno intensamente dei medici o dei biologi, che hanno subito attacchi molto più duri. Al massimo, i complottisti mi hanno accusato di essere finanziato dalla NASA per fingere il falso allunaggio. In un modo o nell’altro, siamo tutti complottisti su piccole convinzioni quotidiane. È umano: quando ci mancano gli strumenti, riempiamo i vuoti con supposizioni. Paradossalmente, pensare che esistano “poteri forti” che manipolano il mondo è più rassicurante che accettare un virus che ha fatto spillover da un pipistrello. Per questo, come divulgatore, so che ci sono persone “recuperabili” e persone che non lo sono.

AL: In Italia permangono molti pregiudizi legati al genere: quanto incidono sulla scienza e sulla divulgazione?

LP: Persistono: le donne sono sempre più presenti, quasi al 40%, ma raramente ai vertici (circa il 9%). Quando ero uno dei coordinatori di «Pint of Science», vedevo come, per il pubblico, un errore di un uomo è “simpatia”, per una donna diventa frivolezza. Questo limita la loro esposizione e i modelli offerti al pubblico. Serve lavorare perché la scienza sia più inclusiva, perché tuttora esistono forti pregiudizi culturali: le materie scientifiche sono ancora percepite come “maschili” e quelle umanistiche come “femminili”. Di conseguenza, ai festival vengono invitati soprattutto uomini, e i modelli proposti al pubblico restano prevalentemente maschili. Con «BergamoScienza» stiamo cercando di invertire questa tendenza, ma c’è ancora molta strada da fare.

AL: Perché è importante coltivare una cultura scientifica condivisa, che vada oltre i confini accademici e diventi patrimonio comune della società?

LP: Il metodo scientifico è uno dei patrimoni più preziosi che abbiamo. Non evita errori, ma permette di correggerli. Non deve sostituirsi alla politica, ma offrire basi solide per decisioni migliori. Coltivare e diffondere cultura scientifica significa rafforzare la democrazia e la capacità critica dei cittadini, così che la ricerca e la cultura, scientifica e umanistica insieme, non vengano più considerate campi separati, ma parti di uno stesso patrimonio. Avere una cultura scientifica diffusa significa abituarsi a confrontarsi con più voci, anche quando è più faticoso: ed è proprio questa complessità che porta a decisioni migliori.

Approfondimenti